Racconto di Maria Rosa Meschini Rocchi
IL PRESEPE

Racconto di Maria Rosa Meschini Rocchi

Non era facile per il nostro piccolo quartiere accettare quel «Vu Cumprà» nero come la pece, venuto da chissà dove e con alle spalle chissà quali crimini. Eavamo, prima di allora, una comunità abbastanza legata alle antiche tradizioni tramandateci, a torto o a ragione, dai nostri nonni, prima, e dai nostri padri, dopo.
Il nostro villaggio (come lo chiamiamo noi) nella periferia più bella della cittadina, dinanzi ad un magnifico golfo sul mar Tirreno, era nato negli anni Sessanta quando ancora lo stabilimento era in auge; quando ancora Piombino era considerata una cittadina ricca e prosperosa per i due grandi complessi metallurgici: «La Magona d'Italia» e l'«Ilva».
Appunto quest'ultimo,per i propri dipendenti, aveva costruito il quartiere di via Cavalleggeri; palazzi e palazzine dove eravamo venuti, ancora giovani, ad abitare, felici del nido e del benessere raggiunto.
Eravamo tutte famiglie appena formate (il pagamento per il riscatto della casa sarebbe durato per venticinque anni; per questo le abitazioni erano state assegnate a coppie giovani). Non tutti avevano l'auto, allora, ma in compenso avevamo molti figli piccoli da allevare tra il verde che circondava le costruzioni.
Sentivamo «nostro» il quartiere ed ora che avevamo raggiunto la pensione gestivavamo il villaggio come padroni, sentendoci custodi di questo giardino abitato.
Per questo, dopo trent'anni, non tolleravamo intrusi e, tanto meno, di quella specie.

Era arrivato una mattina di gennaio; aveva affittato la palazzina (poco distante dalla mia), di Rachele, rimasta libera dopo che lei, vedova, era emigrata a Torino ad abitare con Monica, la sua unica figlia. Non so come avesse ottenuto l'appartamento, fatto sta che lo vedemmo un giorno scaricare le sue cose da un grosso furgone aiutato da una ragazza altrettanto nera e con un abito a tinte sgargianti (troppo vistoso per i miei gusti). Accanto a loro trotterellava un cosetto nero, di circa quattro anni, sul cui volto spiccavano due occhi bianchi bianchi (l'unica cosa che si notasse da lontano).
Ebbero subito attorno un vuoto impressionante. Non sapevamo che cosa facesse e nessuno certo provò a chiederglielo; troppo era il nostro disprezzo per quella gente così... diversa. Cominciarono a formarsi capannelli di abitanti incolleriti. Nessuno voleva gli intrusi. Si cominciò a parlare di droga, di AIDS, di furti e di chissà quali altri crimini.
«Non li vogliamo! Non vogliamo simile feccia nel villaggio!».
Queste erano le frasi ricorrenti e fra queste spiccava anche la mia, forse... la più forte. Non osavamo guardarli e nessuno naturalmente, si provò mai a ricambiare i loro timidi saluti e, certamente, nessuno osò mai fare un benché minimo complimento a quel tizzetto di carbone che la madre, amorevolmente, si portava appresso.
Nessuno, dico, nessuno voleva quei due «alieni». Col passare del tempo il loro giardinetto risultò ben curato. Lei ancora portava gli abiti vistosi, ma sempre in ordine ed il tizzetto di carbone sempre pulito e, soprattutto, educato.
Malgrado ciò non riuscirono ad abbattere quel muro di ostilità che li circondava. Certo la loro vita, in quel periodo, non dovette essere facile, isolati com'erano. Lui partiva al mattino presto con un'auto di media cilindrata.
«Chissà a cosa rubare» dicevamo in sordina, dietro dietro.
Tornava alla sera, si soffermava sulla soglia a guardare le piccole piante che lei curava con una perizia davvero magistrale, poi entrava in quella sua casa che noi immaginavamo lercia come una capanna africana. La domenica, poi, vestiti a nuovo, partivano presto per rientrare a pomeriggio inoltrato.
Non volevamo darlo a vedere, ma la nostra curiosità cresceva momento per momento.
Dopo i loro primi timidi approcci di saluto caduti nel vuoto, si erano ritirati a fare vita isolata. Anche il bambino non aveva amichetti; un po' perché ormai il villaggio era invecchiato ed i nipotini venivano a trovarci saltuariamente e un po' perché evitavamo che questi si «sporcassero» con... quelli là. Certo che, se per un solo momento, li avessimo guardati bene, avremmo visto quanta tristezza aleggiasse in quegli occhi così grandi; ma eravamo troppo ristretti nel nostro guscio di egoismo per rendercene conto; egoismo e indifferenza, indifferenza e crudeltà. Avevamo notato che nessuno veniva a trovarli. «Sono talpe nella tana! Hanno certo qualche cosa da nascondere!» eravamo soliti dire.
Senza sapere che eravamo stati noi ad averli rinchiusi dietro quei cancelli di via Cavalleggeri. Neppure dopo quasi un anno erano riusciti a scambiare con noi qualche frase, se pur di circostanza, come: «Bel tempo, eh!», oppure «Che brutta giornata!», ed intanto si stava avvicinando il Natale.

