Così recita il testo d'uno dei tanti graffiti urbani, che sono come urla silenziose gettate a sommuovere lo stagno della solitudine e del malessere imperanti fra le folle cittadine. La scritta di cui parlo, appare, vergata a caratteri decisi, con un coccio d'argilla rossastra, sul muretto d'un parco, che si estende sulla riva del fiume.
Quando, passandoci di fronte, la leggerete, pensate a me, all'autrice del messaggio, una ragazza comune, anonima che più non si potrebbe, una goccia d'acqua nella marea del malessere della gioventù del nostro tempo, che si sente andare alla deriva, in un mondo che più non offre alcun appiglio sicuro. Ho ben poco da raccontarvi. La mia giovane vita è come la pagina di un quaderno di scuola, su cui l'insegnante ha apposto tanti fregacci rossi, a segnalare gli errori e i fallimenti che l'hanno costellata, a partire dalla brusca fine della mia infanzia dominata dalla figura del nonno materno, un uomo all'antica, ma meraviglioso, non ancora asservito ai canoni della civiltà dei consumi, che privilegia l'avere sull'essere. Accanto a lui, ho vissuto una splendida stagione di sogno, la quale è svanita all'improvviso con la sua morte. La mia adolescenza è stata un periodo tempestoso, poiché le difficoltà e i problemi, che esse di per sé comporta, risultavano, nel mio caso, resi incandescenti dalla mancanza d'intesa fra i miei genitori, la quale sfociava pressoché quotidianamente in discussioni e alterchi violenti, tanto che, quando entrambi, alla vigilia della rottura d'una convivenza divenuta insostenibile, in cui mi sentivo non già come una figlia fatta oggetto d'amore, ma solo come un terzo incomodo, perirono, in un incidente d'auto, non versai neppure una lacrima.
Da allora mi ripiegai completamente su me stessa, come il gelsomino notturno dell'omonima lirica pascoliana, che tanto mi appassionò sui banchi del liceo, forse perché mi ci vidi riflessa come in uno specchio. Non c'era più nulla in me della bimbetta fiduciosa, serena, generosa, aperta al mondo, che un giorno, andato a passeggio col nonno, come in un'altra esistenza, era scoppiata in un pianto dirotto di fronte a un grande crocifisso, che rappresentava il Salvatore con enormi ferite sanguinanti alle mani, ai piedi, al capo e al costato e aveva cercato di asciugare quel sangue col suo fazzolettino, arrendendosi solo dopo ripetuti tentativi all'evidenza: si trattava solo di innocue macchie di vernice vermiglia, collocate su di una statua inerte.
Stamani mi sono guardata a lungo nello specchio e, con in mano una vecchia istantanea di quei giorni felici, ho constatato che di quella Valentina non sopravvive più nulla, né sotto l'aspetto fisico, né, soprattutto, sotto quello interiore. L'immagine, che mi fissava dalla lastra argentea, aveva uno sguardo vuoto, vitreo, attraversato da brevi lampi come di follia. Oh, certo, sono una ragazza elegante, efficiente, apparentemente sicura di sé, o almeno è quel che pensano tutti, a cominciare dall'uomo, di cui sono segretaria personale, il quale è assai soddisfatto di me e non solo sotto il profilo professionale. Che volete? Da un pezzo ho rinunciato a credere nelle favole, in Cenerentola e nel suo principe azzurro e, da vera figlia del mio tempo, ritengo che i doni che madre natura mi ha dato vadano valorizzati e spesi nelle concrete circostanze dell'esistenza e non capitalizzati nell'attesa d'un Amore, che ho smesso di aspettare da un pezzo. Così, agli altri concedo i miei sorrisi a fior di labbra, le mie parole mielate, se capita, anche il mio corpo, con molta disinvoltura, poiché ritengo che ciò faccia parte del mio ruolo, ma senza coinvolgimenti sentimentali. Sotto questo aspetto si può dire che io sia come una statua di marmo, anche se, ovviamente, nessuno se ne accorge. Nessuno sospetta minimamente che, nel cuore delle mie notti, quando mi sveglio, nella mia splendida stanzetta, situata in un attico, da cui si può ammirare la distesa di tetti, torri e campanili dell'intera città, io rimpiango i giorni lontani, perduti, in cui ero una bimbetta arruffata e goffa, ma felice e un urlo di dolore esploda nel mio petto. Capita che al mattino io mi desti col volto devastato dal pianto, appoggiato su un guanciale intriso di lacrime, dopo un sonno agitato, nel quale ho fatto lo stesso sogno ricorrente, in cui una signorina elegante, sofisticata, ma inconsistente come una bolla di sapone – il mio io di oggi – finisce per cadere al suolo spossata, dopo un'inutile corsa affannosa, con cui cercava di raggiungere una bimba, che le sorrideva radiosa e le tendeva le braccine, il mio io di un ieri più lontano della luna.
