Racconto di Cinzia Morselli
CINZIA MORSELLI 

Ricordi d'estate

La fine della scuola, il caldo, le lunghe giornate di ozio: l'estate.
Finalmente la libertà.
Allora si partiva, tutti i giorni.
Una distesa di erba alta, rovi, siepi di more, cespugli, un solo albero grande, cavo, con rami arzigogolati e senza foglie che si intrecciavano fitti, magico. Il tutto era delimitato in fondo dagli argini di un canale artificiale e di lato da una stradina sterrata parallela ai binari della ferrovia. Nessuna protezione li cingeva, stavano lì dove il prato continuava. Questa era la nostra terra di conquiste, la meta dei viaggi e delle avventure che sognavamo.
Noi, gli esploratori.
Eravamo tutte bambine. Ma con uno scenario come quello a disposizione i giochi non potevano essere di bambole, ma di cavalli, di draghi, di terre fatate da esplorare. Io leggevo molto e mie erano le fantasie da seguire. Marcella la più grande era il capo indiscutibilmente coraggiosa come suggerivano i lineamenti del suo viso: duri, taglienti, decisi. Elena era magra e sua sorella lo era ancora di più: valorosi soldati semplici ci accompagnavano a volte riluttanti. Forzatamente si univa a noi, unica eccezione in quell'esercito di amazzoni provette, mio fratello: «Portami con te, altrimenti lo dico alla mamma». Il fascino della nostra terra straniera era quello: era proibita, assolutamente.
«È pericoloso, la ferrovia non è delimitata da nessuna protezione, così come non sono protetti gli argini del canale, e poi chi sa quanti strani animali e cos'altro. Insomma non ci si può andare e basta!». Il giudizio dei nostri genitori era concorde e inappellabile.
«Andiamo a giocare dietro la casa». Giravamo lungo la fiancata rossa del nostro palazzo e poi molto circospette scavalcavamo il cancello: brivido che segnava l'inizio di tutte le avventure che ci attendevano oltre la recinzione che non riusciva a fermarci.
Ogni giorno era diverso: cercavamo unicorni, uomini con due teste, draghi...
La terra si muoveva, un rumore flebile ma sempre più insistente solcava l'aria poi il fragore: il mostro era arrivato. Grande, veloce, ringhiante... E noi verso di lui con le nostre armi di legno, senza paura, decise...
Lui ci guardava con centinaia di occhi senza pupille che sfavillavano al sole, tremendo, feroce...
Ma delle grandi guerriere coraggiose non indietreggiano davanti ai pericoli, anche quando hanno tanti occhi e emettono dei ruggiti tremendi. Il drago era spaventato da tanto ardire. E sempre, o dietro gli argini del canale, o dietro la siepe che segnava l'inizio della strada, si ritirava ringhiante con la promessa di rinviare la resa dei conti alla prossima volta quando cogliendoci di sorpresa sarebbe riuscito a sopraffarci.
Noi restavano lì incredule e stupite della nostra forza, e ci veniva da ridere. Allora ci buttavamo nell'erba e ruzzolando e ridendo festeggiavamo la vittoria.
Adesso ogni tanto mi chiedo cosa pensassero quei passeggieri dietro ai finestrini del treno quando guardando distrattamente fuori incontravano lo sguardo di quell'esercito di bimbe sudate e ululanti che inveiva verso di loro, brandendo spade di legno...
Ancora mi viene da ridere.

