Premio Editoriale Penna d'Autore - Narrativa
SIGNOR GIUDICE

Maria Luisa Leotta
Signor Giudice,
io sono nato a Librino (1). Sa quel posto che nella testa di chi lo ha costruito, quel tizio giapponese, come si chiama Kenzo, doveva essere la città del futuro, la Catania del 2000?
E invece il 2000 è arrivato e Librino resta quella fogna che lei ora può vedere.
Dire fogna forse non rende bene le idee. Noi qui le fogne non ce le abbiamo nemmeno, che sono scoperte e i bambini ci giocano vicino al pallone.
Ma non è che ci mancano solo le fogne a noi. Ci manca quasi tutto. Le uniche cose che abbiamo sono le case, ma lo ha visto come è stato bravo questo giapponese? Ha preso dei blocchi di cemento li ha posti l'uno sull'altro, l'uno accanto all'altro e ci ha creato questi belli palazzi, che sembrano alveari tanto sono vicini uno all'altro. Che ci tolgono il respiro.
Se poi Signor Giudice si trova a passare da quella strada che va all'aereoporto ci faccia caso c'è un palazzo che mi ha sempre fatto pena: è staccato dagli altri, sembra emarginato, come al quartiere nostro.
Nelle strade le luci non ci sono. Di recente però quando è venuto il Papa ce le hanno messe, dopo 15 anni.
Ora però mi spavento che ce le levano di nuovo.
Voi al Nord avete dei posti dove fate giocare i bambini, noi qui li buttiamo nelle strade e non le dico che strade Signor Giudice che in alcune neanche l'asfalto c'è.
Anche fare la spesa qui è un problema serio, perché di negozi non ce ne abbiamo, non ce li fanno aprire. Ce ne sono pochi, non c'hai scelta. Inutile poi che le racconto che in tutto il quartiere non ci sono i telefoni, quelli pubblici.
Ce n'è uno solo, ma non funziona mai.
Io però a Librino ci sono affezionato. Io ci sono nato. Mia madre mi ebbe con uno che non ho mai conosciuto e forse manco lei conosceva oltre quella volta. Poi però ha creduto che avevo bisogno di un padre. Si è preso a uno, ci ha fatto sei figli e mi ha messo nella conta. Lui è ubriaco forte Signor Giudice, però i conti se li sa fare e lo sa che non sono figlio suo. Così ha fatto contenta a mia madre facendomi passare per figlio suo. Però in cambio le fa fare la «buttana» (2) e si beve tutti i soldi che lei guadagna.
Non si stupisca Signor Giudice non le dico che a Librino sono tutti così ma qui nessuno si stupisce.
Io Signor Giudice non è che le scrivo per impietosirla, non è che chiedo a Lei per questo di venire meno ai suoi doveri di uomo (anche se Lei è una donna) della giustizia, non mi permetterei mai. Lei ha studiato per anni cos'è il bene e che cos'è il male. Io a quello l'ho ferito e questo è male. Se poi mi chiede perché l'ho fatto Lei certo non mi può capire. Lei è del Nord e lì ci sono altri valori, altri modi di vedere le cose. Se a voi fanno dei torti voi ricorrete allo Stato, alla legge. Noi qui che la legge esiste lo sappiamo solo quando ci arrestano. Allora ci dicono che «abbiamo trasgredito alla legge».
Ma io non la conosco. Io non c'ho nemmeno la quinta elementare. E per quanto riguarda lo Stato, si guardi intorno. Lei lo Stato lo vede? Qui a Librino lo Stato non c'è. Come le fogne, le luci, i telefoni.
Che cos'è lo Stato? Me lo spieghi Lei. Che quando ero bambino glielo chiesi alla mia maestra, ma lei mi buttò fuori, che diceva che disturbavo agli altri e alla sua lezione. Faceva sempre così quando non mi sapeva rispondere mi buttava fuori. Si vede che non lo sapeva nemmeno lei che cos'è lo Stato!
