Collana di Penna d'Autore

 

Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore - SECONDO  PREMIO ASSOLUTO

UNO SGUARDO FRA DUE FINESTRE

Vittoria Viparelli

Da quello sguardo alle due finestre vacillò l’innocente sicurezza del mio pensiero sul mondo. Capii che l’amore, l’odio, il bene e il male non erano parole troppo lontane l’una dall’altra; a volte bastava affacciarsi a due finestre e le diverse realtà erano toccanti. Con grande facilità ogni sentimento sembrava vivesse la sua espressione come un diritto naturale, senza dubbi, senza tentennamenti, semplicemente adagiato in un vivere che ognuno riteneva giusto per la propria esistenza. E questo spaccato di mondo, per una bimba di dieci anni, fu una rivelazione dura che dopo molto tempo ancora ricordo.

Ero in vacanza dai nonni in un piccolo paese, e una mattina fui svegliata da un canto dolce e suggestivo, sembrava quasi una nenia. Incuriosita andai alla finestra e vidi un uomo su di uno strano veicolo, un insieme tra carrettino e motorino; con una mano lui lo guidava e con l’altra teneva fermi sulle spalle dei fasci di paglia colorata. Avanzava pian piano continuando il suo canto che diceva (ma con graziosa melodia): «È arrivato l’impaglia sedie, tutte a nuovo io vi faccio le sedie».

Poi la mia attenzione fu colpita da un cane curvo e spelacchiato che seguiva passo passo quel carrettino, senza che nessuna catena lo legasse. Quando l’uomo scese vidi che aveva una gamba sola, e al posto dell’altra teneva il pantalone accorciato sul ginocchio e fermato da un grosso spillo da balia. Si aggiustò i vari fasci di paglia sulle spalle e aiutandosi con un bastone cominciò a camminare, sempre seguito dal cane.

Più che sorpresa da questa immagine io mi sentii affascinata, e scesi per vedere da vicino che non fosse una visione onirica. L’uomo si fermò davanti a un cortile, proprio di fronte alla mia finestra e fu subito salutato come una persona conosciuta, anzi attesa. Anche la nonna gridò: «È tornato zi ‘Ntonio, portate giù tutte le sedie rotte!».

E finalmente lo avvicinai mentre lui si sedeva in un cantuccio sistemandosi a fianco tutte quelle belle paglie colorate. Ma prima di iniziare il lavoro chiese per il cane una scodella di acqua e un po’ di cibo. Intanto già sdraiato accanto a lui il cane si riposava tenendo fissi gli occhi carichi d’amore sul volto del suo padrone. Mi feci coraggio e dissi: «Zio Antonio, perché portate con voi il cane che ormai sembra vecchio e stanco?».

«Ma signorina – mi rispose – io non abito lontano, sto appena fuori dal paese e poi, Fido, sta con me da molti anni e non vuole lasciarmi nemmeno un momento. Prima di uscire, perché io nonostante gli anni, debbo ancora lavorare per lui e per me, gli dico di restare a guardia della casa, mi capisce ma si avvia subito alla carrozzina per dimostrarmi che per lui è una gioia oltreché un dovere accompagnarmi. Noi ci vogliamo bene, signorina, e le persone che si amano desiderano stare sempre insieme».

Non seppi cosa rispondere, con lo sguardo accarezzai il cane e l’uomo e tornai in casa. Ma dalla finestra continuai per ore ad ammirare quel quadro così commovente: lui che intrecciava con molta fantasia le sue paglie colorate, e il cane dolcemente poggiato col muso su quella gamba vuota, finalmente si riposava. E questo fu il solo giorno che pensai: «Com’è buono il mondo, e com’è bello vivere!».

Poi ci fu l’onomastico della nonna, e in quell’occasione lei mi disse: «Ogni anno io offro un pranzo ad un povero, per questa volta ho scelto un vecchio cieco che mi fa molta compassione; aiutami anche tu a preparare».

In giardino c’era un tavolo di marmo con le sedie dove la nonna portò una bottiglia di vino, del pane e la frutta. Io dalla finestra della cucina che dava proprio sul giardino, aspettavo con ansia l’arrivo di quell’ospite e quando lui giunse vidi che era in compagnia di una donna; pensai fosse la moglie o qualche parente venuta apposta per aiutarlo. Avvisai la nonna e poi io stessa portai giù una grande zuppiera di pasta condita con un profumato ragù e formaggio, e in un altro piatto due belle bistecche di carne ancora fumanti.

Lasciai tutto sul tavolo e poi con la curiosità di una bimba mi affacciai alla finestra della cucina per partecipare alla loro gioia. Ma rimasi ad occhi sbarrati, quasi stravolta nel vedere che la donna cercava di portare tutto il contenuto della zuppiera dalla sua parte, e lui dopo qualche boccone di pasta, faticava a trovarne ancora infilando la forchetta dove c’era quasi sempre il vuoto. Così fece altrettanto la donna con la carne: io la vidi offrirne a lui solo un pezzo e poi in fretta cercò di consumare lei tutto il resto. Poi gli sussurrò qualcosa all’orecchio, e non mi fu difficile capire che gli dicesse: «Non c’è altro», perché lui posò mestamente la forchetta sul piatto e, senza più speranze, prese dalla tasca un vecchio e lurido fazzoletto e si asciugò la bocca.

Fu talmente grande la mia pena che chiusi la finestra e corsi a piangere nella mia camera. Non lo dissi subito alla nonna, lei così buona e fiduciosa negli altri ne avrebbe sofferto molto rimproverandosi di non aver accudito personalmente quel povero cieco. Ma nei giorni successivi, notando la mia tristezza, me ne chiese la ragione ed io le dissi tutto. Anche per lei fu un grande dolore. Ma allora io non potevo immaginare che col tempo molte altre finestre avrei dovuto chiudere dinanzi al mio cuore per non sentirlo lacerato, e che per amare la vita mi sarei dovuta aggrappare ai ricordi di quel quadro d’amore, a quella prima finestra illuminata nell’alba dal canto di un uomo.

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