Racconto di Anna Andreoni
ANNA ANDREONI 

«Alice»

Le scale mi pesano adesso, pensava Alice con il fiato corto,inserendo la chiave nella serratura. Cinque anni prima, quando aveva acquistato quel piccolo alloggio all'ultimo piano di un palazzaccio al centro della città, le avevano spiegato che nell'arco di pochi mesi si sarebbero dovuti decidere i lavori per l'ascensore e lei aveva detto a se stessa: «Bene, meglio così, anche se sarà una spesa ulteriore. Perché sto diventando vecchia e tra un po' non riuscirò a salire con le borse della spesa su per queste scale». Poi il consiglio di condominio aveva rimandato la decisione e lei non ci aveva più pensato. La settimana scorsa però, sul pianerottolo, la sua vicina di casa - una vecchietta come lei, sola, senza marito - le aveva manifestato l'idea di riproporre l'argomento e questa volta di insistere. «Che poi con l'ascensore lo stabile si rivaluta, no? Lo dice anche la pubblicità!».
Lo dice anche la pubblicità, pensava adesso Alice, entrando nella sua cucina linda e perfetta e depositando sul tavolo il sacchetto con il pane, il latte, le uova, la pastina per la minestra, e le scatolette di cibo per gatti. Delle più care, con gamberetti e con lepre, mangia meglio lui di me, pensava. Guardò l'ora, le undici. Non aveva fame ma non ne avrebbe avuta molta nemmeno più tardi, tanto valeva mettersi là e cercare di cucinarsi qualcosa. «Così mi tolgo il pensiero del pranzo» disse a voce alta con il suo gatto.
Non gli aveva mai dato un nome - al gatto - anche se ci aveva riflettuto per settimane e ne aveva parlato con tutti. Era un bell'animale con il pelo rossiccio e folto, due occhi intelligenti e la smania di andare sui tetti a cercare gatte quando veniva la sua stagione.
Alice gli si era affezionata come può affezionarsi ad un animaletto dolce e mansueto una persona che vive sola da molti anni, ed è di indole quieta e tranquilla da sempre.
Nemmeno da giovane si era mai data tanto da fare per stare in compagnia, anzi. Le piaceva - già allora - passare le sue domeniche a leggere o a ricamare, silenziosa, la radio accesa ma a volume basso perché poi quella marea di parole e suoni finivano con il farle venire mal di testa.
Aveva fatto la sarta, Alice. Prima di sposarsi e anche per qualche tempo subito dopo il matrimonio. Poi era rimasta incinta, una gravidanza difficile - allora non erano ancora un fatto diffuso le gravidanze difficili - ed aveva finito con il restarsene a casa. Ma era stata contenta. Le piaceva godersi lo scorrere lento delle giornate, occupare - piano piano- le sue mattine con i lavori della cucina e avere il tempo di guardare il sole adagiarsi in certi tramonti dorati sui vicoli e sui cortili, nelle sere di primavera. Si sentiva in pace con il mondo e provava un senso di pienezza, di sollievo, di benessere - proprio di benessere - che le riempiva il cuore d'euforia. Poi era nato Antonio, bello, vispo, sano. E quella specie di gioia era continuata per qualche anno ancora, tutto il mondo intorno che le faceva festa, il bambino simile ad un panetto di burro morbido e bianco da stringere, e i suoi pensieri che rotolavano pieni e pastosi tra i biberon e le fasce dapprima - e più tardi tra le carrozzine e i tricicli - e le mettevano voglia di cantare imitando i piccoli gridi deliziosi del suo cucciolo che reclamava la vita. Si sentiva a posto, realizzata. Suo marito tornava alla sera, lei aveva la tavola apparecchiata, una ciotolina di primule sul davanzale o un vaso di sempreverdi sulla cassettiera dell'ingresso, qualcosa di buono che friggeva nella pentola sopra il fornello. Se la stagione lo permetteva, lo aspettava sul balcone, o accanto alla finestra aperta, con l'aria tiepida sulla faccia, l'odore degli orti tra le case - odore di terra buona e di promesse mantenute - e le giungevano all'orecchio le voci dagli altri appartamenti, il rumore di stoviglie maneggiate, e di piatti, e di forchette. Di famiglie, insomma.
