Racconto di Monique Sartor
APPARTENENZE ALCHEMICHE
di Monique Sartor
Quella notte seppellirono le sue ceneri nel mare. Così lui aveva voluto, e nessuno si era opposto. Prima di morire aveva parlato di lei, vivendo la sua ultima vita tra le umide immagini di un passato mai trascorso... Eva piangeva silenziosa stringendogli la mano, mentre lui la chiamava per nome.
Per nome la chiamava, serrando le sue dita a quelle di lei in forma d'urna al fine di proteggere e conservare durante il suo viaggio nell'ignoto la filigrana d'anima e di corpo dell'unica donna che aveva amato, perduto e ritrovato.
Per qualche istante i suoi occhi rimasero socchiusi, incerti tra la morte e la vita. Eva stava cantando con la sua limpida voce una canzone che sentiva spesso intonare dalle donne del villaggio quando moriva un bambino.
Parlava di angeli e di dolore, e di qualcuno che chiedeva di che colore fossero gli occhi degli uccelli.
Era molto triste quella morte. Molto triste perché la caverna del suo cuore era invasa dalla vita. Gli ultimi sogni di quell'uomo stanco rimasero sospesi nel tempo. Eva smise di cantare e riuscì a udire poche parole: «No. Non stringere così il mio volto tra le tue mani. Potrebbe piangere. Le tue mani potrebbero piangere il mio sangue».
La sua bocca non si richiuse, i suoi occhi pieni di nubi e pioggia marina si aprirono come mai avevano fatto in vita, mentre la notte si stava spegnendo.
Il faro non si vedeva più, stava sorgendo l'alba. Eva sciolse dalla sua mano la mano dagli occhi d'acqua e di cielo, ed uscì.
Camminò inspirando ed espirando tutto il vento possibile e si fermò in riva al mare. Molti uomini, vecchi e giovani, la salutavano.
Qualcuno le mandava baci rabbiosi di mancate corrispondenze, qualcun altro le gridava le solite frasi stagnanti. Le conosceva così bene, quelle parole fluttuanti in esalazioni alcoliche che le riempivano le notti d'altre rive del sogno, ma solo ora, per la prima volta, la infastidivano d'insopportabile.
Si sentiva pallida e stordita, come se davvero avesse perduto qualcosa d'irrinunciabile.
Stava seduta sulla sabbia con il capo chino sulle ginocchia quando giunse la vecchia.
Una bellissima vecchia, pensò guardandola.
Questa le si avvicinò, si fermò per qualche istante di fronte a lei, poi le fece strani segni sulle guance con le sue dita sempre imbrattate di colori e le disse di tornare a casa.
Si allontanò camminando con passo stanco ma fermo, ed Eva cominciò a ridere piano, mentre sentiva crescere fortissimo nel corpo il desiderio di urlare, d'inveire contro quella penisola d'ebete, sorda e sordida umanità senz'amore, senza vita né morte, alle circolarità del limbo condannata nel suo nullo vagare.
Si rialzò, guardò la spiaggia e il mare completamente bianchi, accecati dal sole, al cielo abbandonati.
La vecchia era scomparsa, come solo può una visione od un incanto, ma in riva al mare c'era ora un bimbo che con celerità di sogni fra le dita inventava infiniti percorsi di sabbia. Eva rivide il viso dell'uomo morto. Lì, tra quelle celeri, agili dita di bimbo, quel viso diventava sempre più giovane, misterioso re della sua incompiuta bellezza. I suoi occhi d'acqua mobile, azzurri e profondi come il suolo marino, sembravano più che mai vivi passi d'onde sulla rena.
Sentì nel suo corpo un corpo altro intrecciarsi d'amore a quello dell'uomo.
Il letto d'acqua e di sabbia si faceva urna.
Mercurio e zolfo si univano in forma di calice d'oro. Non voleva gridare paura, non voleva piangere 1'enigma.
Tornò alla spiaggia e si avvicinò al bambino che continuava a sognare ardito e tenace i suoi percorsi di sabbia.
Lo prese per mano, gli disse qualcosa che nessuno dei due capì bene, si chinò per baciarlo e il bimbo le si strinse forte al collo con le braccia magre. La seguì lungo il breve tratto di spiaggia fino alla casa. Eva entrò e lasciò la porta aperta, come sempre.