Lei invece si vede che ha studiato, Signor Giudice. L'altro giorno al processo l'ho sentita parlare in italiano. È brava, è brava. Ma non l'ho capita Signor Giudice, usava quelle parole tanto difficili che per paura di sembrare stupido non le ho chiesto niente. Ma io non l'ho capita.
Le assistenti sociali mi hanno detto che forse in carcere non mi ci mettete, in questo caso mi hanno detto che devo fare un processo educativo o qualcosa del genere, mi hanno detto che devo andare a scuola la sera e che devo studiare. Io Signor Giudice a scuola non ci voglio andare. Adesso c'ho quasi diciotto anni e c'ho moglie (convivente, Signor Giudice) e tra poco pure un figlio e a scuola non ci voglio andare. Ci dovevano pensare prima, quando ero ancora un bambino. Quando a scuola ci andavo tre giorni a settimana e gli altri tre giorni me ne andavo in giro per Catania. Pensavo che facendo così non facevo torto a nessuno, né alla maestra, né ai miei compagni, quelli più grandi che la scuola l'avevano abbandonata.
E invece si vede che a quella buttana (mi scusi Signor Giudice, ma certe volte si deve dire...) ci facevo torto, perché mi buttava sempre fuori e a mia madre ci diceva che non ero tanto sveglio e che faceva meglio a mandarmi a lavorare. Io invece Signor Giudice modestamente sono molto sveglio. Che quando andavo in giro con i miei compagni con il motorino la borsa ce la scippavo sempre a quelle più ricche, e tra tante cose che ho fatto mi avete preso solo adesso e soltanto perché mi son voluto far prendere, Signor Giudice!
Però droga non ne ho mai spacciata. Mi ricordo che quando ero piccolo mi affacciavo al balcone e vedevo ragazzi più giovani di me che spacciavano e quelli appena più grandi che si facevano.
Mi facevano pena tutti e due, Signor Giudice. Quelli che se la facevano sembravano lampade spente, avevano i capelli lunghi ed erano sì e no quattro ossa; gli altri, quelli che la vendevano, entravano in un giro non tanto bello, perché si mettevano in mostra e poi la mafia li usava per farci fare cose brutte e quando non gli servivano più li ammazzava.
Io invece alla mafia ci ho detto di no. Una volta uno mi ha avvicinato per dirmi se volevo mettermi sotto al suo capo e mi disse di non preoccuparmi se non sapevo ammazzare che tanto loro all'inizio mi avrebbero fatto fare una specie di tirocinio, una sorta di corso di formazione. E le pare che ci dicevo di sì, Signor Giudice? Che a me neanche quand'ero a scuola mi piaceva studiare.
Ora che sono qui e ho tanto tempo per pensare, ho pensato che era meglio che ci dicevo di sì.
Sa Signor Giudice se ora vado in carcere e quello mi vede (io gli avevo detto che non volevo ammazzare nessuno) mi ammazza lui o mi fa fare la vita di un cane.
Invece se non ci vado in carcere mi faranno fare questo processo educativo e avrò in mezzo ai cogl... (mi scusi, Signor Giudice) medici, assistenti sociali, psicologi, monici, parrini che cercheranno di rieducarmi. Ma io gliel'ho già detto Signor Giudice, a educarmi ci dovevano pensare prima, quando non avevo fatto manco uno scippo, che ora a mio figlio devono educare, per non farci fare la vita che ho fatto io.
Ma questi signori quando mia madre si portava in casa i clienti e io e i miei fratelli li guardavamo dai buchi che mio padre faceva nelle pareti quand'era ubriaco, dov'erano? Che sembrava meglio del cinema! Poi però sono cresciuto e ho capito che queste cose non si fanno. Ed è per questo che a quello l'ho ferito, Signor Giudice, che uomini come a quello sulla faccia della terra non ne devono esistere.
