Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa
HO PROVATO A STRINGERTI
COME SABBIA FRA LE DITA


di Fabio Beccacini Lagorio

Spunta solo con la testa dal lenzuolo bianco, è una testa piccola e incolore, le sue pupille sono due spilli neri conficcati nelle orbite blu scuro, i suoi occhi sono una timida, patetica, rappresentazione di quello che una volta era uno sguardo dolce e sensibile e che ora è solo e penosamente una cartolina di veglia funebre.
Lisa ha diciannove anni e ha un carcinoma al cervello.
Lisa ha un'escrescenza cancerosa alla base del cervelletto grossa come una mela.
è sdraiata supina al letto numero 332 del reparto di oncologia della clinica universitaria di San Martino. è il quattordici di ottobre e di fuori le foglie hanno cominciato a cadere dagli alberi andando a svolazzare tutt'intorno, come le cellule malate di Lisa stanno facendo una vacanza in lungo e in largo per il suo corpo. «Metastasi» le chiama il professor Balletti. «Vede – mi dice mostrandomi una lastra – qui, sotto il pancreas e qui al livello del colon, le vede queste macchie chiare, questi segni sono il principio di nuove forme tumorali satelliti di quella principale».
«C'è una logica particolare in questo?».
«No, è come se queste cellule avessero preso il bus alla stazione centrale delle corriere e fossero scese ad una fermata qualunque per andare a bere qualcosa. Sono proprio come degli alcolizzati, quando trovano un bar di loro gradimento lo lasciano sempre malvolentieri e fanno un sacco di amici». «Dottore, Lisa era astemia. Non tollerava nemmeno il San Bitter».
«Lo so e non ha mai toccato nemmeno una sigaretta. Però per cortesia ne parli ancora al presente. L'imperfetto mi mette di cattivo umore. Non mi diverte questo lavoro. Lo faccio soltanto perché uno ogni tanto lo riesco a tirare fuori per i capelli da questo buco che se li porta via quasi tutti».
«Sì, ma dottore Lisa ha diciannove anni».
«Lo so».
«Quante speranze ha di farcela. Mi dica la verità, non mi prenda in giro».
«Lei crede in Dio?».
«No».
«Allora nessuna».
Prendo le lastre e ci do un'occhiata stupida; quelle macchie eburnee a me sembrano l'unica cosa sana. Mi alzo, ma non mi viene da piangere, quello l'ho già fatto in abbondanza, adesso il mio dolore è puro, senza sfoghi.
Percorro i corridoi asettici che si incontrano ortogonalmente come delicati intarsi di una scatola cinese, la gente che passa di qui ha tutta la stessa espressione. Non ha nessuna espressione.
Al secondo piano ci sono i malati di leucemia, molti di loro sono bambini, mi sembrano degli alieni, la chemioterapia cancella dai volti la fisionomia come una statua di cera che rimanga al sole. Le facce sembrano quelle di burattini piallati con della carta vetro numero cinque, rimangono solo quegli occhi scuri, opachi come pietre dure, che ti rivolgono una domanda a cui non sai rispondere.
Perché?
Salgo le scale fino al sesto piano, di prendere l'ascensore non ne ho nessuna voglia. Non ho voglia di incontrare altri sguardi, altri sorrisi convenienti, altre assenze.
Arrivato sul pianerottolo prendo il corridoio di destra, la camera di Lisa è la terza sulla sinistra. Mi accorgo solo ora che qui i reparti sono promiscui, non ci sono divisioni sessuali. Perché la morte non fa distinzioni è forse la sola cosa equanime nella vita di ogni uomo. C'è un raggio di sole che buca piano la parete di vetrocemento, la superficie spessa della finestra la screzia come un arcobaleno, l'alluminio sterile degli accomodamenti sembra riflettere piccole auree evanescenti, come respiri affannati dopo una lunga corsa.
Hanno appena portato la cena, puree e piselli, una fettina di prosciutto cotto arrotolata. Poi sull'angolo in alto a destra del vassoio ci sono tre compresse colorate. Le due blu sono i farmaci chemioterapici, quella rossa serve per non vomitare.
«Hai fame Lisa?».
Si volta, sorride, non si era ancora accorta del mio ingresso. Tutte le volte che sorride mi sembra di dover esplodere, come se dovessi contenere una vertigine, ma non ne ho il diritto. è lei che sta morendo, e prima cederò io prima se ne andrà lei.
«Tu ne avresti?».
Butto lo sguardo per la stanza tentando di trovare un posto dove poter nascondere il mio imbarazzo.
«Non prendermi in giro, Fabio».
«No, non ne avrei».
Mi prende la mano, la sua è fredda, ma sento ancora i battiti, paradossali e vigorosi. «Siediti accanto a me – dice –. Ora mangio il puree, che sennò si raffredda». Ora provo io a sorridere, ma credo che non mi venga molto bene perché il suo sguardo sembra trattenere a stento una malinconia.
