Mi immaginavo già in qualche sperduto angolo della Tunisia, a godere di quegli immensi spazi desertici contornati da palme tropicali che invitano il turista sprovveduto e a digiuno della storia locale a fantasticare su un improbabile e fascinoso mondo di predoni del deserto e sublimi oasi, dove decine di seducenti fanciulle indigene si prendono cura di te per trasportati in chissà quale mondo di piaceri e di lussuria, quando all'improvviso... tutto è andato a monte. I soliti impicci dell'ultimo minuto hanno impedito l'avverarsi dei miei sogni da cittadino frustrato e desideroso di mollare tutto per nascondersi in una anonima isola tropicale.
È stato così che è iniziata la mia ennesima vacanza-ripiego verso una non molto lontana terra chiamata Calabria, dove in un piccolo e sperduto paesino delle Serre Calabresi, nel bel mezzo della Sila Piccola, si annida quello che rimane della mia parentela materna, un ancora nutrito gruppo di zii, cugini e affini che, appresa la notizia del mio arrivo, non vedono l'ora di mettermi sotto torchio per impossessarsi di tutte quelle notizie del mio privato che potrebbero portare un po' di movimento all'interno di un paese dove il tempo sembra non passare mai, ma dove i pettegolezzi sullo straniero (veri o presunti che siano), hanno la capacità di far concorrenza alla più moderna portinaia del nord Italia.
Così, di punto in bianco, ai primi di agosto, ho iniziato a meditare di passare alcuni giorni tra quei parenti lontani che non vedevo oramai da più di quattro anni. Preparata una scarna valigia contenente solo il necessario per una breve permanenza in terra di briganti e impacchettati i soliti regali di rito per una parentela che aspetta di scoprire con ansia maniacale se ti sei ricordato di tutti loro, mi sono imbarcato sulla mitica «Conca d'Oro» che nel giro di 12 lunghissime e insonni ore di viaggio mi ha catapultato in un mondo che è rimasto esattamente come lo avevo lasciato l'ultima volta che vi ero stato. Dodici lunghe ore di sballottamento ferroviario dove i miei pensieri vacanzieri sono stati frullati e impastati in quella che si potrebbe definire una lista di impegni irrinunciabili, dettati dalle ferree regole del protocollo di parentela del profondo sud, dove tutto si sarebbe svolto esattamente come nelle visite passate.
Durante le tre ore precedenti il mio arrivo alla stazione di Lamezia Terme, un continuo costeggiare l'infinito tratto tirrenico di spiagge sassose e selvagge che si fondono in un panorama di pace marina dominato da scogli rocciosi ma imponenti e regali, mi trasporta in un mondo di benessere fisico e mentale, dettato dall'improvvisa mancanza di impegni di lavoro e dalla lontananza da quella città dalle sembianze sempre più americane e al limite dell'isterismo collettivo che da tempo chiamano Milano. Il treno si allontana per poco dalla costa per sfrecciare in un campo collinare, dove una contadina dal viso abbronzato e segnato dal duro lavoro sotto un cielo non sempre propizio, si erge a guardare il mio treno che, senza farsi annunciare, entra come un razzo nella piccola proprietà dell'anziana donna e che, per niente indispettita di tale intrusione, lascia momentaneamente il suo lavoro per salutare con la mano chi, come me, ritorna alle sue origini, un saluto che quasi vuole dirti: «Benvenuto nella mia terra che spero sia anche la tua nella tua breve permanenza».
L'anziana donna si fa sempre più lontana e mi sento stranamente felice di questo inaspettato saluto di benvenuto, in un luogo dove il forestiero, che lo voglia o no, viene avvolto e coccolato da una indescrivibile voglia di trasferirvisi per sempre, lontano da quella montagna di appartamenti e uffici urbani dove la gente dimentica le fondamentali regole del vivere in comune, dando solo sfogo alle proprie esigenze di benessere personale, dettate da una società cittadina ipocrita e individualista.
Così, sempre più tentato dal transumare in questa terra che sento molto vicina, arrivo alla mitica meta di Lamezia Terme, dove ritrovo uno dei miei tanti cugini, ingaggiato per l'occasione da mia zia Triestina a farmi da scorta sino al paesello, a quasi novecento metri di altezza. Dalla piana di Lamezia iniziamo a percorrere chilometri di terra dal tipico colore giallo bruciato; mi rammarico del fatto che mia zia non sia venuta ad accogliermi alla stazione, come buona regola dei parenti del sud. Gli anni iniziano a farsi sentire anche per lei e comunque, avrò tutto il tempo che vorrò per godere della sua semplice ma decisa persona.
Arriviamo finalmente a Brognaturo, questo piccolo incanto delle Serre Calabre e, non ancora sceso dalla piccola Fiat, intravedo la mitica zia che, dal piccolo balcone di casa, mi saluta con un timido ma dignitoso ondeggiare della mano, facendomi ricordare l'anziana contadina che poche ore prima mi aveva dato il benvenuto in questa terra. Nulla è cambiato in casa sua: tutto è esattamente come lo avevo visto almeno venti anni fa. Il necessario per poter vivere dignitosamente e nient'altro. Se involontariamente le chiedo perché non abbia una certa cosa, lei mi risponde «Che ni serva?» (A cosa serve?), con quella tipica semplicità contadina, caratteristica di non superfluo, facendo sorgere in me il dubbio che metà di quello che si trova nel mio appartamento potrebbe essere tranquillamente buttato dalla finestra perché semplicemente inutile al normale trascorrere della vita quotidiana. Mi rendo conto che è tutto vero e mi ripropongo di eliminare al mio ritorno, tutte quelle inutili comodità cittadine che invece di renderti la vita più facile te la complicano fino all'esasperazione.