Antonio cresceva bene, rideva spesso, cercava di cantare, e stonava ed era così buffo con le gotine rosse e piene per lo sforzo di tirare fuori l'aria dai polmoni. Alice pensava: sono felice, sono proprio felice. Lo accompagnava a fare passeggiate leggere lungo il fiume dove lanciavano sull'acqua briciole per le anitre. Si sedevano su una panchina libera e lei gli raccontava della sua infanzia zuccherina in campagna, di tutte quelle fattorie piene di bimbetti che giocavano a ruzzolare nel fieno o nel fango e di quando da ragazzina andava a rubare le ciliege sugli alberi dei vicini. S'arrampicava veloce come uno scoiattolo, e i suoi fratelli più piccoli, nel prato, gridavano per farsi aiutare a salire. Pensava alla sua esistenza come ad una piccola favola con il lieto fine. Si riteneva molto fortunata.
Tante volte anche adesso i ricordi di Alice scivolavano a quegli anni, e quasi non le sembrava possibile che fossero stati così assolutamente luminosi. Ma ci credeva - certo, sapeva d'aver respirato certe mattine quiete e vaporose, d'averle avute dentro il cuore, tutte quante, tutte insieme, d'essersi svegliata con la voglia d'affrontare le giornate, con l'energia giusta per aspettarsele perfette - e non voleva sciuparli - i ricordi - o sminuirne l'intensità mescolandoli con tutto quello che era venuto poi.
Alice sospirò, ma senza troppa malinconia, solo con un po' di stanchezza. Aveva quasi settant'anni. Si alzò dalla sedia dove si era abbandonata pesantemente dopo tutte quelle scale con le borse della spesa, fece una carezza al gatto con una mano e con l'altra si allungò ad accendere la televisione. Un presentatore con la barba e un sorriso di circostanza distribuiva premi a casalinghe eccitate d'essere in diretta TV. Le veniva da ridere a guardarle. Non che si sentisse poi tanto più intelligente di loro, ma le sembrava - e non sapeva dirlo - ecco, che la vita le avesse insegnato qualcosa, e che questo qualcosa la rendesse superiore a certi stupidi entusiasmi.
Bastò quest'impressione a metterle allegria e si accorse che le era venuta persino fame. Sistemò i pacchetti degli acquisti nell'armadio e dal frigorifero tirò fuori una scodella di brodo di carne. L'aveva preparato il giorno prima - di domenica sempre il bollito, per perpetuare una tradizione familiare di quand'era piccolina - e adesso si sarebbe cucinata una bella minestrina.
Canticchiava. Il gatto venne ad annusarle le gambe. Sollevava il musetto con il preciso intento di intenerire Alice e di convincerla ad una ciotolina supplementare di latte tiepido. Spesso Alice ci scioglieva dentro anche qualche biscottino dolce, di quelli che mangiava lei alla mattina con il tè.
«Ti ho dato la tua scatolina di cibo per gatti, prima di uscire. Non mi dirai che te la sei già mangiata tutta?» gli parlava con voce infantile, appiccicata, come si fa con i bambini piccoli per sembrare più affettuosi, per farsi sentire più vicini.
Lo squillo del campanello la fece sobbalzare. Sempre quella specie di pugnalata al cuore e la faccia che avvampa. Al citofono una voce neutrale chiedeva di poter inserire volantini pubblicitari nelle buche delle lettere. Alice pigiò il bottone della serratura e immaginò il portone aprirsi con uno scatto. La vicina si lamentava sovente d'essere disturbata da postini e rappresentanti e di non dare retta mai a nessuno: «Se apri può essere pericoloso. Magari si tratta di qualche extracomunitario che cerca appartamenti da rapinare».
Non bisogna mai fidarsi di nessuno, dicevano anche alle riunioni di condominio alle quali Alice non mancava mai (aveva tutto il tempo di parteciparci).
Lei però apriva a tutti - il portone, non la porta di casa - e non le veniva mai in mente che potessero mentirle di proposito. Le piaceva che la sua buca delle lettere fosse sempre piena di volantini pubblicitari. Li prendeva con cura con la posta, li infilava nella borsetta mentre saliva le scale e la sera davanti alla TV li leggeva, uno ad uno. La divertivano. Promettevano sempre la felicità. Come le favole.
Ma lo squillo del citofono - e del telefono - la faceva stare male.
Si ricordava sempre di quella volta, e le veniva una specie di singhiozzo alla gola che poi non se ne andava per qualche minuto. Le sembrava che l'ossigeno non arrivasse più ai polmoni, e che l'aria si facesse di fuoco. Bruciava la pelle, bruciava lo stomaco e la trachea e la lingua. Tutto. Spesso le girava la testa e doveva distendersi sul letto o sul divano fino a che il suo cuore non fosse tornato a battere a ritmi più regolari. Alla fine tutto quel trambusto dentro di lei si calmava, poco a poco, riprendeva coraggio e affrontava la vita.
