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Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore - PRIMO PREMIO ASSOLUTO
COPPULA TISA Giampietro Guido
Quando dal gran polverone spuntò il muso rosso della Panda, un beagle irrequieto, abbandonata la vigile postazione ai piedi del padrone, si catapultò lungo il viale odoroso dei profumi dei campi. Di lì a poco franò, insieme ad una manciata di ghiaia, sul giovanotto che stava finendo di spalancare un cancello di ferro battuto che s’appoggiava ad un muretto a secco, carico d’anni più che di pietre.
Poi l’auto, lentamente, prese a scivolare sul viale costeggiato da alte siepi d’oleandri rosa e bianchi che, come rette prolungate all’infinito, convergevano verso il riflesso abbacinante della masseria. A circa metà del percorso, sulla destra, si stagliava, imponente, la cupola argentea di un ulivo centenario il cui tronco, martoriato dal tempo, richiamava alla mente di Giulio il gigante Atlante nell’atto di sorreggere il mondo. E, ad esaltare la regalità di quella scultura vivente, il terreno tutt’intorno, del colore della cioccolata, era macchiato solo di radi ed umili ciuffetti d’erba. Ma la vista di quell’ulivo costituiva per Giulio, ancora oggi, un mistero irrisolto. Al pari del melo del paradiso terrestre, era infatti l’unico albero al quale, da piccoli, il nonno (Uài a vui! (1), gridava) aveva proibito d’avvicinarsi. Con la differenza che, mentre a quei due disgraziati fu fatale la prima disobbedienza, per lui ed i fratelli, invece, i castighi si susseguirono alle reiterate violazioni. Fino a quando, ormai ragazzi, decisero di porre fine a quell’impari lotta con il nonno accontentandosi, per i loro giochi, dei rami meno robusti e più bassi di un gelso. E fu proprio quest’ultimo che, divenuto ben presto uno di loro, li accompagnò negli interminabili giochi delle vacanze estive segnate dal lento ritmo dei lavori nei campi e dal veloce dischiudersi alla vita delle loro giovani esistenze. Quando Giulio giunse sull’aia parcheggiò l’auto proprio sotto il ramo del vecchio gelso ancora segnato dal morso dell’altalena. Poi spinse lo sguardo più su, dove un tempo c’era il fortino, testimone di tante battaglie oltre che sicuro rifugio dagli inseguimenti punitivi degli adulti. E, più su ancora, rivide il suo aquilone, quello con la coda più lunga, danzare nel vento e gareggiare con gli uccelli. Ma il cielo non era azzurro e l’aquilone non era colorato. Ed anche tutto il resto era grigio e come addormentato, in attesa di una fata che lo risvegliasse da quel lungo sonno. La carrucola del pozzo, persa l’allegra compagnia del secchio, era diventata muta ruggine. Dalle pale dei fichidindia, più che le gemme variopinte dei frutti, spuntavano lunghi aculei che trafiggevano la terra. E neri corvi, col loro petulante crocidìo, erano i nuovi inquilini della colombaia. Era come se il dolore del nonno avesse steso un grande velo sopra ogni cosa. E questo velo, dopo tanto tempo, avesse finito per spegnere i colori, zittire la musica, soffocare i profumi. «Ciao, nonno» disse Giulio che nel frattempo era giunto sotto la facciata bianca di calce, ad un passo dalla grande poltrona a dondolo che, come un metronomo, batteva il tempo. Il nonno, o don Raffaele, come lo chiamavano rispettosamente i confinanti, senza alterare il ritmo di quel penzolamento, ricambiò il saluto con un sorriso appena appena accennato e con misurati gesti della mano destra stretta attorno al fornello della pipa. E le volute di trinciato forte che da quella si levavano parevano sbuffi d’odoroso incenso gettati sul nipote, quasi a benedirlo per essere venuto a scacciare la solitudine del luogo. A conferma di una congenita scarsa loquacità, nessuna parola tradì l’intima gioia del vecchio alla vista del giovane. Quanto all’inopportuno umidore degli occhi fu subito celato con l’abbassare il capo sul sacchetto del tabacco. «Nonno, tu sai cosa significa coppula tisa (2), vero?». A lui, proprio a lui, quel