Finisce il pasto in poco tempo, poi mi chiede se gli posso tirare su un goccio la tapparella che vorrebbe vedere di fuori.
La città si sta cominciando a vestire di buio e notte. I lampioni si stanno accendendo lungo il viale come una fila di perle mentre il crepuscolo stempera i palazzi con una sfumatura livida.
C'è un cane che sta giocando con le foglie secche, le fa alzare in nuvole, poi ci si rituffa dentro abbaiando, credo.
«Hai visto quel bastardino com'è dolce?».
Lo guardo ancora, non me la sento di fissarla. «Sì, assomiglia al tuo Buck».
Lei si adombra un poco, mi accorgo subito di aver detto una stronzata. Non sono affatto tagliato per fare il compagno di sventura.
«Ti voglio bene – dice. – Se non avessi te non so cosa farei».
Io non riesco a risponderle nulla, anche se sarebbe stato facile fare il pappagallo. Dopo le dico: «Ti scoccia se vado fino alle macchinette a prendere un caffè? Mi sta venendo sonno».
«No, vai pure, ma fai presto. Ho voglia di vederti ancora prima che finiscano le visite».
Questa volta un sorriso dignitoso riesco a farlo. Mi alzo e le do le spalle. La macchina del caffè è in fondo al primo corridoio, c'è una piccola processione compassata che aspetta in silenzio il proprio turno. Mi accodo anch'io.
«Nella stanza dodici è morto un bambino di otto anni» dice la signora avanti a me. Lo dice al signore al suo fianco, ma è una semplice constatazione, non si aspetta una risposta. Aveva undici anni meno di Lisa, da questo punto di vista è abbastanza fortunata!
È incredibile come mi senta cinico certe volte. In certe situazioni mi sento «meglio» solo se so che c'è qualcuno che sta peggio di me. Arrivo davanti al distributore e mi accorgo di non avere nessuna voglia di caffè. Ero uscito dalla stanza di Lisa perché non reggevo più quella situazione. Mi scosto dalla macchinetta e faccio passare gli altri, nessuno sembra notare la mia strana recita. Poggio qualche passo distratto lungo le piastrelle. Mi appresso alla veranda prendendo una sigaretta in mano. La considero un poco pensieroso, poi ne infiammo la testa con decisione. Passano alcuni minuti e qualche boccata. Nuvole di fumo disegnano strani cieli fra le pareti disadorne, come gabbiani dentro ad una voliera.
Quando rientro nella stanza Lisa sta dormendo. Sembra serena.
Dalla V della vestaglia traspare il suo seno, mi avvicino e la copro con il lenzuolo. Per un attimo ripenso a tutte le volte che abbiamo fatto l'amore, al suo odore di pulito, ai suoi occhi chiusi. Ma mi sembra di fare qualcosa che non è ammesso, di pensare qualcosa che non è lecito in una situazione come questa.
Lisa è la mia ragazza da tre anni.
Lisa sa guardarmi dentro come nessun altro.
Lisa è campionessa regionale di scacchi.
A Lisa piace il cioccolato, ma non l'hanno mai operata di appendicite. Lisa crede che porti tutte le mattine Buck a fare pipì. Non sa che è morto.
Lisa è l'unico motivo per cui vivo. Banale, vero?
Quando l'orario delle visite termina lei sta ancora dormendo. Le do un bacio sulla fronte e mi accingo ad andarmene. La guardo ancora una volta quando sono a metà strada fra il letto e la porta.
Scendo fino al piano terra a piedi, indosso la giacca prima di uscire. Una sferzata di aria inaspettatamente gelida mi sfiora il volto. Mi avvicino alla pensilina degli autobus. Ci sono due ragazzetti che si sbaciucchiano. Poi lui le mette le mani tra i capelli e le dice che non si lasceranno mai, per nulla al mondo. Volto lo sguardo meccanicamente verso le finestre del sesto piano, poi decido di farmi male e guardarli ancora un po' i due ragazzi.
E sembrerà pure strano, ma sono felici.
Ancora un attimo ed arriva il bus. Mi ricordo del discorso del dottor Balletti e stupidamente inizio a camminare a piedi verso casa. Oggi è la seconda volta che perdo tempo ad aspettare qualcosa che non mi interessa.
Mi viene da sorridere, ma il vento è davvero troppo freddo.
Le macchine illuminano a sbalzi il marciapiedi ed i negozi stanno tirando giù le serrande. La gente va tutta di corsa, corre verso la casa, verso le famiglie, verso la cena, verso i letti. Allora io rallento ancor più il mio timido passo, quasi lo spengo nel buio umido come un microscopico dolore che si perde nella carne. E torno ancora lì in quella stanza, e provo a stringerti, come sabbia fra le dita.
 

Copyright © 2000

Per tornare alla pagina precedente


HOME PAGE