Racconto di LAURA RITA GIACOMI
di LAURA RITA GIACOMI

Felipe

Non credevi che avrei potuto farlo. Forse non sospettavi neppure la mia esistenza. Invece esisto, e l'ho fatto. Dovrei esserne felice, ma il dolore che tu hai inventato per me copre ogni cosa.
Lei era così bella! Certe volte, se restavi a fissarla per qualche istante, i suoi contorni sembravano disfarsi in nebbia, perché due occhi non possono contemplare l'assoluta perfezione senza bruciare. Amava tutto appassionatamente, viveva con intensità ogni singolo minuto di ogni giorno e di ogni notte. Era generosa. Donava di buon grado e senza risparmio la cosa più preziosa che avesse ricevuto dalla vita, il suo corpo stupendo. Ed era imparziale! Si dava con grazia totale non operando scelta alcuna nei suoi amanti ma gioiendo nel farsi scegliere da loro e nel renderli felici più di quanto un uomo possa meritare.
Lei era così.
E se la gente non la capiva, se le malelingue dicevano sul suo conto cose offensive e false, lei ne soffriva, sì, ma non poteva rinchiudere la sua gioia di vivere, non poteva impedirsi di essere migliore di loro.
Quando puntualmente la cacciavano dall'appartamento in affitto mi diceva con voce ogni volta più dolce: «Non preoccuparti, la nostra casa non è questa. Possiamo stare insieme dove vogliamo e in ogni posto saremo felici, le mura non sono niente, siamo noi a fare di un appartamento la nostra reggia». E raccoglieva le sue cose e le mie, e insieme non erano poi molte. Si rimboccava le maniche e cercava un nuovo posto per vivere insieme, senza lasciarsi scoraggiare e senza cercare di vendere l'immagine pulita che non aveva.
L'avrei seguita dovunque, si capisce.
Non ne ero geloso, ma follemente innamorato.
E lei mi amava.
E tu l'hai uccisa.
Dirti che non mi sei piaciuto fin dall'inizio potrebbe sembrare la solita frase fatta con il senno di poi. Ma chi se ne frega? Il punto è che purtroppo non è vero, non ti avevo nemmeno notato. Nessuno di voi mi ha mai colpito abbastanza da farmi sprecare un solo istante per giudicarlo. Eravate tutti ugualmente ripugnanti, solo un modo per darle ciò che non potevo darle io, qualcosa che voi chiamate sesso e di cui inspiegabilmente lei aveva bisogno. Ma non vi apparteneva, no. Lei era come me, per questo ci amavamo. La libertà innata propria dei felini ci univa indissolubilmente lasciandoci imprendibili e soli.

Quel giorno non ti aspettava. Stava stirando e mentre lo faceva gorgogliava a labbra chiuse le note di una canzone di cui probabilmente ignorava le parole. Era talmente bella, sola, che sarei stato ore lì a guardarla mentre si muoveva libera come se io non esistessi.
Quando trillò il campanello lei corse ad aprire ridendo perché, come ho detto, da ogni cosa traeva gioia.
Fuori c'eri tu.
Era la prima volta che ti presentavi e, dalla mia posizione nascosta alla tua vista, percepii nettamente il tuo imbarazzo mentre le raccontavi qualche bugia sul come eri arrivato a lei. Forse le sei sembrato un enorme adolescente timido, chissà, comunque non mandava via nessuno senza prima avergli dato ciò che si aspettava e quella sera non fece eccezione. Ti fece entrare come se per tutto il giorno non avesse fatto altro che aspettare la tua visita, lusingandoti come solo lei sapeva fare.
Non so bene quel che accadde dopo, perché quando lei era con uno di voi cercavo sempre di distrarmi sonnecchiando un po' o guardando fuori dalla finestra. Ma posso dire con esattezza quando mi accorsi che qualcosa non andava. Il suo grido. Lei gridava spesso e questa era una delle cause degli sfratti frequenti. Ma quella sera non è esatto dire che gridò: il suono che emise era il rumore di un terrore indicibile che esplode fuori dalle corde vocali in versi inumani e strazianti. Era stupore e disperazione e paura. E dolore.
Accorsi appena in tempo per vederti staccare da lei e raccogliere in fretta i tuoi vestiti.
Sei corso fuori mugolando e piangendo e ridendo di follia. Avrei voluto rincorrerti e ucciderti subito, ma preferii restarle accanto. Balzai sul letto con tutta la delicatezza di cui sono capace e le sedetti accanto. Aveva gli occhi sbarrati ma era ancora viva. Era nuda. Qualcosa di diverso dal tuo misero organo sessuale era penetrato in lei provocando orribili ferite irregolari all'esterno e chissà cosa all'interno del suo corpo delicato. Intorno a un capezzolo roseo c'era il segno dei tuoi denti penetrati nella carne. Il sangue era dappertutto, inzuppava le lenzuola e gocciolava dal letto allungandosi fino a bagnarmi le zampe posteriori e la coda. Avrei voluto morire al suo posto. Invece aspettai. Si stava allontanando da me, da questo mondo che inspiegabilmente amava così tanto, e io non potevo farci niente. Quando l'ultimo barlume di vita le passò negli occhi, mi guardò. Alzò appena una mano in direzione della mia testa per regalarmi un'ultima, dolcissima, carezza. Udii il mio nome, «Felipe...», poi il sangue denso che le riempiva la bocca traboccò da un angolo delle labbra gonfie colando sul suo collo bianco e perfetto. La mano ricadde prima di sfiorarmi... rimpiangerò per sempre quella carezza che non arrivò. Per colpa tua.

Dopo due giorni mi misi sulle tue tracce. è opinione comune che soltanto i cani posseggano il dono del fiuto. Che idea! Quale cane potrà mai competere con un innamorato che ha una ferita così grossa? Vagai per giorni senza mangiare, senza averne voglia, senza cercare altro che una briciola del tuo odore.
E, come vedi, ti ho trovato.
Le mie dimensioni sono irrisorie al tuo confronto, ma il mio furore non aveva eguali. I tuoi occhi mi hanno inquadrato un istante, uno solo, prima di cedere alle mie unghie. Quando hai iniziato a gridare, per un attimo, non ho pensato neppure a lei. Tutta la mia mente era piena di quel tuo grido così simile al suo. E di odio. La tua pelle si scioglieva sotto le mie unghie in fuoriuscite sanguinolente, i miei morsi non trovavano resistenza e il tuo flaccido, rivoltante corpo di uomo si disfaceva rapidamente, troppo.
Quando hai smesso di gridare mi sono sentito sporco.
Niente mi renderà quella carezza.
è ora di andare. L'odore del tuo sangue mi dà la nausea. Non voglio più pensare, non ce la faccio, sono stanco. Qui vicino c'è l'autostrada. Sai quanti gatti vengono investiti ogni giorno? Già, non credo che ti interessi. Ma fa lo stesso, questa sera ce ne sarà uno in più. Così, finalmente, la raggiungerò laddove tutti hanno un'anima e quell'anima è libera.
Là, forse, dove il corpo non conta, le basterò.

Copyright © 1997

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