Racconto di MARGHERITA MARSIGLIA
di MARGHERITA MARSIGLIA

Olimpo sta bene

Oimpo sta bene. Dopo otto mesi di cure, finalmente ha ripreso a vivere normalmente come tutti gli altri.
Otto mesi di ospedale psichiatrico di cui non ricorda quasi più nulla. A parte quelle volte che lo venivano a prendere e lo portavano in sala operatoria, lo legavano al letto e poi dopo avergli infilato un grosso ago nella vena, lo addormentavano. Gli dicevano respira profondamente e conta fino a tre.
Uno, due..., e sprofondava giù in un sonno profondo, a quei tempi così insolito e desiderato. Niente altro lo faceva dormire. Qualsiasi ipnotico gli faceva l'effetto contrario. Passava le ore con gli occhi immobili a guardare di fronte a sé. Preferiva stare coricato o con le spalle al muro perché così si sentiva al sicuro. In realtà lui aveva paura di tutto, ovvero sapeva che qualsiasi cosa poteva succedere da un momento all'altro e teneva gli occhi bene aperti per non farsi fregare.
Dopo l'anestesia lo svegliavano urlando. L'infermiera e l'anestesista lo percuotevano in viso e gli urlavano: «Olimpo, svegliati. Olimpo apri gli occhi e respira!». E giù schiaffi sulla faccia resa fredda e incolore dall'anestesia.
Le urla e gli schiaffi lo riportavano al freddo e veniva assalito da brividi incalmabili che non stava a lui controllare. Fra tumultuosi tremiti insieme al freddo tornava anche il dolore. Dolore acuto alle tempie, nei punti in cui aveva ricevuto le scosse. Di solito tre. A distanza di venti minuti una dall'altra.
Seguivano poi dei giorni di grande stanchezza, in cui Olimpo dormiva tranquillamente, si alzava, si sedeva al tavolo per mangiare, andava in bagno e poi tornava a letto. Sempre però con quella maledetta televisione accesa. La loro teoria era di tenerlo il più possibile legato alla realtà, e avevano deciso di curarlo e tenerlo al sicuro, protetto dal telegiornale e dai programmi, affinché non perdesse di vista la vita.
Passavano così venti giorni, in cui ricordava ben poco, poi piano piano riaffiorava la paura. Cominciava di nuovo a sentirsi perseguitato, e di nuovo chiudeva gli occhi il meno possibile. Rimaneva a letto oppure sedeva con le spalle al muro, lo sguardo sempre fisso sulla televisione per controllare che nessuno di quegli schifosi personaggi saltasse fuori e gli si attaccasse alla gola.
Alla fine della quarta terapia il sonno tornò e rimase stabile e poco alla volta Olimpo riprese a vivere normalmente. I medici dissero che la cura aveva avuto buon esito e finalmente lui poté tornare a casa.
Riabbracciò la madre, il padre e i suoi cinque fratelli più grandi, di cui prima aveva tanto temuto e fu felice di ritrovare la sua famiglia. Dopo mangiato, prese la sua sedia e la mise con le spalle alla finestra aperta e si mise a sedere. Una cosa simile non era mai successa: Olimpo aveva finalmente perso il vizio del muro! A tutti sembrò la dimostrazione che fosse guarito, invece lui aveva solo dimenticato. Aveva dimenticato i suoi significati, aveva dimenticato il significato di ogni cosa, aveva smesso di avere paura ed ora doveva solo ricominciare da capo. La sua ombra nera era stata distrutta, ora bisognava solo ricostruirla.
Sin da bambino Olimpo era apparso anormale, a quattro anni ancora non aveva detto una parola, o meglio una parola la diceva già da tempo, ma era l'unica: «acqua!». Per questo motivo venne mandato a scuola con grande ritardo.
Verso i cinque anni i genitori disperati lo portarono dal medico che li mandò da uno psichiatra che diagnosticò una lieve forma d'autismo, consigliò di far fare al bambino una vita più normale possibile e fu così che a sei anni finalmente fu mandato all'asilo.
Sua madre e suo padre lo accompagnarono, lo misero seduto accanto al muro, pregando la maestra di non spostarlo mai da lì. Olimpo stette buono per due ore a guardare, poi ci fu la merenda, i bambini mangiarono, lui tirò fuori qualcosa dal suo panierino e mangiò. Come al solito non disse una parola, ma non fece alcuna scenata, non pianse e si comportò in modo normale.
Tornando a casa disse «fame». La madre lo sentì e si mise a piangere.
«Vedrai che la scuola gli farà bene!». E così cominciò la sua vita tranquilla.
Col tempo divenne padrone della lingua ed imparò un'infinità di parole, però non diceva mai più di una o due frasi messe insieme. Poi taceva. Come al solito però ascoltava molto attentamente.
A scuola era bravo, l'insegnante lo interrogava con domande che richiedevano risposte concise e fu sempre promosso.
Verso gli undici anni improvvisamente si ammalò. Fu colpito da una febbre violenta che durò due giorni e che lo fece delirare.