mocciosetto rivolgeva una simile domanda! Maledizione! Non ricordarlo sarebbe stato come rinnegare la sua stessa gioventù. Coppula tisa era stato il simbolo di un movimento che, senza accrescere con altri lutti il dolore della gente, aveva suscitato ai suoi tempi considerazione e rispetto. Quelli che l’indossavano erano i contadini più spavaldi, i più temerari ed arditi. Quelli sempre pronti ad affrontare tutte le avversità ed i pericoli. Quelli cui non faceva paura nemmeno lanciare una sfida al potere costituito. E lui, don Raffaele, era stato uno di loro. Si rivide, con il gilè di fustagno, la coppula tisa ed il fazzoletto rosso al collo, a combattere per le terre ai contadini, a reclamare equi compensi per la mezzadria, a soffrire insieme ai giornalieri di campagna, a boicottare il traffico vergognoso dei caporali. Ma anche a fronteggiare tanti dei vecchi compagni che avevano barattato la coppola per un fez nero ed un manganello. Ripensò a quando, con i lustri gambali di cuoio nero ed il nerbo lucido di bue nella destra, montava il suo cavallo alto e fiero e, come un re, se ne andava in giro per le sue terre. E quando, con la coppola girata un po’ sulle ventitré, passava nel paese facendo abbassare gli occhi e battere i cuori alle ragazze. E non era certo guapperia quella. Ma solo una forma di cavalleria campagnola, sicuramente più rispettosa di quella leziosa dei signori. Si trattava, se vogliamo, d’una forzatura per vincere l’atavica timidezza propria dei cafoni. L’espediente per offrire protezione e amore in cambio di un passo meno affrettato o di uno sguardo men che fuggevole. Pur tuttavia don Raffaele di tutto quel suo sconvolgimento interiore non fece trapelare nulla. In fin dei conti, pensò, che colpa ne aveva il ragazzo se della vita del nonno gli era giunta solo l’eco paesana di un’alta, anche se troppo vaga considerazione? Con calma chiese però al nipote ragione di quella domanda. «Perché da qualche giorno hanno costituito un’associazione che, rifacendosi al nome ed allo spirito battagliero di chi portava la coppula tisa, si prefigge lo scopo di abbattere tutto ciò che è abusivo e che crea degrado all’ambiente». «Balle! Ed ora dimmi che cosa c’è veramente sotto!» sbottò don Raffaele che, da contadino con i piedi ben posati per terra, non aveva punto fiducia nelle battaglie sociali d’oggigiorno così subdole rispetto a quelle, sacrosante, dei suoi tempi. «Niente, nonno. Soprattutto, niente di losco – puntualizzò Giulio, avvezzo a quelle sfuriate dietro alle quali sapeva che c’era un cuore grosso così. – Vogliono solo raccogliere fondi con i quali comprare fabbricati costruiti abusivamente e, successivamente, farli abbattere». «Uhm… Nisciunu faci nienti pì nienti… (3)». «E, scusa, ti pare niente provare a far ritornare questa terra così com’era ai tuoi tempi? Ti pare niente combattere la rassegnazione che, come un tarlo malefico, ha scavato… ha scavato nelle nostre menti e finanche nei nostri cuori?» incalzò Giulio nella convinzione che quella era la strada giusta da percorrere. E non si sbagliava. Perché don Raffaele tornò a chiudersi nel suo silenzio soppesando quelle parole con lo stesso distaccato puntiglio con cui l’impiegato del monte dei pegni pesa col bilancino i ricordi della povera gente. «Vuoi dire – chiese dopo un tempo infinitamente lungo – che se io m’iscrivessi a questa… a questa associazione potrei far comprare quello schifo di villa all’americana che hanno costruito vicino al mio terreno e… bum! farla saltare in aria? È così o no?». «È così! Sempre che questa villa rappresenti un insulto all’ambiente che la circonda...». «Un insulto a Dio! – urlò don Raffaele che, anche senza la coppula tisa, aveva ancora sangue caldo nelle vene. – Ecco cos’è! Perché i Messapi o i Greci o i Romani o chi diavolo, per primo, ha costruito le case su questa terra, ha fatto i tetti piatti, a terrazza, e non spioventi con tanto di tegole e mansarde come quelli delle baite di montagna! Perché l’acqua