Collana di Penna d'Autore

 

Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore - TERZO PREMIO ASSOLUTO

LA CASA DELL'AQUILA

Silvano Fecchio

Io non ci credevo, sebbene fossi un ragazzino non ci credevo e vi assicuro che non ci credo tutt'ora, eppure...

Eppure la gente del paese ci credeva e anche la gente dei paesi vicini. Spesso le donne, quando dovevano passare davanti alla casa dell’aquila si facevano il segno della croce e volgevano la testa dall’altra parte. Anche gli uomini, quando all’imbrunire tornavano dai campi, voltavano la testa dall’altra parte; loro non si segnavano come le donne, ma volgevano la testa altrove, io me lo ricordo bene.

Uomini e donne timorati di Dio in quel paese dell’alto Friuli, avevano un cieco terrore della casa dell’aquila; di quella casa maledetta, dove il demonio albergava nelle sembianze dell’aquila. Così i contadini dicevano, sì, io me lo ricordo bene.

Ho ancora stampata nella memoria l’immagine di quella casa: alta, grigia e isolata in mezzo a giganteschi alberi di ippocastano.

Era costruita interamente di pietra, in uno stile nordico che la differenziava dalle altre case del paese e sul davanti aveva un grande portale e sopra il portale stava l’aquila: enorme, maestosa. Dava l’impressione che stesse per spiccare il volo, con quelle sue ali appena spiegate e tese nello sforzo di sollevare il corpo massiccio. Lei vegliava da sopra il portale e dicevano che nulla sarebbe potuto sfuggire alla sua vista acuta. Vedeva ciò che avveniva là attorno e anche molto più distante e poi udiva perfino il più tenue bisbiglio, o il frusciare remoto di un’unica foglia mossa dal vento: sì, niente poteva sfuggirle.

Ma credetemi, ciò che più sgomentava erano quei suoi occhi di cristallo: rotondi, cattivi, che cambiavano continuamente di colore con il mutare della luce del giorno. Sì, io me li ricordo bene: erano gialli al mattino e rosa pallido al pomeriggio e poi al tramonto diventavano rossi come il sangue.

Nelle limpide notti di plenilunio luccicavano gelidi come diamanti e irradiavano un debole alone di luce. Però guai a guardare quegli occhi; soltanto i bimbi e i vecchi potevano osare tanto senza pericolo, ma tutti gli altri dovevano abbassare lo sguardo sottomessi se non volevano che la disgrazia si abbattesse inesorabile su di loro o sulle loro famiglie. Ecco perché i contadini voltavano la testa dall’altra parte e le donne si facevano anche il segno della croce.

Io non ho mai saputo in che pietra fosse scolpita l’aquila e sicuramente nessuno lo sapeva. Forse si trattava di un marmo nero e raro, strappato dalla vetta di un monte di chissà quale continente, o forse si trattava di comune bronzo, che s’era annerito al sole cocente delle estati e al gelo impietoso degli inverni. Poi nessuno sapeva chi l’aveva modellata o da dove questo scultore provenisse; sì, io mi ricordo bene: nessuno in paese lo sapeva.

Quell’uomo forestiero che tanti anni prima aveva fatto erigere quella casa e posto l’aquila a guardia sopra il portale, portò quel segreto nella tomba.

Dicevano che era un uomo taciturno dall’aria malinconica e che abitava quella casa soltanto per qualche mese d’estate. Se ne stava sempre da solo come un misantropo, non frequentava la gente e tantomeno la taverna del paese; così i contadini dicevano.

Una sera d’agosto lo trovarono impiccato sotto l’architrave del portale. Il suo corpo dondolava leggermente, sospinto dalla brezza che scendeva dal lago e... gli occhi crudeli dell’aquila sfavillavano di un rosso scarlatto, benché il sole fosse tramontato già da parecchio.

Dopo d’allora fu sempre così: gli occhi di quel demonio annunciavano la morte imminente di qualcuno e allora diventavano di colore rosso sangue in qualsiasi ora del giorno o della notte.

Sovente nelle notti cupe senza luna, un sortilegio arcano quanto terrificante conferiva all’aquila la vita. Sì, da immota materia diventava di carne e ossa e spiccava il volo leggera, librandosi nell’aria con quelle sue ali enormi.

Volteggiava molto in alto, sopra le case del paese, sopra il bosco di faggi, sopra il lago e guai se qualcuno si fosse trovato fuori in quelle notti di maledizione.

Così i contadini raccontavano e vi giuro che io non avevo paura, né ci credevo, eppure...