Il villaggio in questo periodo si anima. In ogni spazio verde risalta un alberello addobbato e luminoso ed in ogni giardino viene allestito un piccolo presepe. In ogni giardinetto, nell'angolo più suggestivo, fa bella mostra di sé la Natività con i pastorelli, le casette illuminate, i magi; insomma ogni anno ognuno aggiunge al proprio presepe ciò che di più bello riesce a trovare nei vari negozi della città.
Anche quell'anno lavoravamo di gran lena per la buona riuscita del nostro presepe. Ero riuscita a trovare in un vecchio negozio del centro alcuni pastori dipinti a mano, erano bellissimi; li avrei aggiunti agli altri tra il muschio e le rocce. Ero eccitata e felice.
Per il giorno di Natale avremmo avuto con noi i nostri figli ed i nipotini. Sarebbe stato veramente un bel Natale.

Eravamo giunti intanto alla vigilia e, come ogni anno, stavamo per andare tutti insieme alla Messa di mezzanotte. Tra poco le campane avrebbero suonato a distesa e, dalla chiesa, già giungevano a noi le note di «Tu scendi dalle stelle». Insieme ci avviammo verso la chiesa.
Giunti davanti a quella casa mi girai appena appena; quel tanto da vedere che in un angolo, tra rocce di tufo e muschio vero, c'era collocata una piccola grotta con la Natività. Ma cosa mai avevano fatto? La Natività era composta in modo strano: sia la Madonna che San Giuseppe come il Bambino erano... neri. Non c'era nessun altro personaggio. Non c'erano pastori tra le casette e non c'erano neppure le lavandaie o le guardiane di oche. Nulla! Soltanto quella vergognosa Natività nera.
Il tizzetto, seduto sugli scalini, guardava quel piccolo... mostruoso presepe. Allungai il passo adiratissima.
«Ciao! - sentii alla mie spalle -. Ciao! Io sono Luca... Buon Natale! Perché il tuo presepe è così piccolo?».
La voce di mio nipote di appena cinque anni mi gelò il sangue; ma ancora di più me lo gelò la risposta del piccolo negretto. «è piccolo perché da un Gesù nero non vengono amici, non viene nessuno a portare i saluti; perciò non abbiamo i pastori e neppure gli altri personaggi. Forse... poi... Se Gesù vorrà...».

Vidi Luca tornare indietro di corsa fino al nostro giardinetto tutto illuminato, lo vidi raccogliere qualche cosa che teneva nella mano stretta stretta. Cominciò di nuovo a correre verso di noi quando, improvvisamente, al buio, inciampò sull'asfalto e cadde sbattendo la testa nello spigolo del cancello; cominciò a sanguinare copiosamente. Il piccolo volto del mio Luca non era che una maschera di sangue.
Fummo presi dal panico e cominciammo a urlare: «Presto! Presto! Al Pronto Soccorso!».
Stavamo per caricarlo sull'auto quando: «Fatemi vedere! - la voce del “Vu Cumprà”, apparso sulla soglia, ci sorprese non poco -. Fatemi vedere! Portatelo in casa mia. Sono medico». In silenzio, con Luca in braccio, varcammo «quella» soglia. La meraviglia che provai fu proprio da notte di Natale. Quella non era una capanna africana, ma una casa elegante, signorile e nella sala dove ci fecero accomodare troneggiava un enorme albero di Natale illuminato. L'uomo fece sdraiare Luca sul tavolo e con delicatezza, parlandogli affettuosamente, medicò la piccola ferita sul sopracciglio.
Ora sapevo che cosa faceva. Era un medico, non un ladro!
Abbassai gli occhi. La vergogna che provavo era troppo forte; così forte da non riuscire neppure a ringraziarlo. Provavo la vergogna di un anno intero di disprezzo. Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo su quei volti. Com'ero stata stupida! Stupida e crudele. «Non si preoccupi! Luca sta bene; non avrà conseguenze» ci rassicurò.
«Grazie! Grazie di cuore e... Buon Natale!» riuscii appena appena a mormorare con gli occhi abbassati.
«è mio dovere... e poi... un bambino così bello!...»

Intanto il piccolo tizzetto di carbone si era avvicinato a Luca, aprì la sua manina che aveva tenuto stretta stretta.
«Tieni! - gli disse -. Mettilo nel tuo presepe accanto a Gesù noi ne abbiamo già tanti!». E mise nelle mani del bambino un piccolo pastore con una pecorella in braccio.

In quel momento il suono delle campane rallegrò tutto il villaggio. Era mezzanotte.
In quella notte non solo era nato Gesù, ma nel cuore di una stupida, vecchia donna era nato un nuovo sentimento chiamato... Amicizia.
In quella, una mano femminile, nera come la pece, con dolcezza si avvicinò al mio volto e con una lieve carezza vi asciugò una lacrima.

A voi che leggete, questa potrebbe sembrare una favola; una favola di Natale. Certamente potrebbe esserlo se la vicenda, da me stessa narrata, non fosse stata, per mia vergogna, maledettamente vera.

Copyright © 1999

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