Che il principe Riccardin dal ciuffo fosse brutto e deforme a
causa di un incantesimo d'una fata dispettosa e ne venisse liberato dall'amore
della bella ma ahimé sciocca principessa Rosaspina mi è sempre sembrata una
piacevole versione di come vanno le cose nella realtà quotidiana. Incontri uno
che ti sembra assolutamente normale, anzi, persino un po' bruttarello e poi,
conoscendolo meglio, scopri che dentro quell'involucro spinoso, si cela un
frutto dolce e saporito di cui non puoi fare a meno: all'improvviso, quelli che
ti sembravano tratti sgradevoli, diventano «caratteri» attraenti e ti ritrovi a
vivere una splendida favola d'amore con lui.
Mi è capitato con te. Brutto! Pensai la prima volta che ti vidi. Un accenno di
baffetti sotto il naso appuntito, su cui spioveva un ciuffo color biondo sporco,
quello che viene definito «cenere», per intenderci, perché resta spento e
malinconico anche sotto i raggi del sole. Sgraziato come un cigno sulla
terraferma, quando scendesti dall'auto con difficoltà e scarruffato, come se il
viaggio che avevi fatto per venire a conoscermi ti avesse provato: la prima
occhiata che mi lanciasti mi giunse sbieca, venata da un lampo di stizza e mi
confermò in tale dubbio. Il fatto poi che, appena feci qualche passo per
avvicinarmi, tu mi voltassi le spalle, pronto a risalire in macchina, mi fece
pensare d'averti fatto quasi paura e che fossi disposto ad affrontare il rischio
d'un altro viaggio, per quanto sgradito, pur di sfuggirmi. Brutto, sgraziato e
scostante! Povera me. Non era così che avevo immaginato il nostro primo
incontro, quando ero uscita di casa per darti il benvenuto, anche se devo
ammettere di non aver accolto con balzi di gioia l'annuncio del tuo arrivo. Un
intruso, un ospite che altri avevano invitato a casa mia: te lo confesso, ora, a
distanza di tanti anni. Ma ti vedevo così. Mi è sempre stato difficile
mascherare i pensieri che mi attraversano il cuore e la mente. E tu non mi
facilitavi certo il cerimoniale dell'accoglienza, con quell'aria scostante!
Muta, irrigidita dall'imbarazzo, mi voltai delusa, decisa a non facilitarti
l'approccio e mi allontanai verso la porta di casa che avevo lasciato
spalancata, per farti sentire atteso (volevo capissi che a me, l'educazione
l'avevano insegnata a dovere), quasi non ti sentii varcare silenziosamente
quella soglia, dietro di me.
Arrivai fino in salotto, prima di fermarmi, accompagnata dai tuoi passi felpati.
Mi sedetti sul divano e soltanto allora alzai gli occhi ad incontrare il tuo
sguardo.
Due occhi castani, rotondi, che le ciglia disegnavano come se fossero stati
bistrati, mi guardarono con sfrontatezza e, sì, lasciamelo dire, con ironia,
mentre, immobile, aspettavo di capire cosa tu stessi pensando. Se non fu una
vera e propria battaglia ingaggiata a suon di sguardi, il nostro fu comunque un
confronto significativo. A poco a poco, quello che all'inizio, là fuori, mi era
sembrato un lampo di timore, divenne uno sguardo di rispetto, stemperato di
fiducia e incominciai a rilassarmi. So di avere un'aria posata, affidabile,
forse fin troppo materna, ma anch'io so trasmettere sprazzi d'ironia, quando mi
sento sfidata a farlo. E tu lo facevi, da quell'impudente che sei, sicuro di
conquistare chi ti sta di fronte, con quello sguardo tanto sfrontato quanto
languido e, stranamente, indifeso. All'improvviso, mi resi conto che avevi degli
occhi bellissimi che mi guardavano dentro il cuore: trasmettevano una sensazione
di calore e di tenerezza, insieme all'invito ad amarti e a proteggerti da quell'altra
me stessa che ti aveva messo soggezione prima di entrare. Mi venne voglia di
accarezzare il ciuffo biondastro sulla tua fronte per sentire sotto le dita la
sensazione di quella che a prima vista mi era parsa una spazzola ispida e
irsuta. Mi alzai dal divano e, fingendo di non cogliere il movimento istintivo
che ti aveva spinto ad indietreggiare, per mantenere immutata la distanza che
c'era tra noi, mi inginocchiai davanti a te e, timidamente, senza abbandonare il
tuo sguardo allungai una mano a sfiorarti il naso. Socchiudesti gli occhi, con
un sospiro di beatitudine e mi rispondesti, con una calda leccata sotto la mano:
così, mio caro e vecchio amico Dik, sei entrato nella mia casa e nella mia vita.
Col passare dei giorni, poi dei mesi che si sono ammucchiati fino a diventare
anni (diciassette da quel giorno) ti ho visto diventare sempre più bello: sempre
biondo cenere e sempre ispido come un cinghiale, ho scoperto che questo è il
colore che preferisco e che la sensazione che dà lisciarti il ciuffo, se a te
comunica serenità, a me mette addosso un'irrefrenabile allegria.
A volte, quando usciamo insieme per strada, e negli ultimi tempi è diventata
un'impresa passeggiare insieme, perché dopo pochi passi le gambe ti si piegano e
il fiato ti esce affannoso, a spizzichi e bocconi, incontriamo qualcuno che si
ferma, ci guarda, commenta:
«Quanta pazienza ci vuole coi vecchi! Che brava signora, ad aver salvato un cane
così dal canile. Ma non sarebbe meglio farlo sopprimere?».
Mi trattengo a fatica dal rispondere male e sei ancora tu che mi consigli di far
finta di nulla, lanciandomi una delle tue famose occhiate sbieche che ho
imparato ad interpretare; ci guardiamo allora con tacita comprensione, dicendoci
l'un l'altro senza aver bisogno di tradurre il pensiero in parole: «Poveretti,
lasciali dire. Cosa ne sanno loro, dell'Amore Vero?»