Nessuno venne più ad abitare in quella casa e il suo portone e le sue finestre rimasero sprangate per anni e anni. A poco a poco le sue mura si scrostarono, le pitture delle stanze sbiadirono sotto spessi strati di polvere e i ragni, padroni indisturbati poterono tessere le loro tele da una parete all’altra. Solo il vasto giardino circostante veniva tenuto in ordine da un vecchio contadino; costui, di tanto in tanto, potava le siepi, raccoglieva le foglie morte e falciava l’erba, ma non si soffermava mai oltre il tramonto.

Tutti, tutti indistintamente avevano paura, eppure...

Eppure c’era qualcuno che faceva eccezione e un giorno, un uomo che aveva un’officina di fabbro in un paese vicino, un individuo gigantesco e rude, che non aveva né timore di Dio, né paura del demonio, disse ai quattro venti che intendeva acquistare la casa dell’aquila.

I suoi amici lo sconsigliarono e sua moglie lo pregò in ginocchio di non comprare quella casa maledetta, ma lui non volle ascoltare nessuno, anzi prese a schernire coloro che cercavano di dissuaderlo e ad affermare spavaldamente che dato l’esiguo prezzo, acquistare quella casa rappresentava un ottimo affare.

Infatti comperò la casa dell’aquila per una modica somma, ma non ci venne ad abitare, né vi trasferì là la sua officina. Non si fidò a lasciare il suo paese, forse

perché la moglie e i figli si sarebbero decisamente rifiutati di seguirlo in quella casa malefica.

Passarono i giorni, le settimane, i mesi e quell’uomo continuò a condurre la vita normale di sempre. Spesso nei giorni di festa si recava a visionare quella sua proprietà di cui andava orgoglioso. Spesso chiacchierava con il vecchio contadino che accudiva il giardino e spesso gli commissionava qualche lavoro di manutenzione. La gente cominciò piano, piano a mormorare che il potere malefico dell’aquila nulla poteva contro quell’uomo senza paura. Invece le malalingue dissero che l’anima del fabbro era dannata, perché egli senza dubbio doveva avere stipulato un patto con il demonio; non poteva esistere altra spiegazione.

Così trascorse un lungo anno senza che nulla di anormale succedesse e sembrava davvero che la superstizione legata alla casa dell’aquila fosse destinata a sfatarsi, eppure...

Eppure, quando l’autunno sopraggiunse, quando le foglie degli alberi caddero ad una ad una e l’intera campagna divenne brulla, quando le notti divennero sempre più lunghe e nuvolose e non furono più rischiarate dalla luna, ebbene anche in quell’uomo senza paura qualcosa mutò. Fu come se la tetra oscurità di quelle notti interminabili si fosse irrimediabilmente insinuata nel suo animo, perché egli assunse sempre più un’aria taciturna e preoccupata. Cominciò a trascurare il lavoro e a trascorrere giornate oziose nelle osterie, dove si ubriacava senza ritegno. Cominciò pure a maltrattare la moglie e i figli e a bestemmiare il santo nome di nostro Signore tanto da dare scandalo. Uno dopo l’altro tutti i suoi amici lo abbandonarono e sua moglie esasperata se ne andò portandosi via i figli, così quell’uomo restò solo, sempre più solo.

Questo i contadini dicevano; sì, io me lo ricordo bene.

Al sopraggiungere dei primi freddi dell’inverno, nessuno lo vide più e invano la gente del paese lo cercò per la campagna, poi nel bosco di faggi e fra i folti cespugli lungo la riva del lago.

Allora un gruppetto di coraggiosi decisero ciò che nessuno fino a quel momento aveva osato proporre e si diressero senza indugi alla casa dell’aquila; sfondarono il portone e... sì, lui c’era. Quell’uomo gigantesco, che a detta di tutti non aveva mai avuto né timore di Dio né paura di Satana, si era impiccato a una trave del solaio e gli occhi dell’aquila... oh Cristo, i suoi occhi ebbri d’odio scintillavano come carboni accesi e scintillarono per una notte e un giorno ininterrottamente, fino a quando quell’infelice non venne sepolto in terra sconsacrata.

Così i vecchi contadini raccontavano e io ascoltavo attento, senza paura e senza credere alla malvagità senza limiti dell’aquila, eppure...

Ho ancora impressa nella memoria l’immagine di quel rapace e anche adesso lo rivedo spesso nei miei incubi, mentre vola altissimo in un cielo eccezionalmente limpido.