Da quella volta.
Il campanello. Poi era comparsa, dentro lo spioncino della porta, una faccia bianca con i baffi e il cappello, e sotto la faccia bianca una divisa. Sola in casa, una mattina radiosa, primavera sugli alberi del viale, l'acqua della pasta che faceva rumore nella pentola, la tavola apparecchiata per tre persone. La radio accesa. Suo marito e Antonio stavano per arrivare. Aprì subito senza pensare. L'uomo era impacciato, sembrava addolorato di un dolore suo tant'era la fatica che sentiva dentro mentre stava per dire quello che doveva dire.
Si alleva un figlio per quindici anni - quindici anni - e ti muore così, una macchina sbanda e lui non c'è più. Si pensa sempre che queste cose capitano agli altri, nei film alla TV, alla cugina sfortunata. No, a te no. Non possono capitare. Alice non si rese conto subito di quello che voleva dire l'uomo con la divisa, non si rese conto per giorni del dolore, era troppo forte. Pensò solo - nell'immediatezza della perdita - che aveva sprecato degli anni, lasciati volare via i suoi giorni come sabbia tra le dita, per niente.
Una sensazione tremenda. Ma non l'avrebbe confessata a nessuno, tutti l'avrebbero giudicata un'egoista. Ti muore un figlio e tu pensi che non valeva la pena di crescerlo... le avrebbero detto così. Non era questo che lei sentiva, ma non riusciva a spiegarsi meglio. Rimase zitta.
Al funerale i parenti la scrutarono. Qualcuno disse; com'è coraggiosa. Qualcun altro malignò: piange poco, è una donna fredda, senza cuore.
Senza cuore.
Riprese la vita di prima, ma aveva troppo tempo adesso. S'accorse allora di tutto quello di cui non aveva voluto accorgersi prima, di certi spazi vuoti nella sua anima, di certe serate d'ansia cacciata via con la forza, di certe inquietudini leggere ma lunghe, febbre nella gola che soffoca. La presenza di suo figlio aveva avuto il magico potere di nasconderla a se stessa. Ma ora, era nuda. Riaprì il cassetto dei suoi sogni di bambina e ci trovò dentro poche altre cose insieme a quello straccio sbiadito che era diventato il suo amore per il marito. La tradiva? L'aveva tradita. Adesso non più - anche lui era invecchiato di colpo - ma in passato non aveva esitato a mentirle. Dopo l'incidente non la lasciava più sola a casa - e aveva potuto accorgersi di quanto poco ci fosse stato prima - ma per anni lei aveva fatto finta di non vedere certe sue espressioni distratte, certi rossori improvvisi, di ignorare i suoi ritardi continui, di non capire le scuse che inventava per cenare fuori. Non le importava. Aveva Antonio. E adesso per consolarsi si ripeteva: «L'ho avuto. Anche se non c'è più».
Non pensava a lui così spesso come gli altri avrebbero potuto ritenere. Le sembrava al contrario - e si sentiva in colpa per questo - di ricordarlo troppo poco, di avere già dimenticato il suono della sua risata, i suoi passi nel corridoio, e la parlata veloce, allegra, quel mangiarsi le parole per la fretta di finire un discorso, tutta l'ansia della vita che scappa.
La sorella le disse: «Verrà a trovarti nei sogni. Ti racconterà della sua anima. Ti rassicurerà sul suo presente. Sul suo futuro». Volle crederle e lo aspettava. Suo marito scuoteva la testa e la rimproverava: «Non essere sciocca». Ma lei non gli dava retta e sapeva in cuor suo che era solo questione di tempo. Quello che le mancava di più era il contatto tra i corpi. Suo figlio era già cresciuto, ma ancora lei lo accarezzava la sera prima di dormire, lo accompagnava a letto, gli rimboccava le coperte, poi gli dava il bacio della buona notte e lui si protendeva tutto per prenderlo. L'amore con suo marito non lo facevano da anni - ed aveva tratto un sospiro di sollievo quando certe ginnastiche erano finite - e non c'era tra loro l'abitudine di toccarsi. Non si sfioravano nemmeno. Suo figlio era stato proprio questo; il piacere di sentire un corpo, il piacere di scoprire la pelle. Lo toccava, lo palpava, quand'era piccolo lo baciava tutto. Era stato nella sua pancia, ne aveva il diritto. Ne aveva un diritto esclusivo. Si era sentita appagata da quelle manine paffute che rincorrevano le pieghe del suo viso, che si afferravano ai capelli, e da quelle labbra che succhiavano le sue dita come biberon di latte, e da quell'odore di sudore e carne che si mescolava al suo odore di sudore e carne, e le era così teneramente familiare. Poi, c'erano stati soprattutto leggeri contatti e il grande piacere degli occhi - come il piacere delle mani - di guardarselo crescere quel figlio, e farsi alto e grosso, e farsi un uomo con le prime - precoci - tracce di barba scura sulle guance, e la voce roca, e uno sguardo adulto che quasi la inquietava. Poi, più niente.
