Non era facile per il nostro piccolo quartiere
accettare quel «Vu Cumprà» nero come la pece,
venuto da chissà dove e con alle spalle chissà
quali crimini. Eavamo, prima di allora, una
comunità abbastanza legata alle antiche tradizioni
tramandateci, a torto o a ragione, dai nostri
nonni, prima, e dai nostri padri, dopo.
Il nostro villaggio (come lo chiamiamo noi) nella
periferia più bella della cittadina, dinanzi ad un
magnifico golfo sul mar Tirreno, era nato negli
anni Sessanta quando ancora lo stabilimento era in
auge; quando ancora Piombino era considerata una
cittadina ricca e prosperosa per i due grandi
complessi metallurgici: «La Magona d'Italia» e
l'«Ilva».
Appunto quest'ultimo,per i propri dipendenti,
aveva costruito il quartiere di via Cavalleggeri;
palazzi e palazzine dove eravamo venuti, ancora
giovani, ad abitare, felici del nido e del
benessere raggiunto.
Eravamo tutte famiglie appena formate (il
pagamento per il riscatto della casa sarebbe
durato per venticinque anni; per questo le
abitazioni erano state assegnate a coppie
giovani). Non tutti avevano l'auto, allora, ma in
compenso avevamo molti figli piccoli da allevare
tra il verde che circondava le costruzioni.
Sentivamo «nostro» il quartiere ed ora che avevamo
raggiunto la pensione gestivavamo il villaggio
come padroni, sentendoci custodi di questo
giardino abitato.
Per questo, dopo trent'anni, non tolleravamo
intrusi e, tanto meno, di quella specie.
Era arrivato una mattina di gennaio; aveva
affittato la palazzina (poco distante dalla mia),
di Rachele, rimasta libera dopo che lei, vedova,
era emigrata a Torino ad abitare con Monica, la
sua unica figlia. Non so come avesse ottenuto
l'appartamento, fatto sta che lo vedemmo un giorno
scaricare le sue cose da un grosso furgone aiutato
da una ragazza altrettanto nera e con un abito a
tinte sgargianti (troppo vistoso per i miei
gusti). Accanto a loro trotterellava un cosetto
nero, di circa quattro anni, sul cui volto
spiccavano due occhi bianchi bianchi (l'unica cosa
che si notasse da lontano).
Ebbero subito attorno un vuoto impressionante.
Non sapevamo che cosa facesse e nessuno certo
provò a chiederglielo; troppo era il nostro
disprezzo per quella gente così... diversa.
Cominciarono a formarsi capannelli di abitanti
incolleriti. Nessuno voleva gli intrusi. Si
cominciò a parlare di droga, di AIDS, di furti e
di chissà quali altri crimini.
«Non li vogliamo! Non vogliamo simile feccia nel
villaggio!».
Queste erano le frasi ricorrenti e fra queste
spiccava anche la mia, forse... la più forte.
Non osavamo guardarli e nessuno naturalmente, si
provò mai a ricambiare i loro timidi saluti e,
certamente, nessuno osò mai fare un benché minimo
complimento a quel tizzetto di carbone che la
madre, amorevolmente, si portava appresso.
Nessuno, dico, nessuno voleva quei due «alieni».
Col passare del tempo il loro giardinetto risultò
ben curato. Lei ancora portava gli abiti vistosi,
ma sempre in ordine ed il tizzetto di carbone
sempre pulito e, soprattutto, educato.
Malgrado ciò non riuscirono ad abbattere quel muro
di ostilità che li circondava. Certo la loro vita,
in quel periodo, non dovette essere facile,
isolati com'erano. Lui partiva al mattino presto
con un'auto di media cilindrata.
«Chissà a cosa rubare» dicevamo in sordina, dietro
dietro.
Tornava alla sera, si soffermava sulla soglia a
guardare le piccole piante che lei curava con una
perizia davvero magistrale, poi entrava in quella
sua casa che noi immaginavamo lercia come una
capanna africana. La domenica, poi, vestiti a
nuovo, partivano presto per rientrare a pomeriggio
inoltrato.
Non volevamo darlo a vedere, ma la nostra
curiosità cresceva momento per momento.
Dopo i loro primi timidi approcci di saluto caduti
nel vuoto, si erano ritirati a fare vita isolata.
Anche il bambino non aveva amichetti; un po'
perché ormai il villaggio era invecchiato ed i
nipotini venivano a trovarci saltuariamente e un
po' perché evitavamo che questi si «sporcassero»
con... quelli là. Certo che, se per un solo
momento, li avessimo guardati bene, avremmo visto
quanta tristezza aleggiasse in quegli occhi così
grandi; ma eravamo troppo ristretti nel nostro
guscio di egoismo per rendercene conto; egoismo e
indifferenza, indifferenza e crudeltà.
Avevamo notato che nessuno veniva a trovarli.
«Sono talpe nella tana! Hanno certo qualche cosa
da nascondere!» eravamo soliti dire.
Senza sapere che eravamo stati noi ad averli
rinchiusi dietro quei cancelli di via
Cavalleggeri. Neppure dopo quasi un anno erano
riusciti a scambiare con noi qualche frase, se pur
di circostanza, come: «Bel tempo, eh!», oppure
«Che brutta giornata!», ed intanto si stava
avvicinando il Natale.