Urlava che c'erano dei topi sotto al suo letto, si alzava e si metteva di scatto contro la parete. Poi era preso di nuovo dai brividi e vedeva un gabinetto strabordante dal quale veniva fuori tutta la merda, urlava: «Fermate questa merda!» e con un balzo lasciava il suolo e ritornava nel letto.
Dopo due giorni la febbre passò, ma Olimpo non volle più uscire. Non ci fu verso di fargli varcare la soglia di casa. Cominciava ad urlare scalciando e ritornava subito indietro. Anche in casa si aggirava guardingo e non lasciava mai le pareti. Sembrava si fidasse oramai solo del gatto.
Ogni personaggio della sua famiglia incarnava un nemico, ognuno di loro lo teneva sotto tiro, pronto a sparargli addosso. La paura aveva invaso il suo cervello e di nuovo non parlava quasi più.
Era il 1991, mio padre fu trasferito ed io e la mia famiglia venimmo a vivere a Roma. Prendemmo in affitto un appartamento nel palazzo di Olimpo e fu così che dopo qualche tempo facemmo amicizia.
I nostri genitori cominciarono a frequentarsi e delle sere del sabato si andava a cena da loro. Noi eravamo solo tre, loro invece erano in sette.
In quel periodo Olimpo faceva quasi sempre domande. Più che altro faceva a più persone la stessa domanda e siccome riceveva da ognuno una risposta differente aveva concluso che non c'era una ragione condivisa, non c'era mai un motivo comune e che ognuno si spiegava le cose in maniera differente.
Tutta questa sua continua ricerca era dovuta semplicemente al fatto che doveva riuscire a credere che suo padre non avesse sempre ragione in quanto sin da bambino lo aveva trattato come un deficiente. Non faceva altro che dire «questo qui è scemo, questo qui è proprio un coglione». Lo diceva davanti a lui, convinto che non capisse nulla o al massimo con la speranza che se capiva le misure forti lo avrebbero raddrizzato.
Quelle parole da una parte lo ferivano, dall'altra lo immobilizzavano sempre di più in un pantano di significati che andavano accumulandosi nel suo cervello, senza che nessuno di questi gli appartenesse veramente.
Quando ci conoscemmo aveva tredici anni. Viveva già da un paio d'anni chiuso dentro casa, spesso immobile e con le spalle rivolte contro il muro. Sapevo di lui, mia madre ne parlava spesso la sera.
«Certo che poveracci loro! Certo hanno avuto una bella disgrazia! Un figlio demente è proprio una tragedia. Non finisci mai di soffrire!».
Sapevo dunque che era scemo, in un periodo in cui trovavo tutti gli altri scemi. Rimasi molto incuriosito dal fatto e quando lo vidi per la prima volta stemmo tutto il tempo a guardarci. Lui, seduto immobile con le spalle rincagnate e lo sguardo torvo, proveniente dal basso. Io lontano, seduto a tavola che mangiando non lo perdevo d'occhio.
Non ci muovemmo; prima di andar via passai a salutarlo, lui si alzò in piedi e mi fece un inchino. Fu così per diverse volte, poi un giorno mi venne vicino e mi disse: «Perché sei venuto?».
«Sono qui perché tua madre mi ha invitato».
«Non è vero» rispose.
Poi una sera mi chiese: «Perché non esci, perché non te ne vai?».
Io gli risposi: «Perché mi sei simpatico» e facemmo amicizia.
Lui mi disse: «Vieni in camera mia?» e io ci andai.
Mi fece strada lungo il corridoio in fondo al quale in un piccolo sgabuzzino avevano sistemato la sua stanza da letto. Passava gran parte della notte con la luce accesa e di-sturbava i fratelli e così fu messo lontano nello sgabuzzino, con una lampada a pinza, una brandina e sei mensole in legno costruite da lui piene di libri.
I libri erano messi in fila sulle mensole e fermati con delle grosse pietre. Le mensole erano tutte uguali, e si trovavano una sotto l'altra a partire dal soffitto fino ad arrivare a terra, ai piedi del letto.
In seguito mi spiegò che si trattava di un esagramma, uno dei sessantaquattro esagrammi. Prese il suo libro e mi disse: «è questo qui. è il numero uno, è Kkienn. è la forza primaria, il cielo. è il mio vero padre. Tutti apparteniamo al cielo. Di questo ne sono sicuro».
Un'altra volta mi disse: «Tu mi piaci perché non ti arrabbi mai».
In effetti io ero un tipo tranquillo, gli altri mi definivano un superficiale, io invece difficilmente mi facevo coinvolgere dagli eventi, che trovavo così comici da non prendere mai troppo sul serio. Tutto passerà, mi dicevo sempre. Anche questa cosa finirà. Per esempio se mio padre urlava, io mi dicevo: prima o poi smetterà e tornerà calmo.
Sapevo che era sempre così e difficilmente mi lasciavo prendere dalle cose che mi succedevano intorno.
Mi sembrava che Olimpo facesse più o meno la stessa cosa, solo che lui ogni tanto aveva delle crisi di nervi e cominciava ad urlare a squarciagola e a picchiare la testa contro il muro.
