Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa
FRANCA B.
(non si affitta ai meridionali)


di Silvana Perotti

«Franca, Franca», la chiamo correndole incontro lungo l'interminabile corridoio. Quattro specie di gorilla mi sbarrano il passo e mi trattengono torcendomi un braccio dietro la schiena. Lei si ferma di botto, mi scruta un attimo e ordina: «Lasciatela, è tutto a posto».
Poi si rivolge a me, con un sorriso insieme felice e meravigliato negli occhi scuri: «Valeria! Ma sei proprio tu? Dio, quanto tempo è passato. Che ci fai qui?». Non faccio in tempo a risponderle, che uno degli energumeni la sollecita, rivolgendosi a lei con un misto di affetto e rispetto: «Signor Giudice, la stanno aspettando». «Vengo subito» risponde, e chiudendomi la mano in una stretta e forte, mi dice: «Scusami, devo essere in Pretura fra dieci minuti. Ma voglio rivederti». E si avvia con passo svelto, seguita dagli uomini della scorta.
Mi ritrovo sola nel corridoio, con mille ricordi che si affollano alla mente. Quasi inconsapevolmente mi affaccio a uno dei finestroni aperti che lasciano entrare un'afa appiccicosa e vedo Franca scendere lo scalone che porta alla strada trafficata. La fisso mentre sta per salire sull'auto blindata. Come se sentisse il mio sguardo alza la testa e i nostri occhi si incontrano. Mi sorride e mi saluta sventolando una mano.
In quell'attimo un boato terribile riempie l'aria e scuote l'edificio dalle fondamenta. Il contraccolpo dell'esplosione mi butta a terra, in mezzo a vetri rotti e calcinacci. Mi sento dolere dappertutto e mi passo una mano sulla faccia: la ritiro sporca di sangue. Quando riesco a rimettermi in piedi, assalita da una orribile premonizione, mi afferro con le mani alla finestra sventrata e cerco con gli occhi l'auto di Franca.
Al suo posto c'è solo un cratere pieno di fumo.

Aveva i capelli neri, gli occhi neri e la pelle olivastra. Era una strana bambina, così diversa dai bambini che ero abituata a frequentare. Magra di una magrezza spigolosa, gli occhi scuri sempre crucciati e denti bianchissimi in una bocca che raramente si apriva in un sorriso restio e pieno di timidezza. Parlava pochissimo e quando parlava io non la capivo, anche se la mamma diceva che parlava italiano.
Venne a casa nostra in quello stesso anno in cui cominciarono ad apparire quegli strani cartelli, il cui significato mi era oscuro: «Non si affitta a meridionali», stava scritto su di un foglio di cartoncino bianco, appeso vicino al numero dei palazzi.
«Chi sono i meridionali?» chiesi un giorno a papà. Avrò avuto sette anni.
«Persone come noi», mi rispose lui senza darmi altre spiegazioni. Nella mia fantasia, però, «i meridionali» erano personaggi misteriosi di cui era proibito parlare. Credevo appartenessero a una setta, come quella di cui avevo letto su di un fumetto terrificante, composta da persone che si riunivano per bruciare crocifissi e sacrificare bambini.
A volte, quando accompagnavo la mamma a fare la spesa nei negozi del quartiere, ne sentivo parlare in dialetto dalle bottegaie. Ma loro non li chiamavano «meridionali». Li chiamavano, «terun».
Inconsapevolmente cominciai allora a odiare ogni forma di razzismo: mi erano antipatiche quelle bottegaie, con i loro grembiuli bianchi tesi sulle pance abbondanti, con le loro facce lustre di sudore e la loro puzza di formaggio e parteggiavo per i «meridionali», che loro accusavano di essere sporchi, brutti, ignoranti e di rovinare con la loro presenza la nostra bella città.
Scoprii finalmente chi fossero in un giorno di febbraio. Ero alla stazione con la mamma per pendere una cugina che veniva a studiare a Torino e da un treno lungo lungo con tante carrozze scesero degli uomini malvestiti e con degli strani berretti calzati sulla testa. Si trascinavano tutti delle orribili valigie legate con lo spago e in mezzo a loro c'era qualche donna vestita di nero con lo scialle tirato sulla testa. Avevano lo sguardo scuro e timoroso, come di cani affamati, e si guardavano attorno sperduti chiudendosi con le mani il colletto delle giacche striminzite.
«Sono meridionali» disse la mamma, rispondendo a un mio muto interrogativo «vengono a lavorare nelle fabbriche». «Perché non si mettono il cappotto?» chiesi, meravigliata dal loro abbigliamento leggero. «Non ce l'hanno» tagliò corto la mamma. Da quel giorno, ogni volta che leggevo il cartello «Non si affitta ai meridionali», mi veniva da piangere perché pensavo a quei poveretti senza casa e senza cappotto.