Questi si fermò un istante, quasi interrogando 1'interno vuoto e muto, poi si avvicinò ad Eva in silenzio e vide subito il corpo immobile steso sul letto. Rimase per qualche istante incantato dagli occhi azzurri del morto. Si sedette in un angolo, guardò Eva, seduta anche lei sul pavimento duro coperto di vecchi stracci, forse tappeti, e disse forte, quasi ridendo: «Ha gli occhi pieni d'acqua e di nubi!».
Eva tacque, si rialzò ed uscì.
La vecchia era lì, in piedi, a pochi passi dalla porta. Stava in silenzio, rigida ed assorta, lontanissima. Eva non poteva dire nulla. Vedeva solo un corpo limato dai lunghi anni di vita in ricerca errante, un volto infinito scritto dal sole e dai venti, ed un inquieto gelo luminoso nella malia degli occhi grigi.
Altro non riusciva a vedere.
La vecchia era presenza assente. La sua anima era lì ed altrove, come fosse d'altro tempo appartenenza.
Si avvicinò, la prese per mano e la condusse in casa, dove le mostrò 1'uomo dagli occhi chiari, presenza così intensa che impossibile era non vivere di lui. Impossibile era non viverlo.
La vecchia non vedeva infatti alcun morto. Si volse verso Eva ed iniziò a parlare a bassa voce, interrompendosi più volte in pause sapienti per guardarla, per ascoltare il suo sguardo.
«Voglio finirmi – disse – anche se la mia mente è incompiuta, è ancora assetata ed affamata. Ormai sono stanca, molto stanca, e non posso liberarmi dal peso di una giovinezza ornata ed armata d'assoluto. Quante volte ho chiesto alla morte di darmi un nuovo nome nel quale potermi in quiete addormentare, quante volte ho lacerato in piccoli ostinati morsi la rete d'orrore di quel sonno. Troppo m'innamorava la vita, ed io in lei diventavo dei suoi imperativi dolce amante e guerriera.
«Ora più non distinguo 1'una dall'altra, poiché finalmente so che vita e morte s'appartengono come amanti in fiabe sognanti.
«Ascoltami, non pensare a lui. Pensa a me, oppure cerca di pensare solo a te stessa. Ti conosco dal giorno in cui fosti concepita, di te so tutto il possibile e 1'impossibile. Non mi hai mai vista prima d'ora – questo mi dicono le tue braccia incrociate a difendere come scudo il corpo della tua esistenza. Non temere, ciò che ti inquieta e solo ciò che non ti è ancora concesso tradurre da mistero in verità. Io posso rendermi a te visibile solo nella criptica alterità del sogno e della visione.
«Questa vecchia da troppi poli intirizzita e contratta, da troppi deserti di sole essiccata e dei suoi oceani d'anima prosciugata, ti racconta di sé e di te si racconta. Altro non sono che 1'alchimia dei tempi.
«Giovinezza ancora sonora nella mia stridente vecchiaia, di te so che sei solare e di vette intricata, che non hai radici, che non ti basta 1'acqua e non le appartieni, perché tu sei vento e sei anche aquila.
«So che qualche volta sei riuscita a volare. E so anche che non hai paura di cadere, di spezzarti.
«No, non ridere. Il tuo riso si fa derisione che mi indica il sentiero del distacco, e 1a tua bocca si fa crittogramma in cui intravedo ripudio e negazione. Potrei continuare a parlarti, ma quel crittogramma salderebbe cielo e terra in un unico invalicabile muro.
«Più non saprei raggiungere il mercurio della tua anima.
«Allora, smetti di ridere.
«Sai che non posso offrire alcun viatico alle piaghe incavate nel tuo cuore dalle tue solitarie erranze, sai che non posso rivelarti la soluzione dell'enigma che ti tormenta. Tu sarai colei che dovrà scavare la terra dura delle mie parole, tu dovrai saperla trasformare in fuoco se ne hai 1'ardire e l'osare, tu dovrai non lasciarla mai scorrere su di te come invertebrato rivolo d'acqua sulla pietra.
«Qualcosa voglio comunque lasciarti, prima di andarmene.
«Un'eredità, forse.
«Ti lascio la mia anima, ti lascio tutta la mia vita. Anch'io, come te, ho conosciuto molti uomini. Uomini aridi ed ingordi, altri ricchi ed intensi come sentieri di giorni stellati. Li ho amati tutti, senza poter dire di averne amato nemmeno uno. Ciascuno di loro era differente dall'altro, ed io li ho amati sempre nel segno e nel senso della differenza.
