Racconto di Carla Mandelli Stuani

CARLA MANDELLI STUANI

Per volontà di Claudio

Marisa stava finendo d'apparecchiare la tavola: la tovaglia bianca ricamata, del battesimo di Claudio, i piatti di porcellana, le posate d'argento, regalo di nozze della zia Flavia. Non le aveva mai usate, ma quello era un pranzo speciale, aveva ospiti speciali. Nel mezzo della tavola s'ergevano sei stupende rose rosse. Tutto era pronto, peccato che Oreste non ci fosse.
Marisa s'avvicinò alla finestra e guardò nella strada sottostante: i ragazzi e i bambini del quartiere giocavano a pallone, correvano in bicicletta o sui pattini. Per un attimo volle sporgersi e gridare: «No! Non giocate nella strada! Tornate alle vostre case, dalle vostre mamme!» ma sapeva di non averne il diritto e non solo perché non erano figli suoi.
Suo figlio era morto proprio giocando in quella strada: perché vicino a palazzi così grandi e popolati non facevano uno spiazzo per far giocare i bambini? In altre nazioni c'erano! Lei raccomandava sempre a Claudio, prima di andare a lavorare, di essere prudente, di non andare a giocare in strada, di non uscire; che l'avrebbe portato lei, più tardi, ai giardini.
«Ma mamma! – protestava lui – Non posso chiudermi in casa! Fuori c'è il sole, ci sono gli uccelli, i miei amici. Cosa vuoi che mi succeda?».
E lei sorrideva orgogliosa della sua sicurezza.
Quel giorno la sua vicina di casa, le aveva telefonato in ufficio: «Marisa? Vai subito all'Ospedale Maggiore: Claudio è caduto dalla bicicletta e l'abbiamo portato al pronto soccorso. Non è niente, non preoccuparti; ma è meglio che tu gli sia vicino!».
Lei aveva telefonato subito ad Oreste e si era precipitata all'ospedale. Un'infermiera la fece accomodare in un salottino e, vedendo la sua agitazione le disse: «Stia calma, signora. Suo figlio è in sala operatoria: andrà tutto bene. Vedrà!».
«In sala operatoria? Perché?».
«Ha battuto la tesa e stanno facendo gli esami!».
Arrivò Oreste, col cipiglio severo dei momenti peggiori: «Che è successo?».
«Non lo so bene... Claudio è caduto dalla bici e ha battuto la testa».
Solo più tardi seppero invece, che era stato investito da un'automobile e il conducente non s'era nemmeno fermato.
«Doveva essere in casa, a fare i compiti!» sentenziò Oreste, ma la sua voce era più morbida, preoccupata.
Tre ore! Tre intere, lunghissime, estenuanti ore; seduti su quelle scomode poltrone, con gli occhi fissi alla porta.
Marisa aveva ripercorso, con la memoria, la vita di suo figlio. Era nato dopo sette anni di matrimonio, quando ormai lei e Oreste s'erano rassegnati a vivere senza figli. Era nato bene, cresciuto senza complicazioni, senza gravi malattie; era vivace, intelligente, curioso. Lei aveva continuato a lavorare, affidando Claudio ad una brava ragazza, loro vicina di casa. A dieci anni s'era abituato a restare solo, le poche ore dalla fine della scuola al suo ritorno dal lavoro. Con chiarezza, quasi lo stesse vivendo, Marisa rievocò... in prima elementare: stava sillabando. C'era un vaso disegnato a brocca e, ai quattro angoli del disegno, c'erano le V di vaso e lui, impegnatissimo, sillabava: «V... V... V... caraffa!».
Quella volta che aveva contestato la paternità di Gesù! Lei aveva cercato di spiegargli che era un mistero, perciò inspiegabile e che, in ogni caso, era stabilito che Gesù era figlio di Dio e che Giuseppe era solo il padre putativo. Claudio era rimasto un po' a riflettere; poi aveva deciso: «Ma che mistero d'Egitto! è padre sputativo! Gesù è figlio di Giuseppe e di Maria: semmai sarà suo cognato, di Dio! Altrimenti, quanti papà aveva?» e, per parecchio, era rimasto deciso così, nella sua testolina.