Il villaggio in questo periodo si anima. In ogni
spazio verde risalta un alberello addobbato e
luminoso ed in ogni giardino viene allestito un
piccolo presepe. In ogni giardinetto, nell'angolo
più suggestivo, fa bella mostra di sé la Natività
con i pastorelli, le casette illuminate, i magi;
insomma ogni anno ognuno aggiunge al proprio
presepe ciò che di più bello riesce a trovare nei
vari negozi della città.
Anche quell'anno lavoravamo di gran lena per la
buona riuscita del nostro presepe. Ero riuscita a
trovare in un vecchio negozio del centro alcuni
pastori dipinti a mano, erano bellissimi; li avrei
aggiunti agli altri tra il muschio e le rocce. Ero
eccitata e felice.
Per il giorno di Natale avremmo avuto con noi i
nostri figli ed i nipotini. Sarebbe stato
veramente un bel Natale.
Eravamo giunti intanto alla vigilia e, come ogni
anno, stavamo per andare tutti insieme alla Messa
di mezzanotte. Tra poco le campane avrebbero
suonato a distesa e, dalla chiesa, già giungevano
a noi le note di «Tu scendi dalle stelle». Insieme
ci avviammo verso la chiesa.
Giunti davanti a quella casa mi girai appena
appena; quel tanto da vedere che in un angolo, tra
rocce di tufo e muschio vero, c'era collocata una
piccola grotta con la Natività. Ma cosa mai
avevano fatto? La Natività era composta in modo
strano: sia la Madonna che San Giuseppe come il
Bambino erano... neri. Non c'era nessun altro
personaggio. Non c'erano pastori tra le casette e
non c'erano neppure le lavandaie o le guardiane di
oche. Nulla! Soltanto quella vergognosa Natività
nera.
Il tizzetto, seduto sugli scalini, guardava quel
piccolo... mostruoso presepe. Allungai il passo
adiratissima.
«Ciao! - sentii alla mie spalle -. Ciao! Io sono
Luca... Buon Natale! Perché il tuo presepe è così
piccolo?».
La voce di mio nipote di appena cinque anni mi
gelò il sangue; ma ancora di più me lo gelò la
risposta del piccolo negretto.
«è piccolo perché da un Gesù nero non vengono
amici, non viene nessuno a portare i saluti;
perciò non abbiamo i pastori e neppure gli altri
personaggi. Forse... poi... Se Gesù vorrà...».
Vidi Luca tornare indietro di corsa fino al nostro
giardinetto tutto illuminato, lo vidi raccogliere
qualche cosa che teneva nella mano stretta
stretta. Cominciò di nuovo a correre verso di noi
quando, improvvisamente, al buio, inciampò
sull'asfalto e cadde sbattendo la testa nello
spigolo del cancello; cominciò a sanguinare
copiosamente. Il piccolo volto del mio Luca non
era che una maschera di sangue.
Fummo presi dal panico e cominciammo a urlare:
«Presto! Presto! Al Pronto Soccorso!».
Stavamo per caricarlo sull'auto quando: «Fatemi
vedere! - la voce del “Vu Cumprà”, apparso sulla
soglia, ci sorprese non poco -. Fatemi vedere!
Portatelo in casa mia. Sono medico».
In silenzio, con Luca in braccio, varcammo
«quella» soglia. La meraviglia che provai fu
proprio da notte di Natale. Quella non era una
capanna africana, ma una casa elegante, signorile
e nella sala dove ci fecero accomodare troneggiava
un enorme albero di Natale illuminato.
L'uomo fece sdraiare Luca sul tavolo e con
delicatezza, parlandogli affettuosamente, medicò
la piccola ferita sul sopracciglio.
Ora sapevo che cosa faceva. Era un medico, non un
ladro!
Abbassai gli occhi. La vergogna che provavo era
troppo forte; così forte da non riuscire neppure a
ringraziarlo. Provavo la vergogna di un anno
intero di disprezzo. Non ebbi il coraggio di
alzare lo sguardo su quei volti.
Com'ero stata stupida! Stupida e crudele.
«Non si preoccupi! Luca sta bene; non avrà
conseguenze» ci rassicurò.
«Grazie! Grazie di cuore e... Buon Natale!»
riuscii appena appena a mormorare con gli occhi
abbassati.
«è mio dovere... e poi... un bambino così
bello!...»
Intanto il piccolo tizzetto di carbone si era
avvicinato a Luca, aprì la sua manina che aveva
tenuto stretta stretta.
«Tieni! - gli disse -. Mettilo nel tuo presepe
accanto a Gesù noi ne abbiamo già tanti!».
E mise nelle mani del bambino un piccolo pastore
con una pecorella in braccio.
In quel momento il suono delle campane rallegrò
tutto il villaggio. Era mezzanotte.
In quella notte non solo era nato Gesù, ma nel
cuore di una stupida, vecchia donna era nato un
nuovo sentimento chiamato... Amicizia.
In quella, una mano femminile, nera come la pece,
con dolcezza si avvicinò al mio volto e con una
lieve carezza vi asciugò una lacrima.
A voi che leggete, questa potrebbe sembrare una favola; una favola di Natale. Certamente potrebbe esserlo se la vicenda, da me stessa narrata, non fosse stata, per mia vergogna, maledettamente vera.
Copyright © 1999