Franca veniva a casa mia con la sua mamma. La sua mamma faceva le pulizie. E mentre puliva, cantava. Gliela invidiavo, la sua mamma. La mia era dura e segaligna e gridava sempre. E sgridava la mamma di Franca perché non puliva abbastanza. «Loro non sono come noi, - diceva - nel bagno ci mettono le piantine di prezzemolo e dormono tutti in una stanza. E poi non hanno voglia di fare niente!».
Ricordo che una volta disse queste cose al telefono mentre Franca ascoltava. E ricordo le lacrime che rigarono le sue guance scure. Per consolarla le portai la mia bambola preferita, quella coi capelli neri e ricciuti che a piegarla chiudeva gli occhi. Ma Franca scosse la testa e indicò col dito una vecchia bambola bionda. Gliela misi in braccio e Franca la strinse forte forte e corse a nascondersi in un angolo per paura di essere sgridata. Io chiesi alla mamma il permesso di regalarle la bambola bionda, ma la mamma me lo proibì e la sera si lamentò col papà: «Devi dire alla «donna» di non portarsi più dietro quella bambina. Non mi piace che giochi con Valeria». Sconvolta da quella inutile cattiveria, impiantai un capriccio terribile e l'ebbi vinta. Cominciò così la mia amicizia con Franca.