La prima recita! In una scena doveva pranzare a casa di una contessa e nel piatto gli avevano messo delle enormi foglie d'insalata: lui non sapeva come ficcarsele dignitosamente in bocca. Ci mise tanto impegno a litigare con quelle foglie, che dimenticò la battuta, provocando l'ilarità del pubblico.
Nelle tasche di Claudio c'era sempre qualche animaletto, specialmente lucertole e scarabei. Lei si prendeva certi spaventi...: quando metteva le mani nelle tasche dei suoi pantaloni, c'era sempre qualcosa che si muoveva.
Ora era là dentro, in sala operatoria: cosa gli stavano facendo? Forse la chiamava! Forse aveva bisogno di lei! Doveva andare da lui!
In quel momento entrò il primario: la mascherina sul petto, il camice ancora indosso; s'avvicinò lentamente. Oreste chiese in un soffio: «Allora?».
Marisa aveva la gola secca; le martellavano le tempie. «Abbiamo fatto anche l'impossibile, ma ha battuto il capo con molta violenza. Andate da lui ora e stategli vicino!».
Li accompagnò in una cameretta bianca, con le tapparelle abbassate e un terribile odore di disinfettante. Claudio era già lì nel letto bianco, con la testa fasciata e gli occhi chiusi, le mani esangui abbandonate sulle lenzuola. Vicino una grande macchia petulante, collegata al suo corpo da fili e tubicini. Oreste sussurrò: «Dio mio! Non è possibile! Il nostro Claudio! Non è vero! è solo un brutto sogno e ora ci sveglieremo!» ma si stringeva a lei, per cercare coraggio.
Per tutta la notte e il giorno seguente, non si mossero dal letto di Claudio. Senza parlare, senza pensare, fissavano quel viso pallido, spiando quegli occhi che non s'aprivano.
Ad un tratto la macchina petulante tacque, il medico accorso posò una mano sulla spalla di Marisa: «Signora venga con me. Ora Claudio riposa».
«è morto?» chiese Oreste in un soffio.
Marisa non provò neanche dolore. Ricordò, chissà perché, una domanda di Claudio di appena una settimana prima: «Mamma! è possibile rinascere in un'altra persona, dopo la morte?».
«C'è chi lo crede!» aveva risposto lei.
«Io vorrei rivivere in qualcun altro! Non vorrei morire del tutto!».
«Ma che pensieri fai, alla tua età?» aveva protestato lei.
Una luce la folgorò: «Dottore! Qui, in ospedale, c'è qualche malato grave che ha bisogno di organi?».
«Sì! Certamente! Un bambino aspetta da mesi un trapianto di cornea. Una ragazza è in dialisi da tempo e avrebbe bisogno di almeno un rene. Un...».
«Dottore! Usi gli organi di mio figlio! Non devono andare perduti» implorò Marisa.
Con un salto Oreste le fu vicino: «Sei pazza! – urlò – Mio figlio non lo toccherà nessuno! Mio figlio non sarà fatto a pezzi! Mio figlio è morto: che muoiano anche gli altri!».
Con gli occhi spiritati si rivolse al dottore: «Non darò mai il mio consenso!».
Con una calma strana, anche per lei stessa, Marisa si rivolse al marito: «Oreste: queste sono le volontà di Claudio! Me l'ha chiesto non più di una settimana fa. Dobbiamo rispettare le sue volontà! E poi, pensa, in questo modo, non sarà veramente morto; alcune parti di lui continueranno a vivere in altre persone!».
S'avvicinò al letto e accarezzò delicatamente la fronte, ancora tiepida, del figlio. Gli baciò piano tutto il viso, mentre sussurrava: «Stai tranquillo, tu non morirai del tutto! Te lo promette la tua mamma!».