L'altra sera, appoggiata al parapetto d'un ponte e osservando le onde del fiume, che si inseguivano accavallandosi turbinose dopo le recenti piogge, ho avvertito il peso del tempo che passa (ma si tratta davvero d'un senso di peso o non piuttosto di liberazione?), macinando attimi, frammenti, brandelli di vita, ammesso che si possa definire vita la mia, orchestrata secondo orari immutabili, scandita dalla tirannia delle lancette dell'orologio, in perenne oscillazione fra la casa e l'ufficio, con qualche frettolosa puntata nel negozio più vicino, sempre assillata da orari frenetici. Mi sono riguardata nello specchio e ho sorpreso il primo capello bianco nella mia chioma nera fluente. Ho 25 anni e non ho ancora cominciato a vivere, se vivere significa qualcosa di più che non dormire, mangiare, lavorare, rifarsi ogni mattina il trucco, per poi toglierselo a sera e lasciarsi andare fra le braccia del capufficio, quando ciò gli accomoda, tutta sorrisi, per soffocare il pianto e il groppo di amarezza e disperazione, che ti senti dentro, fingendo un trasporto e un piacere che non avverti, ridotta anzi a provare un disgusto crescente, il quale ti porta ormai a odiare con tutte le forze te stessa. Sono così pervenuta alla decisione di stendere un bilancio della mia esistenza e mi sono rivolta una domanda precisa e impietosa, ma necessaria nella sua essenzialità: «Chi sono io? Chi è veramente Valentina? Tra le mille diverse Valentine, che si sprigionano da me ogni giorno, a seconda delle circostanze, ce n'è una vera e, in tal caso, qual è? Quella che fissa il cielo con occhi gonfi di pianto, la notte, prima di distendersi sul letto, in attesa del nuovo giorno, e innalza una tacita preghiera a quel Qualcuno, che dirige il supremo concerto degli astri e delle costellazioni e che un giorno, servendosi di un rozzo crocefisso di legno, parlò al cuore di una bambina, riempiendolo di tanto amore e tanto dolore, che cosa ha a che fare con quell'altra Valentina, lontana da lei anni luce, che accetta con tanta buona grazia e condiscendenza almeno in apparenza le avance del principale, un essere viscido e abbietto, come trascinata da una suprema volontà di degradarsi e autodistruggersi?».
Mi è sorto il dubbio che sia impossibile dare una risposta all'interrogativo di cui sopra. Frastornata come sono, mi sento portata alla deriva come una di quelle foglie, che ho visto, dalla spalletta del ponte, passare in un lampo, in balia della corrente. Dove sono quelle semplici certezze, che avevo da bambina, quando il nonno mi raccontava le sue storie di sera e in me sentivo montare la marea luminosa del sonno, con la sua rete a strascico colma di sogni?
Ecco perché ho gridato nel vento, verso il fiume e il suo rombo di creatura affannata, in corsa verso un traguardo, che lo chiama, verso la città, che andava fiorendo di mille e mille luci, con voce prima limpida e poi roca: «Valentina? Valentina non esiste».
Di là sono tornata nel piccolo parco, dove andavo a giocare al tempo della mia infanzia, tenuta per mano da un vecchio. Tra poco anche quell'insieme di muscoli, nervi, delusioni, illusioni, amarezze, che si chiamava Valentina Parlato, non sarà più che un nome inciso su una gelida pietra. Nell'atto di entrare nel piccolo spazio verde, su cui sta calando la notte, un impulso invincibile mi ha spinta a curvarmi e a raccogliere un pezzo di mattone, con cui ho versato la scritta, mediante la quale, nel momento di uscire di scena, ho inteso, per la prima e insieme per l'estrema volta, sia pure in forma negativa, lanciare in faccia al mondo e al destino una disperata affermazione di me stessa. Il mio gesto è un po' simile a quello di chi, in atto di sfida, quando si ribella ad un grave sopruso, lancia il guanto a colui, che considera responsabile dello stesso. Con me ho portato, nella borsetta, insieme col materiale per il trucco, un intero flacone pieno di compresse e una bottiglietta di liquore, che fra poco mi daranno l'oblio. E nessuno chiami il mio un suicidio. Non si può uccidere Valentina. Non esiste.
Sto contemplando la luna piena con occhi velati di pianto. Forse sarà l'ultima immagine che vedrò, seduta su questa panchina, mentre stormi di foglie mi volteggiano intorno. Tace la voce dei grilli, ma poco lontano quella del fiume sembra una nenia, che tende a favorire l'invincibile senso di sonno, che comincia ad opprimere le mie membra, segno evidente che il rimedio da me prescelto come viatico per raggiungere l'uomo che mi ha amata più della vita, inizia a fare il suo effetto.
Oh, come vorrei esser rimasta bambina, com'ero in quella notte di plenilunio di mezza estate, in cui il nonno mi portò in aperta campagna e, dopo avermi indicato le varie costellazioni celesti, si divertì a raccogliere lì sull'erba una manciata di rugiada, che egli chiamava «lacrime di luna», spalmandola poi delicatamente con un polpastrello sulle mie guance paffute e facendomi credere che in tal modo mi avrebbe introdotta nel mondo delle fate. Ed effettivamente quella notte in sogno ero diventata una di quelle strane creature e vagavo nell'azzurro di una pianura sconfinata, fra cumuli lanuginosi di nuvole, per mano ad un nonno, che sembrava aver ricuperato l'energia dei vent'anni e aveva incastonati nelle occhiaie due purissimi diamanti di stelle. Anche stanotte la luna sta spargendo le sue lacrime sui fili d'erba ai miei piedi ed esse continuano a brillare nella sua luce d'argento e a raggiungere i miei occhi attraverso le sottili fessure delle palpebre. Sbaglio o una voce ben nota mi sta sussurrando come un tempo: «Buona notte, Valentina!» e aggiunge: «Mi troverai al di là del ponte ad aspettarti?». Di dove mi giunge questa voce, che accarezza i miei timpani, mentre scivolo nel sonno? Forse dai giunchi della sponda del fiume agitati dal vento? Si sta avverando anche nel mio caso l'incantesimo descritto nel mito greco, secondo il quale la ninfa amata da Pan, la bellissima Siringa, trasformata per l'appunto in un giunco, rivisse come voce dolcissima, sprigionata dallo
zufolo?
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