«Spesso mi sono chiesta che cosa fosse amore. Mai ho trovato risposta. Posso solo dirti, e questo tu già l'hai intuito, che amare e innanzitutto mutare.
«L'amore è dinamico, si muove come il mare che pare sempre uguale a se stesso, eppure sempre è diverso.
«Volevo che la mia vita fosse del vivere un'arte. Ora tu vedi l'opera “compiuta” nella triste realtà del non-finito.
«Mai la morte sarà il compimento della vita, poiché la morte è vita, è ciò che non si compie in vita, non si compie in morte. Ho cercato di chiamare per nome la mia esistenza, di trovarne la direzione ed il senso, e mi sono snervata nel tentativo di svelare il mistero dell'incompiuto.
«Impossibile!
«Il mistero sono io, e posso svelarlo solo vivendo fino ad esperire la morte, fino ad espirarla inspirandola.
«Smetti le vesti di seta di colei che aspetta. Smetti di istupidirti nello stupore dell'attesa. Non sfuggirti, non eluderti, non mentire a te stessa e non abusare dei tuoi giorni. Esiste un'unica vera gioia, ed un'unica vera vita: solo guardando allo specchio i tuoi occhi di farfalla e le loro ali da troppe squame di colore appesantite, potrai imparare l'arte misteriosa dell'ascolto.
«Devi farlo semplicemente perché tu puoi farlo. Ma non aspettare, ti dico. Chi aspetta attende infine, in un modo o nell'altro, solo la morte.
«Ricordati che i morti, tutti i morti ritornano. E tu sai che il viaggio di ritorno è sempre il più doloroso, il più faticoso e il più solitario, perché e il più glorioso».
Sorrise in silenzio, poi aggiunse: «Ero venuta per lui, sapevo che 1'avrei trovato qui. E invece sono arrivata tardi.
«No! Forse proprio questo era il momento propizio al mio arrivo. Poiché ora capisco che nulla ha più importanza della mia verità d'amore per quest'uomo che un tempo mi fu sposo in arte e conoscenza, ed in altro tempo fu mio figlio.
«Manderò qualcuno ad avvolgere il suo corpo con le fibre di vita che per lui ho tessuto, così potrà veramente andarsene.
«Non puoi più tenerlo qui».
Eva non aveva voglia di parlare. Non desiderava abbandonarsi alla malia degli occhi della vecchia.
La lasciò lì, insieme alla magia d'edera delle sue parole. Prese in braccio il bambino, lo portò fuori. Camminò a lungo sulla riva. Si sentiva felice, anche se molto stanca. Era sola, lo sapeva. Eppure questo non la inquietava più. Era sempre stata infinitamente sola, senza mai accorgersene.
Mai era riuscita ad amare qualcuno nel modo totale ed assoluto che lei chiedeva a se stessa ed esigeva da chi la cercava e la chiamava – amore.
Forse per viltà, forse semplicemente per natura, le era sempre stato più semplice amare i sogni ed i morti.
I vivi... li sentiva così distanti, irraggiungibili.
Molti erano gli uomini innamorati di lei. Ogni volta che se ne andavano, partivano solo per poter tornare.
Eva sorrideva chiudendo gli occhi, sapeva che nessuno mai sarebbe riuscito a liberarla. Nessuno mai avrebbe saputo amare il sortilegio di solitudine ed irrequietezza in cui viveva, come fosse esile giunco di potentissimi venti prigioniero.
Chi mai avrebbe potuto amarne il doloroso effetto?
Eppure qualcuno... qualcuno continuava a vivere e a peregrinare in lei, e lei in lui...
Ricordando, viveva ancora con quell'uomo magro e scuro, dalle mani tinte di non cifrabili terre e dalle lunghe, agilissime dita: per ognuna di esse, decine, centinaia, migliaia di viaggi.
In fugaci visite onnipresente, egli solo la conduceva oltre quel sortilegio e quel dolore.
Egli solo era in grado di mutarne l'afasica, malata essenza a pareti di silenzio incatenata in urna colma di liquide parole d'anima dorate, in bellezza senzaterra di liberi, sinuosi slanci di un corpo amante e sempre di sogno in sogno viandante. Per molti anni aveva assaporato le perle dei frutti del melograno insieme a lei, fino a comporle un'indistruttibile collana di gemme come fulmini infuocate.