Quando si rialzò, la stanzetta era piena di medici e infermieri. Il primario la guidò nel suo ufficio, le fece firmare delle carte e le parlò, ma lei non lo sentiva: era in stato di choc! Oreste non c'era più, se n'era andato. Lo rivide solo al funerale, che, fra l'altro non seppe mai chi l'organizzò. Non si dissero una parola; lui non la guardò mai, neanche di sfuggita, gli occhi fissi sulla bara bianca davanti a loro. Non tornò a casa, andò da sua madre.
Marisa prese un mese di ferie. Girando per casa, sentiva ancora la presenza di Claudio. Parlava con lui: ogni volta che usciva lo salutava e gli raccomandava di stare buono e di non uscire. Un giorno si fissò che Claudio era al cimitero, seduto sulla tomba e aspettava che lei l'andasse a prendere. Si vestì febbrilmente e, con l'ansia che le mozzava il respiro, corse al cimitero. Niente! Claudio non c'era! Solo la sua tomba, bene ordinata, con i fiori sempre freschi.
Un giorno le telefonò il primario dell'ospedale: «Signora Marisa? C'è qualcuno che vorrebbe parlarle!».
Marisa aspettò sorpresa, sempre con quell'aspettativa assurda dentro di sé, con quel nome: «Claudio!».
«Pronto? Signora Marisa? Sono Mauro! Fra due ore mi toglieranno le bende: per favore, vuole venire ad aiutarmi?» disse una calda voce infantile.
«Sì, certo! – sussurrò lei – Verrò! Vengo subito!».
Gli occhi di Claudio! Quel bambino aveva gli occhi di Claudio! Si preparò febbrilmente e corse in ospedale. La fecero sedere di fronte al letto di Mauro, fra i suoi genitori. Un'infermiera abbassò tutta la tapparella. Si poteva udire il battito del cuore dei presenti, mentre il primario sfasciava piano gli occhi del bambino.
«Ecco Mauro! Ora guarda, ma senza sforzarti!».
Il bambino ansimava, i suoi occhi brillavano nell'ombra: «Mamma – gridò – ti vedo!».
Marisa scoppiò in singhiozzi: per la prima volta, dalla morte di Claudio, pianse. Dopo i genitori, anche lei abbracciò il bambino e tra le lacrime, che le rigavano il viso, guardò quei meravigliosi occhi azzurri: gli occhi del suo Claudio!
«Grazie! – le disse il bambino – Non piangere. Ti vorrò sempre bene: sarai la mia seconda mamma!».
«Grazie!» l'abbracciarono i genitori commossi.
Si sentì finalmente serena e leggera, quasi felice: ora sapeva che suo figlio l'aveva vista, l'aveva approvata. Tornò al suo lavoro; a casa parlava sempre con Claudio. Oreste era sempre da sua madre; non era andato di persona nemmeno a ritirare le sue cose. Di tanto in tanto riceveva notizie delle quattro persone che dovevano la vita a suo figlio: scrivevano, telefonavano, sempre riconoscenti.
Nel quinto anniversario della morte di Claudio, li aveva invitati tutti a pranzo: avrebbe così rivisto gli occhi del suo bambino, avrebbe ancora sentito battere il suo cuore. Peccato che Oreste non fosse lì. Perché non l'aveva capita? Perché l'aveva abbandonata?
Suonò il campanello; emozionata Marisa aprì la porta. Si trovò di fronte Oreste: era invecchiato! Terribilmente invecchiato!
Lui la guardò triste, imbarazzato: «Posso entrare?».
«Certo, vieni! è passato tanto tempo! Non t'aspettavo!».
«Volevo vederti! Volevo scusarmi con te! Sono stato uno sciocco egoista!».
Entrando in sala vide la tavola apparecchiata: «Oh! Ma tu aspetti ospiti! Scusa: me ne vado subito!».
«No! Stavolta non te ne andrai! Abbiamo bisogno l'uno dell'altra! Aggiungo un posto a tavola! Insieme vedremo il miracolo di nostro figlio in quattro persone!».
Gli prese la mano: «I suoi occhi ci guarderanno ancora, fra poco e per tante altre volte; quando vorremo!».
E tenendosi per mano, attesero il suono del campanello.

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