Da allora passammo i pomeriggi a parlare. Prima a gesti, sia per timidezza sia perché Franca usava tanti termini che non comprendevo; poi via via a parole, perché Franca, andando a scuola, prese a esprimersi in un italiano più simile al mio.
Seppi così che veniva da un paesino della Calabria e che aveva quattro fratelli. Due più piccoli e due più grandi di lei. Suo padre faceva il manovale in uno dei tanti cantieri che erano sorti per ricostruire nuove case nei «buchi» aperti dalle bombe. Vivevano tutti in due stanze senza bagno e senza riscaldamento in un vecchissimo palazzo nel centro della città. Abitavano uno di quegli appartamenti che allora si chiamavano «di ballatoio». Una lunga fila di finestre che affacciavano su di un cortile e che si aprivano su di un interminabile balcone che aveva un cesso sul fondo. Un cesso che serviva almeno sei famiglie. Il sole non entrava mai, in quelle case. Ci entravano invece grossi topi affamati e turbe di scarafaggi che uscivano a frotte dalle tubature.
Franca ne aveva una gran paura e mi raccontava che la notte nascondeva la testa sotto le coperte per non vederli camminare in fila indiana sulla parete del lavandino vicino al quale ogni sera sua madre metteva la branda nella quale dormiva. Suo padre aveva preso un gatto per scacciare i topi, ma una sera lo trovarono morto. Lo avevano ammazzato i topi.
Nemmeno io avevo molti giocattoli, ma a Franca la mia stanza sembrava il paese dei balocchi. Ricordo che carezzava per ore i piattini del servizio da cucina in miniatura che mi aveva portato Gesù Bambino. Mi aveva chiesto chi fosse Gesù Bambino e quando glielo avevo detto aveva sgranato gli occhi scuri e mi aveva spiegato che al suo paese veniva la Befana e che metteva i doni nella calza appesa, ma che a lei portava soltanto qualche noce e un pugno di fichi secchi. Quando le domandai se fosse stata cattiva scosse i capelli bruni e mi rispose con lo sguardo amaro di un adulto: «No, sono povera».
Gli occhi le ridevano solo quando parlava del suo paese. Ne parlava per ore. Mi raccontava del mare che d'estate diventava di smalto blu. Non ho mai conosciuto nessun altro che sapesse descrivere il colore del mare con le mani. O quello delle case. Che erano tutte bianche e che si arrampicavano su di una collina a strapiombo sul mare. Non faceva mai freddo al suo paese, diceva, gli occhi persi nella nebbia della strada. Ed ero io a guardarla con occhi sgranati quando mi raccontava delle reti colme di pesci guizzanti e di tuffi dalla roccia a strapiombo sul mare o di fichi d'india rubati nella proprietà del «signore», una specie di padrone del paese. E di sua madre che raccoglieva le olive per il «signore» e aveva sempre le unghie nere che non si pulivano nemmeno a strofinarle con la spazzola del bucato. E di suo padre, che quando gli avevano ammazzato la pecora aveva pianto battendosi i pugni sulla fronte. Poi gli avevano ucciso il fratello, quello che aveva testimoniato sull'omicidio di un contadino che non voleva cedere la terra.
Due giorni dopo aver seppellito il fratello, era salito sul treno per Torino con una valigia di cartone. Dentro c'erano un pacco di giornali per ripararsi dal freddo e un sogno. Un futuro senza pecore ammazzate per i figli. Poi l'impatto con la città. Mura grigie, facce chiuse, pregiudizi, un linguaggio sconosciuto. Un dormitorio comune, in cantiere dall'alba al tramonto, un piatto di pasta cucinato su di una cassa rovesciata, una branda gelida, il vaglia spedito all'ufficio postale del paese. Dopo molti mesi, una domenica mattina, il padre di Franca si avviò alla banchina gelida del treno proveniente da Reggio Calabria: dall'ultimo vagone, terza classe, scesero la moglie e i figli con due valigie scure. Dentro c'era tutto ciò che possedevano. Insieme a un'ipoteca per il futuro.

Franca ed io crescemmo insieme e col passare degli anni ci unì un legame che nessuno riusciva a spezzare.
Ben presto Franca si trasformò in un'adolescente di una bellezza cupa e inquietante. Formavamo una ben strana coppia, io con i miei colori sbiaditi e i lineamenti appena abbozzati e Franca con quel suo viso mediterraneo su di un corpo alto e asciutto.
Ricordo le ore passate a parlare, chiuse nella mia stanza. I miei discorsi erano semplici: i ragazzi, il matrimonio, forse l'insegnamento. Come i miei sogni. Franca non aveva sogni. Le sue erano determinazioni. Voleva tornare tra la sua gente, per aiutarla. Quasi si sentisse responsabile della fame, della rassegnazione, dei soprusi che costringevano il suo popolo a emigrare per un tozzo di pane. Passava le notti china sopra certi tomi di economia e di legge il cui peso sconvolgeva la mia ignoranza. «Cosa ci capisci?» le chiedevo. «Quello che tu non hai bisogno di sapere» mi rispondeva.
Ce l'aveva con i suoi fratelli che non volevano studiare e che vivevano la città come un ghetto nel quale mantenere le consuetudini del paese. «Sono quelli come loro - li accusò un giorno - che hanno fatto attaccare quei cartelli alla gente come te».