Come di rito, nel giro di un'ora, quasi tutti i parenti del piccolo paese vengono a trovarmi quasi in processione, dandomi come la sensazione di essere molto vicino ad una divinità che raramente si mostra ai suoi fedeli. Un'usanza che quasi mi commuove perché è come se tutti si sentissero in dovere di alleviarti dal gravoso fardello di dover girare per l'intero paese a salutare i propri parenti, dopo aver affrontato un lungo e faticoso viaggio. E così, uno dopo l'altro, rivedo visi a me noti, che il lento scorrere del tempo ha modificato di poco o quelli di giovani cugini la cui fisionomia muta rapidamente come le dune di sabbia nel deserto, ricordandomi che il tempo non risparmia nessuno.
«L'ava la zita?» (Ce l'hai la fidanzata?). Una classica domanda che qualcuno pone a mia zia, non ricordandosi che capisco perfettamente il dialetto. «Allora non l'ava» (Certo che ce l'ha!) risponde tutta orgogliosa, dopo essere stata aggiornata sugli ultimi sviluppi della mia vita sentimentale che nel giro di breve tempo potrebbe portarmi all'altare.
E così, come il tam tam nella giungla, si sparge la notizia del mio fidanzamento tra parenti e semplici conoscenti, che si lasciano assalire dalla tipica felicità che un avvenimento simile può procurare in una comunità piccola come quella di questo paesino. E tutti, si congratulano e sorridono e cercano (invano) di invitarmi, un giorno, a pranzo a casa loro. Tutta questa semplicità e voglia di vivere mi fanno gongolare di una strana gioia che a Milano non credo di avere mai provato, luogo dove qualsiasi cosa si faccia è quasi un qualcosa di dovuto alla società e quindi non una occasione per poter stare insieme con le persone più care. Pazienza. Per ora sono in vacanza e non ho alcuna intenzione di perdermi un solo minuto di tutte queste emozioni familiari che in territorio lombardo sarebbero da fantascienza.
«Stai per la festa?» mi chiede immancabilmente qualcuno che crede che le vacanze siano ancora di quattro settimane, come durante gli anni Settanta, dove si poteva godere veramente del luogo in cui si soggiornava, a dispetto di ora, in cui i tuoi quindici giorni di meritato riposo, non ti danno nemmeno il tempo di prendere fiato che devi subito ritornare in ufficio, a rapporto dal capo, in nome di quello che oggi viene definito «schema produttivo aziendale», che ritiene più che sufficienti due settimane di vacanze estive per eliminare lo stress e l'odio verso il proprio capufficio e ritornare freschi e pimpanti come se gli ultimi undici mesi non fossero mai esistiti.
Ma torniamo alla «festa»: qui, il termine festa, si riferisce alla festa di Maria Santissima della Consolazione, che la prima domenica di settembre richiama folle di fedeli desiderosi di gremire la minuscola chiesa settecentesca dove, dall'alba sino a sera inoltrata, si svolgono le funzioni religiose, registrando sempre il tutto esaurito! Una giornata di tipica festa del sud, in cui l'intero paese viene reclutato per far funzionare i complessi ingranaggi religiosi e folcloristici di questo giorno atteso con ansia. Così, girovagando per il paese, ci si imbatterà nella statua della Madonna, portata a spalle dai soliti fusti locali, e si incontreranno decine di comari che faranno la spola tra casa e chiesa, per assicurarsi che nel piccolo santuario tutto proceda come sempre convenuto. E un po' affranto, dal fatto di non poter assistere a questa grande opera a cui tutto il paese contribuisce come meglio può, quasi rimpiango di non avere tutta questa loro fede religiosa che li unisce ogni qualvolta le varie necessità della vita lo richiedono.
Intanto, tra un pranzo e l'altro, tra una chiacchierata e un bicchiere di nocino, mi compiaccio per aver optato su questa breve ma sana vacanza familiare, anche se si sta svolgendo esattamente come preannunciato. Ma non me ne dispiace: in un imprecisato villaggio turistico della Tunisia, avrei incontrato qualche milanese che, inesorabilmente, avrebbe dirottato i discorsi sul lavoro a lui tanto caro, rovinandomi quei pochi momenti in cui la politica aziendale avrebbe dovuto restare lontana anni luce dalla mia vita privata. Qui, invece, rivivo tutte quelle emozioni che dovrebbero far parte della vita di tutti i giorni, come lo è il pane sulle nostre tavole: il senso perduto della comunità, quella sottile religiosità che accompagna nel quotidiano questa gente, semplice e onesta come tutte le comunità contadine sanno essere. Una generosità interiore e spontanea e un altruismo che lascerebbero a bocca aperta un qualsiasi yankee nostrano. Così, mi godo fino in fondo, la vita di questo paesino che tra aspetti positivi, controsensi e un pizzico di provincialismo, mi fa rimpiangere di salire su quell'aereo che mi riporterà a casa, lontano dalla mia gente del sud.
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