Dapprincipio è soltanto un puntino scuro che gira e rigira in tondo lentamente a un’altezza incredibile, poi comincia a scendere piano, piano, sempre girando in tondo. La sua velocità si fa gradualmente più elevata; aumenta sempre di più, sempre di più e qui riesco a distinguere i particolari del suo corpo possente. Ancora pochi attimi e la sua discesa si trasforma in una picchiata vertiginosa; vedo ingrandirsi i suoi artigli spaventosi e i suoi occhi terribili bramosi di preda, mentre le sue ali spiegate sono talmente enormi che mi oscurano il sole.

A questo punto mi sveglio sempre all’improvviso e mi ritrovo seduto sul letto. Il mio corpo è scosso da un tremito mentre, davanti agli occhi, seguitano a balenarmi quelle immagini terrificanti.

«È soltanto un sogno», mi ripeto; per l’ennesima volta ho rivissuto il solito brutto sogno. È strano che dopo tutti questi anni non mi ci sia ancora abituato e infatti so con certezza che dopo quest’incubo non riuscirò a riaddormentarmi. Allora rimango a occhi aperti a fissare supinamente la quieta penombra che avvolge la mia stanza. Ai più sembrerà banale, ma vi assicuro che sono proprio quelli i momenti in cui ripenso volentieri alla mia infanzia e nei quali rivedo immancabilmente la distruzione della casa dell’aquila.

La rivedo nitidamente, forse perché la sua scomparsa ha segnato un punto fermo nella mia vita, forse il segno è una cicatrice profonda e rappresenta un riferimento preciso quanto indelebile, come per la storia di un uomo è il giorno della nascita e della morte.

Sì, io mi ricordo bene: erano i giorni che precedettero la fine della guerra e il fuoco incenerì la casa un po’ alla volta inesorabilmente; se la mangiò con avida calma dalla cantina all’ultima trave del tetto, finché non rimase eretto che qualche spezzone di muro calcinato.

Il fuoco distrusse ogni cosa, il rogo purificatore smantellò pietra dopo pietra, fra scoppiettii di tizzoni e mulinelli di cenere incandescente.

Io stavo in compagnia di altri ragazzini e senza un commento, osservavamo da distante quella scena crudele e affascinante al tempo stesso. Anche i contadini guardavano ammutoliti e inerti, poiché i soldati tedeschi non avrebbero consentito a nessuno di intervenire per spegnere l’incendio. Già, tutto doveva bruciare, tutto doveva essere distrutto e cancellato per sempre, perché in quella casa le SS avevano insediato il loro quartier generale e quando arrivò la disfatta, pensarono bene di bruciare tutti i documenti che vi tenevano racchiusi.

Probabilmente fu per semplificare le cose, che decisero di bruciare assieme alle scartoffie anche l’intero edificio; tanto, a che serviva sottilizzare? Che ne sapevano costoro della casa dell’aquila? Di quell’albergo del demonio, che la gente del paese temeva come la morte e che l’ignara soldataglia tedesca aveva occupato per due interminabili anni, eppure...

Eppure l’incredibile malvagità di quel mostro non concesse eccezioni, né si smentì mai. Sì, lo ricordo bene, ma loro non potevano sapere e inoltre erano altre le cose che temevano, che non chiacchiere senza senso di contadini superstiziosi, eppure...

Eppure un anno prima, mi rammento di un soldatino tedesco molto giovane; aveva un viso roseo e imberbe e lo sguardo fiducioso di chi si è appena affacciato alla giovinezza; aveva i capelli biondo chiari, tagliati così corti che si intravedevano a malapena da sotto l’elmetto. Era un inoffensivo ragazzino vestito da soldato, che senza la divisa poteva essere scambiato per un nostro compagno di giochi e di scorribande campestri.

Un giorno quel soldatino si arrampicò sul portale della casa maledetta; si arrampicò agilmente su fino in cima dov’era l’aquila e giunto lassù si tenne saldamente aggrappato alla sua ala.

Io lo guardavo stupito, senza capire, finché egli non sfilò la baionetta e con la punta cominciò a scastonare uno degli occhi di quell’effige di Satana. Fu allora che avvertii un brivido; sì, io ricordo bene. Rabbrividii intensamente nel corpo e nell’anima osservando impietrito quella scena e vi giuro, che per la prima volta ebbi paura tanto quell’oltraggio mi sembrò inaudito.

Poco dopo il ragazzo-soldato scese dal portale con la stessa agilità con cui era salito; il suo viso appariva ancora più roseo per lo sforzo e recava stampata una sottile delusione.