Intanto continuava ad abitare nella casa sul ballatoio, aiutava sua madre a badare ai maschi della famiglia e nel frattempo studiava con una caparbietà che stupiva i suoi insegnanti, infrangendo i loro pregiudizi. E nello studio, come in tutte le cose che faceva, metteva rabbia ed orgoglio e non legava mai con nessuno. A parte me, non aveva amici.
Nemmeno con la sua famiglia, legava più. Ma la amava di un amore viscerale, istintivo. Quasi volesse proteggerla. Ed era strano vedere quella testa fiera chinarsi, il pomeriggio, per aiutare sua madre a pulire i pavimenti di casa mia.
Quante volte ho rivissuto quella scena e mi sono pentita di non averla aiutata, di non aver capito la sua umiliazione. Ma nella mia stupidità davo per scontato che il mondo fosse diviso tra chi fa le cose e chi paga per farsele fare.
Ma lei non me ne voleva. Forse persino mi compativa. Prendeva come un privilegio la durezza della sua esistenza, perché le dava quella determinazione che io, cresciuta nella bambagia, non avrei mai posseduto.

Fino al giorno in cui suo padre morì precipitando da un'impalcatura del cantiere in cui lavorava. Ricordo Franca ai funerali. Vestita di nero da capo a piedi, senza una lacrima sul volto impietrito, sorreggeva la madre che piangeva con alte grida, nel lamento tipico delle donne del sud che da millenni piangono la morte violenta dei loro uomini. Quando mi avvicinai per consolarla, respinse anche me. «Ci sono riusciti. Lo hanno ucciso», mi disse. Da allora non l'ho incontrata più.
Se ne andò la sera stessa. Per un po' chiesi sue notizie alla madre, poi persi di vista anche lei. Ne accantonai il ricordo, come spesso capita con quello delle persone che ti sono state care ma che sei certa di non rivedere mai più. Anche se alle volte la sua mancanza mi doleva come una vecchia ferita, di quelle che all'improvviso ti danno fitte lancinanti.

Pochi anni dopo la sua fuga, mio padre venne trasferito al sud dall'azienda in cui lavorava con l'incarico di aprire una sede in una città del meridione.
L'impatto con quella città, così diversa dalla mia, fu terribile. All'inizio la odiai, incapace di accettare una realtà così diversa da quella cui ero abituata. Odiavo il rumore, il traffico caotico, le voci, quel dialetto così diverso dal mio e persino la luce intensa che mi feriva gli occhi.
Poi a poco a poco imparai ad amarla. Ad amare il calore della sua gente così capace di farmi sentire «a casa mia». Forse perché non trovai cartelli con su scritto: «Non si affitta ai settentrionali», ma solo porte spalancate. E il mare dei racconti di Franca, con il sole a picco sulle scogliere a strapiombo. E il profumo dei gelsomini e l'estate dalle mille lucertole e i vicoli bui e le cattedrali dalle volte istoriate e i palazzi traboccanti di storia.
Non sono mai tornata ad abitare nella mia città. Un po' trascinata dagli eventi della vita, un po' perché amo vivere qui.
Mi sono adattata ai ritmi, al clima, all'atmosfera di festa e insieme di tragedia che grava su questa città. Forse ne sono diventata parte anch'io. Ma alle volte mi dolgono ancora le radici. Quelle sradicate, tanto tempo fa, all'improvviso, con uno di quei colpi secchi che non fanno sentire dolore.
Più invecchio e più certi giorni mi assale una malinconia indefinita, come se una voce mi dicesse di tornare a cercare la mia infanzia là, dove le colline sono ondulate e la brina dell'alba accende i campi sotto il primo sole. Vorrei rivedere l'acero rosso del mio giardino e cercare la luce opaca dei lampioni dentro la nebbia. Mi mancano la parlata cadenzata della mia gente e l'arco delle montagne sbiancate dalla prima neve. Vorrei risentire il profumo dei narcisi, nel prato al fondo della vallata dove precipita il torrente. O sentire il campanaccio delle mucche che ritornano dal pascolo sull'alpe, là dove è nato mio nonno. E percorrere i portici in dicembre, per poi fermarmi, le braccia cariche di pacchi colorati, a prendere il tè in una sala calda con gli specchi dorati.
Fissando il mare smaltato di blu, dalla terrazza della casa in cui abito, capisco finalmente le struggenti nostalgie che inondavano lo sguardo di Franca. Le sue rabbie. I suoi occhi persi all'improvviso nel vuoto. La terra dove nasci ti si imprime nell'anima, e per quanto tu possa lasciarla, fuggirla, persino rinnegarla, costruirti un'altra vita, altri ricordi, altri amici, altri amori, lei ti resta addosso come un marchio, come un orgoglio, come un'infamia. E la cerchi senza nemmeno rendertene conto in ogni orizzonte che vedi, in ogni persona che incontri. Come un amante perduto. Il cui ricordo non ti abbandona mai.
Ma è qui che è nato mio figlio. E nel suo carattere ci sono le caratteristiche delle due terre che l'hanno generato. L'allegria solare del sud e le ombre delle nebbie della mia terra. Le rabbie improvvise dei vulcani e i gelidi silenzi delle vette innevate. Nascoste dietro una faccia da schiaffi e un cuore che odia le ingiustizie.