Suo marito viveva come lei dentro una bolla d'aria ed era impermeabile al mondo.
Nessuna parola sarebbe stata sufficiente a colmare la lontananza dei loro due corpi.
Facevano la spesa insieme, nei negozi sotto casa - nessuna voglia di spingersi più lontano al mercato della piazza dove vendevano fiori e primizie - cucinavano silenziosamente e mangiavano davanti alla televisione accesa. Dopo la pensione, suo marito aveva cominciato a soffrire di insonnie pesanti e leggeva a letto fino a tardi.
Decisero così, per non disturbarsi l'un l'altro, di dormire in stanze separate, e Alice si sistemò sul divano letto del salotto, occupando - ma come senza pensarci - quello che era stato il posto di suo figlio.
Quando il marito la lasciò sola per sempre - un infarto inspiegabile per lui che aveva il cuore buono - tutti i parenti le si strinsero intorno maledicendo la sua sfortuna. Lei provò soprattutto rabbia perché le sembrava ingiusto d'essere l'unica della sua famiglia rimasta ad aspettare. Avrebbe avuto il diritto di andarsene prima del marito o almeno così credeva. Pianse, ma come sua abitudine in segreto, lontano dalle parole e dagli sguardi degli altri. Si comprò un gatto e se lo stringeva tutte le sere sul divano del salotto con la televisione accesa a volume azzerato: guardava le immagini ma le davano fastidio i suoni. Si rasserenò pensando che adesso sicuramente figlio e marito sarebbero venuti nei suoi sogni a tenerle compagnia - in tutti quegli anni non aveva smesso di attendere - e avrebbe potuto farsi raccontare un sacco di cose e chiacchierare e magari ridere con loro.
Qualcosa accadde, sicuramente, perché la sua esistenza cambiò poco a poco. Parlare con i suoi fantasmi dovette farle bene. Con ogni probabilità comunicarono come mai erano riusciti a fare prima; marito, figlio, moglie. O forse fu lei, da sola, a ricostruire i passaggi della sua vita in certe notti, quando non riusciva a dormire e guardava sul soffitto le facce degli altri rincorrersi, cercarsi e cercarla, sfuggirsi e sfuggirla. Scoprì che non aveva riso abbastanza, e pianto tutte le volte che avrebbe avuto il diritto di farlo, e soprattutto cantato, lei a cui cantare piaceva tanto. Si addormentava tardi, sudata anche se faceva freddo e si svegliava gridando, rossa, agitata, seduta sul letto, senza più voce.
Non erano incubi e non aveva paura. Si sentiva, anzi, più riposata dopo, e serena. Fu come liberarsi dal peso di ciò che era stata la sua vita passata. Anche di più. Guardandosi dentro si scoprì pulita, senza più sensi di colpa che la tormentavano e cominciò a pensare di avere, nonostante tutto, ancora il diritto di essere felice.
Provò l'ebbrezza - ed era la prima volta - di sentirsi libera, totalmente assolutamente gioiosamente libera. Non sapeva dirlo, ma di fatto si ritorvava piena di energia.
La sorella le telefonava quasi tutti i giorni per invitarla a casa sua - abitava in una città vicina - ma lei diceva di no, che non si preoccupassero per la sua salute, che stava bene. Non aveva voglia di affrontare i parenti, il rito di quei sorrisi di compassione che le scivolavano intorno. Certo, le volevano bene, ma anche quell'affetto, ora, le sembrava pesante, non voleva sentirselo addosso.