rubata alle falde di una terra da sempre assetata non dev’essere sprecata per alimentare stupide fontane o per riempire inutili piscine! Perché non si sputa in faccia a questa terra piantandole nel caldo ventre le fredde radici di abeti o di tigli o ippocastani o magnolie. Piante belle quanto vuoi ma nate e cresciute lontano da qui, maledizione!». «Piante che appartengono alla cosiddetta cultura del verde inutile – precisò Giulio. – Quella, cioè, del verde inutile alla produzione, ma piacevole alla vista. Una cultura, come quella dell’acqua inutile, assimilata dai popoli nordici». «Proprio così! – esclamò don Raffaele orgoglioso d’aver trovato nel nipote il colto megafono della sua rozza esperienza contadina. – E tutto questo non è sufficiente a farla saltare in aria, quella villa della malora…?». «Sicuro, nonno. E, se occorre, anche senza l’aiuto dell’associazione… Ma non t’arrabbiare ché poi stai male». Fu felice don Raffaele per quel nipote che, giorno dopo giorno, gli rassomigliava sempre di più. Perché aveva nel sangue la sua stessa passione per la terra, negli occhi lo stesso guizzo incendiario e sul capo la stessa coppula tisa… Tuttavia ritenne opportuno gettare un po’ d’acqua sul fuoco ch’egli stesso aveva appiccato. «Bene! Ma siccome tu stai per partire per Firenze, vorrà dire che questa cosa la seguirò io personalmente. Sissignore! Tu pensa solo a prendere questa benedetta laurea perché ti devo passare al più presto le consegne…». Giulio ripensò a quel velo di tristezza che copriva la masseria, alla grande vigna che a mala pena si distingueva oramai dalla sodaglia ch’era tutt’intorno e «Nonno – disse, imponendosi di farlo tornare alla vita – non ci saranno consegne tra di noi perché, tu ed io, faremo una società. Da una parte ci sarà la mia laurea in Agraria ed il mio lavoro. Dall’altra la tua terra, la tua esperienza ed il capitale iniziale. Il mio sarà costituito da una quota dei futuri guadagni…». Da quel momento fu come un fiume in piena. Fermarlo? E come? Era impossibile e ben lo sapeva don Raffaele che, difatti, lo lasciò sfogare. E come se stesse leggendo un trattato di ampelografia cominciò a disquisire dottamente sulla rotazione delle colture, lo spostamento dei vitigni a mezzogiorno, al riparo dei frangivento, e poi, sugli innesti nuovi, la sistemazione delle cantine, la progettazione di una linea d’imbottigliamento… Una musica per gli orecchi di don Raffaele. Anche se, a volte, la terminologia era troppo tecnica per uno come lui che, per vinificare, ricorreva ancora al palmento, alla luna piena ed al venticello di tramontana. Nell’entusiasmo del nipote rivide comunque il suo. Di quando, giovane padroncino, aveva iniziato a riscattare quei campi ammorbidendone le zolle col sudore della fronte. Entusiasmo che c’era anche quando quelle zolle furono bagnate dalle lacrime per non aver saputo trasmettere all’unico figlio la centesima parte del suo amore per la terra. Entusiasmo che riuscì perfino a condividere con la sofferenza di vedere allontanarsi, insieme al suo, i figli di tanti altri contadini che barattavano la certezza di un sudato raccolto con la chimera di una facile industrializzazione. Solo la perdita della moglie l’aveva spento. Così che era diventato, poco a poco, come una botte di rovere che fa la muffa se lasciata per molto tempo senza vino. Ma ora la vecchia botte, grazie a questo ragazzo, tornava a riempirsi della linfa vermiglia della vita. «Uhm… Ne riparleremo quando sarai diventato dottore… Ogni cosa a suo tempo. Per te ora è tempo di studiare, ma anche di vivere. Poi verrà quello del lavoro». E così dicendo sembrava che avesse voluto porre fine a quella conversazione che rischiava di coinvolgerlo emotivamente. Cosa che don Raffaele non poteva permettersi. E invece ebbe un ripensamento. «A proposito di vivere: ma tu ce l’hai la vagnòna? (4)». «In che senso…?». «Nel senso di quella buona… No, anzi, non lo voglio sapere! D’altro canto se non me l’hai detto finora vuol dire