Oggi l'ho accompagnato in tribunale: deve testimoniare contro un gruppo di sbandati che hanno aggredito un nigeriano a una fermata d'autobus. La notte in cui accadde il fatto tornò a casa alle tre, un occhio pesto, il maglione stracciato, i segni delle botte date e prese, una rabbia incontrollata nella voce.
«Quei bastardi - balbettava tra le labbra spaccate - quei bastardi! hanno fermato la macchina e gli sono saltati addosso all'improvviso. Sporco negro, gli gridavano, torna al tuo paese intanto lo pestavano a sangue. Più lui urlava e più si divertivano. Ridevano, quelle bestie. Volevo ammazzarli, mi sono buttato in mezzo. E meno male che è arrivata la polizia».
Poi mi ha chiesto, con quel suo sguardo chiaro offuscato dall'ira: «Perché, mamma, perché?» e ho rivisto in lui il bambino che raccoglieva i cuccioli feriti.
«Non lo so, Nicola. Perdonami» risposi. Solo più tardi mi sono resa conto di aver chiesto scusa a mio figlio delle brutture, delle ingiustizie, dell'odio, dell'ignoranza, delle crudeltà degli uomini. Non avevo risposte. Non ne troverò mai. Non posso capire le ragioni di quelle belve, quelle che mio figlio ha affrontato anche se lo potevano ammazzare. Così come mio padre non seppe spiegarmi, tanti anni fa, le ragioni di quel cartello appeso accanto al numero del portone di casa mia: «Non si affitta ai meridionali».

Ma ho capito le sue ragioni quando ha deciso di testimoniare contro quei delinquenti, guardandoli in piena faccia. Eppure, vigliaccamente, avrei voluto gridargli di non farlo, avrei voluto proteggerlo come quand'era bambino e correva tra le mie braccia perché qualcosa l'aveva impaurito e bastava una carezza per fargli tornare il sorriso.
Ma non ho potuto dirgli nulla perché sono stata io che gli ho insegnato che tutti gli uomini sono uguali, e non importa il paese in cui nascono, o il colore della loro pelle, o la lingua che parlano o il Dio in cui credono. Io gli ho detto che l'odio per i diversi è il padre che ha generato i mostri della storia: la schiavitù, il razzismo, le guerre. E che ancora oggi li genera perché i mostri non hanno memoria.
Sono io che quando era ancora piccolo, gli ho raccontato la storia di Franca e gli ho spiegato che nel mondo ci sarà sempre qualcuno che lava i pavimenti e qualcun altro che paga per farseli lavare. E non e detto che il migliore tra i due sia quello che ha i soldi per pagare.

È stato per accompagnare Nicola a testimoniare, che ho rivisto Franca, al fondo di quel lungo corridoio del palazzo di giustizia. Franca B., magistrato assegnato all'antimafia.

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