Si comprò un cane oltre al gatto, un buffo animaletto capriccioso che abbaiava ostinatamente ai passerotti sul balcone. Lo chiamò Lilli, anche se si trattava di un maschietto, perché le piaceva tanto quel nome. Si tagliò i capelli e cambiò alcuni mobili della sua casa. Ai più, parve stravagante nelle sue decisioni. Divenne promotrice di un comitato pro-ascensore nel suo condominio e si dichiarò pronta a dare battaglia ad ogni riunione per far valere i suoi diritti di vecchietta residente all'ultimo piano del palazzo. In realtà non era mai stata più in forma di così e faceva delle vere e proprie camminate - non si potevano chiamare passeggiate i chilometri che percorreva quasi ogni giorno - per le strade della sua città scegliendo accuratamente quartieri mai percorsi prima per poterli, appunto, scoprire. Sembrava un'altra. Di lei dissero che la solitudine e i lutti le avevano fatto perdere il lume della ragione.

L'aveva conosciuto mentre faceva la spesa al supermercato. Un signore dall'aspetto gentile, discreto. La colpirono subito le lunghe mani sottili e lo sguardo franco, diretto, seppure un poco timido. Alice stava armeggiando con il carrello e le buste di plastica da riempire. Alla cassa c'era coda, la gente si spazientiva e la commessa che aveva fretta, la guardava ostile affinché si sbrigasse. Lui l'aiutò senza riflettere, senza nemmeno chiederle il permesso. Si sorrisero e scoprirono di abitare a due portoni di distanza l'uno dall'altra. Da quel giorno si incontrarono spesso, per la strada, ai giardini del quartiere, lungo il fiume con i cani da portare a spasso. Anche lui aveva un cane, un pastore tedesco alto e grosso che guardava Lilli con sospetto, ma finiva poi con il giocarci insieme e si rincorrevano festosi, il piccolo cane e il grande cane e a guardarli mettevano allegria.
Si raccontavano le loro storie. Lui che non si era mai sposato, lei che aveva perso la sua famiglia. Lui che aveva passato la vita a lavorare in giro per il mondo, lei che aveva sempre abitato in quella città e non aveva mai varcato i confini del suo piccolo pezzo d'Italia. Lui che non si era mai sentito legato a nulla, lei che fino ad allora non aveva mai saputo cosa significasse non avere legami. Sembrava che si incontrassero casualmente, non si telefonavano mai - non si erano scambiati i numeri di telefono ed entrambi non si sentivano autorizzati a cercarsi l'un l'altro sulla guida della Telecom - ma presto cominciarono a conoscere le proprie reciproche abitudini e in realtà, ogni giorno, si cercavano.
Alice non si chiedeva il perché di quella nuova serenità, della leggera brezza che sentiva dentro di sé. Non si chiedeva il motivo di quel profumo di mughetto nell'aria - è primavera sulla città, pensava, tutto qui. Non provava sensi di colpa per la sua amicizia insolita - amici non ne aveva avuti mai - ed anzi apriva il suo cuore con gioia allo sguardo azzurro dell'uomo incontrato al supermercato. Si sentiva capita: «Parlo e mi ascolta» diceva a se stessa e lo riteneva strano, inconsueto, impossibile. Le veniva voglia - mentre camminavano l'una a fianco dell'altro - di allungare una mano e afferrare le sue dita, ma poi non trovava il coraggio per farlo.
Un giorno il suo amico le parve triste - lui che non lo era mai - preoccupato, amareggiato. Alice gli domandò subito che cosa gli fosse capitato e lui le raccontò che doveva lasciare entro pochi mesi l'alloggio nel quale abitava, aveva ricevuto l'intimazione di sfratto.
«Sono stanco e non ho più la forza di cercare una nuova casa. Oggi è così difficile sistemarsi decorosamente se non si conosce qualcuno di importante. Dovrò cambiare quartiere. Magari finirò con l'abitare molto lontano da qui» le disse e quasi stava per piangere. Alice avrebbe desiderato abbracciarlo, tenerselo stretto sul cuore - aveva voglia di toccarlo - ma era davvero impossibile per lei riuscire a farlo. Furono le parole però che uscirono da sole e vinsero ogni incertezza. Le sentì tutto ad un tratto sulla punta della lingua e tutta la sua energia non poté fermarle come la ragione chiedeva: «A casa mia c'è posto per due. E io sono tanto sola. Venga ad abitare da me. Sono sicura che staremo bene insieme».
Si guardarono per un attimo in silenzio. Alice non credeva a se stessa; a quello che era riuscita a dire e si domandava: «Mio dio, come ho potuto farlo?».
Poi, tutti e due, si misero a ridere. Alice non ricordava di essersi sentita mai così felice.

Copyright © 1994

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