L’occhio dell’aquila che prima luccicava al sole così sfacciatamente da sembrare una preziosa gemma, era nient’altro che un comune dischetto di cristallo di nessun valore. Sì, il ragazzo-soldato non poteva immaginare che aveva barattato la propria vita in cambio di quel pezzetto di vetro. Egli visse ancora due giorni: un fugace battito di ciglia nel calendario di un’esistenza; un breve spazio-tempo di nulla: soltanto due giorni, quale proroga effimera a un’inesorabile condanna cui non sarebbe sfuggito.

L’infallibile cecchino partigiano era ben nascosto nel bosco di cui conosceva ogni anfratto, ogni avvallamento, albero e cespuglio. Mimetizzato nel suo elemento, ebbe tutto il tempo di prendere la mira con calma, poi un solo colpo di moschetto appena percettibile da lontano.

Il proiettile invisibile, sibilò sinistro fra gli alberi lacerando l’aria tiepida di quel tardo pomeriggio e... il cielo mi è testimone che un’ora dopo io vidi il ragazzo-soldato steso morto su un prato al limitare del bosco.

Quale strana, crudele, incredibile coincidenza: sì, io ricordo bene che la pallottola l’aveva colpito proprio in un occhio, uccidendolo all’istante.

Vi garantisco che tutti coloro che ebbero a che fare con la casa dell’aquila, morirono entro breve tempo e i più in circostanze drammatiche. Badate, sono sicuro di quello che dico, talmente sicuro che lo sto scrivendo nero su bianco affinché la mia testimonianza rimanga nei secoli e nessuno mi possa smentire. Non sorridete, non prendetemi alla leggera, ma piuttosto aprite bene le orecchie e segnatevi con il segno immortale della croce, perché sto per rivelarvi dove si trova l’aquila ora.

Voi forse credete che sia stata distrutta? Voi probabilmente pensate che l’oscura materia che ne costituiva il corpo, marmo, metallo o pietra che fosse si sia sgretolata, polverizzata e poi sia stata dispersa dal vento?

Sì, è vero, il fuoco incenerì la casa, la sua casa; ma l’aquila oh no! Il mostro non fu nemmeno sfiorato da quella rovina. Lei dalla sommità del portale cadde giù sul prato, rimanendo intatta, o forse... forse è più giusto dire che volò giù sul prato; sta di fatto che rimase integra con gli artigli piantati profondamente nella terra soffice e credetemi, in quella nuova posizione il suo aspetto appariva ancora più terrificante di prima. Sì, io ricordo bene che guardava ognuno di noi con la sua occhiaia vuota, mentre l’altro occhio splendeva luminoso come i bagliori delle fiamme alle sue spalle; era spaventoso... spaventoso!

I soldati non sapevano nulla; sì, io ricordo che dopo alcuni giorni, quattro soldati issarono l’aquila su un camion. Sicuramente erano rimasti affascinati dalla sua arcana bellezza e intendevano portarsi appresso, nella loro ritirata quel simulacro di morte, eppure...

Eppure, quando giunsero proprio sull’ultimo tornante, su in cima alla collina, là dove la strada inizia a scendere ripida e tortuosa sul versante dove c’è il lago, ebbene uscirono di strada e precipitarono.

Ecco dov’è l’aquila ora: in fondo al lago!

Nella sua incommensurabile malvagità trascinò con sé quei quattro soldati, giù, sempre più giù, dentro quelle acque fredde e tenebrose e da allora lei vola laggiù, a profondità abissali, dove il silenzio e il buio assoluto, regnano perenni.

Orami sono trascorsi tanti anni e adesso, mentre scrivo, il lago sembra lo stesso di sempre; lo osservo dalla mia finestra e devo dire che non mi appare cambiato da come me lo ricordavo.

Quando risplende forte il sole, la superficie dell’acqua è argentea e cristallina come se galleggiassero miriadi di specchietti: una visione stupenda che da sola sazia gli occhi e l’anima, eppure...

Eppure, quando nuvole minacciose oscurano pesantemente il cielo, o peggio ancora, quando le notti sono senza luna e l’oscurità impenetrabile attanaglia il cuore, il lago assume l’aspetto di uno stagno gigantesco, piatto e nero come la pece.

Dicono che allora si possa vedere sull’acqua l’immagine nitida di un’aquila enorme e poi dicono... già dicono, che nel fondo del lago ci sia una porta, oltre la quale sprofonda una voragine che conduce diritta nell’inferno.

Copyright © 2002

Per tornare alla pagina precedente


HOME PAGE