Non ci importava di nulla: del caldo, del sole, dell'afa. I nostri corpi appiccicavano di sudore mai stanche continuavamo a correre con un'energia inesauribile, come quelle giornate che sembravano non finire mai.
«Marcella, bambine, Elena, Cinzia: dov'è tuo fratello?».
Il segnale: bisognava tornare.
Ma l'indomani si ricominciava, mica era finita l'estate, mica era ricominciata la scuola. Il tempo per noi che avevamo dieci anni aveva una scansione dilatata, irreale: di certo quelle vacanze sarebbero durate in eterno. E il giorno dopo, scavalcare e via.
Il progetto a volte diventava così ardito, che quasi eravamo spaventate dal pensiero di osare tanto: Il canale.
Tregua ai draghi e ai mostri ringhianti. Con l'incoscienza tipica di mitici esploratori, che altrimenti non avrebbero scoperto nulla, con circospezione, per paura di essere scoperte molto poco prudentemente, ci avventuravamo su per quegli argini. Io tenevo per mano il mio fratellino, mi sentivo molto responsabile, in fondo lo stavo trascinando fra chissà quali pericoli...
Lo spettacolo che ci attendeva già da molto tempo aveva smesso di essere in accordo con la natura a cui avrebbero diritto tutti i bambini. Ma a noi allora non importava, eravamo in cerca di misteri e magie anche tetre e nere. Dovevamo appagare i nostri spiriti indomiti e coraggiosi. Ed eravamo accontentate: rifiuti di ogni tipo, consistenza, odore si impigliavano nelle bocche di scolo del canale. Cadaveri gonfi di cani e gatti, una volta persino una mucca che chissà come diavolo era finita là dentro, costituivano uno spettacolo consueto.
Noi osservavamo attente, facendo ipotesi e cercando di ricostruire il destino di quei ruderi, finché una zaffata più pestilenziale delle altre non ci obbligava ad abbandonare correndo quel museo degli orrori.
Si vociferava spesso di corpi umani orrendamente sfigurati che andavano a impigliarsi dentro quelle bocche: giovani donne schiacciate da rimorsi o delusioni, ragazzi che avevano confidato erroneamente nelle loro capacità natatorie, o persone che solo per caso si erano trovate a passare per di là e che scivolavano dentro l'acqua per rispondere a chissà quali oscuri richiami...
Ma noi per fortuna non ne vedemmo mai, anche se allora questo ci deludeva enormemente.
Ritornate sotto l'ombra, molto esigua per la verità, dell'albero cavo, continuavamo per ore a fantasticare su quello che avevamo visto così accalorate che a volte dimenticavamo la nostra sfida coi draghi della strada ferrata, che delusi dalla nostra defezione sembravano allontanarsi quasi in silenzio.
Ma sempre ritornavano i richiami che segnavano la fine per quel giorno delle nostre esplorazioni. Allora si rientrava furtivamente verso casa, inventando scuse, lasciandosi un po' andare alla stanchezza che prima, quando eravamo padrone del nostro tempo in quel mondo magico, non ci pareva di sentire.
Nessuna di noi avrebbe voluto mai abbandonare le altre e quel posto.
«Domani partiamo per il mare! Non siete contenti?».
«Sì, ma perché io e Massimo non possiamo stare a casa con il nonno e la nonna. Marcella, Elena e sua sorella non partono».
Quale viaggio vero avrebbe mai potuto eguagliare i nostri?
Ma si partiva.
Al ritorno le giornate erano un po' più corte e un po' più fresche di quando eravamo partiti.
«Avete fatto i compiti?».
Era sempre più insistente la mamma. Ignoravamo testarde ogni indizio che faceva pensare alla fine dell'estate. A volte non era difficile, bastava cercare di costruire una capanna, che una volta pronta ci avrebbe permesso di abitare lì per sempre...
Ma tutto sembrava cospirare contro la nostra voglia di libertà: il sole era più tiepido, quasi stanco, la sua luce non era più accecante e densa di afa, ma più dolce e nostalgica. I nostri corpi nonostante gli scontri con i mostri di fuoco, non appiccicavano più di sudore. Si capiva che qualcosa stava cambiando.
Alla fine ci arrendevamo: abbandonate le esplorazioni e le lotte quasi fossimo ormai sopraffatte dalla stanchezza di tutti quei mesi, cominciavamo a rimpiangere la libertà che ancora non era finita, ma che già ci mancava.
«Quest'anno vado in quinta, e mia madre mi ha già detto che dovrò impegnarmi molto se voglio la bicicletta nuova. Quindi penso che non avrò molto tempo per uscire».
Mi si stringeva il cuore: la scuola, i compiti, le giornate grigie, il freddo, il buio.
«Ma perché l'estate, deve finire. Non è giusto, non voglio».
Urlavo mettendomi a correre, se fosse passato un drago in quel momento avrebbe avuto certamente il fatto suo. Le altre mi guardavano e poi si univano a me urlando anche loro, in una sorta di rito magico per scacciare l'autunno per prolungare la felicità, la libertà...
Non serviva a niente.
Non è mai servito a niente.

Copyright © 1994

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