che ancora sfarfalli… Perché altrimenti me l’avresti detto… o no? Comunque, se vuoi sapere il mio parere, è tempo che tu te la faccia… quella buona, intendo. Io, alla tua età, avevo già conosciuto tua nonna. Ma ai miei tempi, a 19 o 20 anni, eravamo già sposati e il matrimonio era la festa della vita. Oggi invece, se non si è sistemati bene, anzi benissimo, con tanti soldi… «Giulio, tu che studi, dovresti però sapere che i frutti buoni, belli e sani li danno le piante giovani. È tempo perciò di scendere dal tuo gelso, l’albero dei giochi, e di passare all’ulivo, l’albero della vita…». Giulio era, a dir poco, sconcertato. Il nonno non gli aveva mai parlato in quel modo. E poi c’era quella luce insolita nei suoi occhi. «Ti ricordi che, da ragazzi, vi avevo proibito di andare a giocare sotto il grande ulivo che si trova laggiù in fondo al viale?». «Già… uài a vui, dicevi». «E sai perché…?». E don Raffaele s’alzò e piantò due occhi scintillanti in quelli sempre più incuriositi di Giulio. Poi tornò a sedersi e la luce degli occhi divenne acquosa come quella di una torcia che esplora un fondale marino. «… Perché la terra che c’è sotto quell’ulivo… sotto tutti gli ulivi, è terra benedetta, non contaminata dalle offese del mondo. Quando ti trovi lì sotto il tuo respiro diventa il suo, lento, profondo. E il profumo delle radici che tornano a scaldarsi ai raggi del sole è un profumo antico, che viene da lontano e che ti porta lontano. A trovare quella pace che inutilmente cerchi altrove…». Don Raffaele rimase per un attimo assorto. «E sotto la sua verde chioma che ti protegge come la grande volta affrescata di una chiesa – continuò – puoi suggellare anche un patto d’amore. Allo stesso modo di quando sei davanti all’altare… Ed è proprio quello che io ho fatto con tua nonna. Capisci ora perché quel luogo d’amore io l’ho sempre difeso da tutto e da tutti?». «Perché mi dici questo…?». «Prima di tutto perché non vorrei che, con tutto quello che hai in mente di fare qui, quella pianta diventasse un curmòne…(5). E poi perché mi fa piacere pensare che un giorno anche tu possa portare la tua vagnona laggiù… sotto quell’ulivo». Disse questo tutto d’un fiato e s’azzittì. E quando una lacrima riuscì a farsi strada tra le rughe del volto questa volta la lasciò libera di scorrere perché, pensò, non trasportava dolore ma speranza. «Vado» disse Giulio, anche lui toccato da quella rivelazione. Ma prima si sgranchì le gambe per essere rimasto così a lungo tempo seduto sul seggiolino impagliato, lo stesso di quando era piccolo di cinque o sei anni. «Vedi che giovedì andrò alla fiera; perciò qui non ci sarà nessuno… se vuoi venire a fare compagnia a Chivalà…». E quelle ultime parole don Raffaele dovette quasi gridarle dal momento che Giulio era già vicino alla Panda. Il sole oramai basso all’orizzonte gettava sulle pietre e le piante i suoi tiepidi raggi settembrini e, in quella luce diffusa, l’effigie della Vergine Santissima di Costantinopoli posta sulla facciata della cappella all’inizio del viale era una macchia d’oro tra il verde degli alberi. L’auto ripercorse il viale e, quando fu all’altezza dell’ulivo, rallentò. Giulio guardò quel mare di foglioline che il sole faceva brillare come diamanti e in quel momento sentì di non provare più alcuna soggezione. Per un momento il suo pensiero volò ad Adriana. Sì, le avrebbe fatto conoscere l’ulivo della vita. Magari, giovedì. L’operazione di chiusura del cancello, come sempre disturbata dalle moine di Chivalà, fu completata allorquando le lettere G e R, incastonate nel fraseggio barocco delle due ante, furono di nuovo allineate così da ridisegnare il monogramma padronale. Qualche istante dopo l’auto fu un punto rosso in una nuvola di terra mentre la campagna, come una bella donna, si preparava ad una notte allietata dalle ultime serenate delle cicale.
1 (espressione dialettale, come le susseguenti, della zona del Salento) Guai a voi!
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