Sicuramente Signor Giudice si sta chiedendo perché sto dicendo queste cose proprio a lei.
Io non è che voglio influenzarla nel suo giudizio, Signor Giudice. No. Tra sei mesi quando Lei dovrà decidere, non tenga conto di quello che le sto dicendo. Io le sto scrivendo perché uno che si trova nella situazione mia, ha bisogno di parlare con qualcuno. E credo che lei mi sappia capire. Al processo Lei mi trattava con rispetto, mi dava del lei. Sa Signor Giudice? A noi delinquenti il rispetto non ce lo danno mai. Credono che rubiamo perché nel nostro sangue c'è scritto che dobbiamo rubare e ci chiamano ladri perché abbiamo avuto la sventura di nascere brutti. Invece Lei Signor Giudice mi trattava con rispetto. Mi dava del lei e per uno come me lo sa che vuol dire? Che lo Stato c'è, esiste e ti tratta come persona.
Forse a una che ha studiato come a Lei posso sembrare stupido, ma lo sa come lo immagino io lo Stato?
Come a una bella donna che dà appuntamento a tanti nello stesso giorno e poi non ce la fa ad andare da tutti. Così a fine giornata c'è chi è soddisfatto e chi invece come me ancora aspetta.
Io sto aspettando Signor Giudice.
L'altro giorno al processo quando le raccontavo i fatti, Lei mi guardava con attenzione, cercava di capire lo stato d'animo mio quando ho commesso il fatto. Se ero in grado di capire quello che stavo facendo in quel momento.
Io il dubbio non glielo lascio, Signor Giudice. Io lo sapevo quello che facevo. Sapevo che se gli ficcavo il coltello in pancia a quello lo ferivo e che se non scappavo voi mi prendevate. Ed è per questo che non sono scappato, Signor Giudice. Sono stanco di scappare. È da quando avevo sei anni che scappo. Quando ho saputo che aspettavo un figlio ho deciso che avrei chiuso con questa vita. Per mio figlio voglio una vita diversa dalla mia. Lui deve studiare, deve fare il signore. Deve giocare al pallone quando è tempo di giocare al pallone. Non come me, che me ne andavo a rubare. Io bambino non ci sono mai stato, sono diventato subito grande. Mio figlio no. Mio figlio deve giocare al pallone quando è tempo di giocare al pallone e deve fare l'uomo quando è tempo di fare l'uomo.
Ma di lavoro qui non ce n'è, Signor Giudice. Se ti vedono che sei ancora un ragazzo, ti fanno lavorare come apprendista (ma solo se c'hai già esperienza), ti fanno lavorare dalla mattina alla sera e poi a fine settimana ti danno 100.000 lire. E le pare che con 100.000 lire ci campo la famiglia per una settimana? Che neanche i panni a mio figlio ci compro.
Eppure io ci sono andato a lavorare come apprendista. Lavoravo in un panificio. Quello a fine settimana manco le 100.000 lire mi voleva dare. Era già un mese che ci andavo e quello ancora non mi aveva pagato. Allora ci sono andato a casa di sera e gli ho detto di pagarmi. Lui mi ha detto che se volevo i soldi ci dovevo mandare a mia moglie. Allora non ci ho visto più dagli occhi, Signor Giudice. Avevo un tagliacarte che porto sempre con me e glielo ho dato in pancia.
Questi sono uomini, Signor Giudice?
Ora sono qui Signor Giudice, in attesa del Suo giudizio. Stavolta lo Stato non può mancare al suo appuntamento, sia che mi mettono in carcere sia che mi fanno fare questo processo educativo.
Io ho tante domande da farci allo Stato, Signor Giudice, ma ho paura che sia come alla mia maestra e non mi risponde.

C.L.

Catania, 29-1-1995

(1) quartiere popolare alla periferia sud-ovest di Catania
(2) prostituta

 

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