Di giorno si addormentava sulla spiaggia, di notte rideva forte e parlava, parlava, parlava... dipingendo strani sogni intrecciati a viaggi forse ricordati, forse da inventare.
Un mattino la svegliò chiamandola per nome. Se lo ricordava ancora, perché pochi la chiamavano per nome. Per la prima volta quell'uomo le appariva libero, felice. Aveva grandi occhi spalancati su mani aperte e calme. Le parlò di sé per molte ore con voce chiara, serena. Eva non capì molto, si limitava a leggere il riflesso delle sue parole sulla tela che aveva dipinto durante la notte.
Lesse la vita fisica, aspra e tagliente, la violenza del pensiero, la passione in rivolta per la libertà, ed infine lesse 1'abbandono.
Di lui, rimpianse la voce, il suono e 1'eco delle sue risate, i lunghi assoli delle sue vitali collere. Sentiva la sua voce nel silenzio.
Prima di andarsene le aveva portato un amico, un uomo dalle mani fredde e bollenti come frecce di ghiaccio, alla vista precocemente invecchiate. Non immaginava che presto avrebbe amato quel vecchio che giocava con la speranza nella disperazione, con la disperazione nella speranza, ma soprattutto con l'amore e con Eva.
Passava le sere chiuso nella sua tranquilla ostilità, le notti osservandola in ironici silenzi. Sentiva ancora quello sguardo percorrere il suo corpo, vedeva i suoi occhi senza paura e senza audacia. Riascoltava il suo passo deciso e quieto. Le diceva sempre che non credeva in Dio, ma nella luce del giorno.
Se ne andò anche lui, lasciandole i suoi libri colmi d'illeggibili parole sacre. Per la prima volta quel giorno Eva credette di scorgere un raggio di dolore nei suoi occhi, mentre le parlava.
Per la prima volta si accorse che quegli occhi erano gli occhi dell'uomo dalle lunghe, agilissime dita. Era tornato, e con serena misura le stava parlando di un amore immenso.
«Non sono riuscito a far conoscere la pienezza al tuo vuoto – le disse – forse non ho mai veramente varcato le soglie del tuo mondo. Forse il tuo mondo non ha soglia d'ingresso. Sono povero e mendicante, ora che me ne vado senza essere riuscito a darti un istante di pienezza d'essere. Sei un vaso vuoto, Eva. Un vaso vuoto che forse nulla può accogliere a lungo e nulla può colmare, per questo già così vicino alla perfezione d'essere».
Il bambino cominciò a muoversi, agitato.
Voleva tornare alla spiaggia, all'acqua, ai suoi percorsi di sabbia e ai suoi liquidi castelli. Eva lo lasciò andare e continuò a camminare a piedi nudi pensando... sentiva il suo cuore battere senza ritmo alcuno. Sentiva 1'assenza di potenze musicali, nel suo respiro.
Si incamminò verso casa lasciandosi confondere da mille fragili immagini, fantasmi senza pace in viaggio tra anima e sensi.
Quando entrò, sentì la casa fremere di invisibili presenze, di assenti.
La sua casa era la sua anima, la sua casa era il suo corpo... Anima e corpo abitanti il prisma in cui presente passato e futuro si fondono in un unico tempo.
Aprì la finestra e l'aria marina entrò in un volo di luce che le fece chiudere gli occhi per un attimo. Non c'era nessuno in casa. Sul letto rimaneva I'impronta fredda di un corpo. Eva sentì che lui era ancora lì. La paura dell'ignoto diventa più forte dell'amore e del dolore.
Poteva fuggire, se voleva. Poteva uscire da quella casa, abbandonarla.
Guardò la porta e la trovò aperta, come sempre. Senza intendere bene ciò che stava facendo, la richiuse e si stese a letto. Risentiva in sé gli occhi azzurri di un uomo, occhi d'acqua, di luce e di vento che le accarezzavano il volto, interrogandolo.
Serrò le mani con forza, fino a che le unghie penetrarono nei palmi.
Si rialzò, riaprì la porta.
Riudì le parole della vecchia: «Me ne andrò. Ma prima di partire ti lascerò tutta la mia vita».
Rimase a lungo in piedi di fronte al mare.
Immobile e calma si raccontava alla terra, spogliandosi lenta.
Fu allora che vide – solo allora – una vecchia vestita di sole camminare leggera come una giovane donna fluttuante nel tempo, ed una giovane donna vestita di rughe fermarsi immobile di fronte al mare, nel tempo fluttuante...
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