Una volta mi disse che lo faceva per sperimentare il dolore. Lui aveva talmente paura che qualcuno gli potesse fare del male che all'improvviso cercava di arginare la paura facendosene lui stesso. Così poteva avere la dimostrazione che tutto sommato sarebbe stato in grado di sopportarlo.
Per impedirgli di farsi del male lo imbottivano di farmaci e fu per questo che cominciò a non dormire. Per due anni non chiuse più occhio, terrorizzato com'era che gli potesse succedere qualcosa di male. Passava tutto il giorno nel suo sgabuzzino, senza più uscire, con la luce sempre accesa. La televisione no, non l'aveva voluta a lui interessava seguire giorno e notte lo spettacolo che si svolgeva nel suo cervello.
La madre gli portava da mangiare in camera, ma lui spesso non mangiava e diventò sempre più magro. I capelli neri lisci con la fila di lato e il ciuffo sempre sugli occhi. L'unico gesto che faceva quando era seduto, era di riportasi ogni tanto su il ciuffo e di scoprire di nuovo l'occhio.
Una volta se lo tagliò completamente. Andai a trovarlo ed aveva i capelli lisci lunghi e a partire dalla fronte una specie di siepe tagliata corta corta. Sembrava uno spazzolino da denti con la coda.
Mi disse che così non gli sarebbe sfuggito più nulla. Anche se tuttavia non si sentiva mai al sicuro.
«Lo sai che un aereo precipitando ha portato via una casa?».
«Sì, l'ho sentito».
«Ti rendi conto questo che cosa vuol dire? Vuol dire che non ci si può fidare nemmeno delle pareti di casa».
Il pomeriggio io spesso scendevo da lui, ci chiudevamo nel suo sgabuzzino e lui mi raccontava qualcosa.
Una volta gli dissi che lui era l'unica persona seria che io conoscessi e lui mi rispose: «Sei veramente sicuro di cosa sia la serietà?».
No, che non ne ero sicuro, davanti a lui non ero più sicuro di niente. Ma mi pareva che il suo distacco avesse poco a che vedere con questa spiritosa commedia che era la vita intorno. La cosa più spiritosa era che non si poteva fare a meno di coglierne la drammaticità a tutti i costi. Tutto era ormai così drammatico da apparire grottescamente comico.
Olimpo invece non recitava, in realtà lui avrebbe potuto scrivere, ma forse anche scrivere gli sembrava troppo serio.
Un'altra volta lo trovai rinchiuso in una gabbia da uccelli. A mala pena vi entrava e la pelle delle braccia era già solcata dalle sottili sbarre di ferro.
«Che ci fai lì dentro?» gli chiesi.
«Che ci fai tu lì fuori? Vieni dentro, dai» mi rispose.
Mi disse che aveva finalmente messo tutti in gabbia e che nessuno avrebbe potuto più fargli del male. «Ma non vedi che fra un po' colerà giù il sangue da quei solchi?».
«Per ogni cosa vi è un prezzo da pagare, amico. Vieni dentro anche tu, dai».
Quella volta preferii andar via subito facendo finta di niente, richiusi la porta dello sgabuzzino e me ne tornai silenziosamente a casa con la speranza che nessuno se ne accorgesse.
Nonostante ciò poco tempo dopo lo portarono via. La famiglia si era ormai abituata a vivere con questo «oggetto» che gli si andava consolidando dentro casa. Prima chiuso dentro una gabbia e poi infine sul letto immobile. Ma quando assunse l'aspetto vero della pietra, ossia quando smise del tutto di parlare, smise di mangiare e di fare qualsiasi movimento, i genitori chiamarono l'ambulanza e lo affidarono all'ospedale psichiatrico. I medici capirono subito la gravità della situazione e lo portarono dritto in sala operatoria per la prima terapia. Quando lo riportarono in camera dormiva beato ed i genitori tornarono a casa tranquilli, rimpiangendo di non averlo fatto curare prima.
«Lo vedi, non era un coglione, era solo malato» disse la madre.
«Ti sbagli. Si è ammalato perché è un coglione. Se solo avesse tentato di rimanere sano!».
«Guarirà e poi vedremo chi ha ragione» rispose lei.
Passarono così otto mesi, otto mesi di cui Olimpo non ricorda quasi più nulla.
Poi tornò a casa docile ed ubbidiente. Dava le spalle alle finestre aperte e faceva qualsiasi cosa gli si dicesse di fare. Bastava dargli un ordine e lui eseguiva. «Sembra guarito perfettamente», disse il padre alla moglie. «Molto bene allora adesso bisognerà trovargli un lavoro».
Così pergraziadidio, Olimpo ha ripreso a vivere normalmente. Esce e se ne va in giro ed ha smesso di fare domande. Ha un lavoro, fa il garzone in una salumeria. Quando non lavora guarda la televisione insieme al padre. Se il padre dice qualcosa, gli dà sempre ragione. In questo modo lascia che il padre decida per la sua vita. Ha smesso di leggere e consegna la spesa a domicilio. Guadagna, ha due lire da parte ma non dice più cose intelligenti.
Il padre non fa altro che ripetere: «Questo è un vero miracolo!».

Copyright © 1997

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