Gli occhi riversi, un ultimo spasmo. Il ventre convulso e
bollente urla un leggero dolore: il piacere può far impazzire. Le braccia tese
imperlate di sudore sono allacciate alla spalliera del letto.
I violenti fianchi si dimenano a ritmo prima lento, poi sempre più vorticoso.
Delineano questa notte che non dovrebbe terminare mai.
La tua lingua percorre ancora una volta l’incavo magico di un collo allungato
oltre il letto disfatto, come è disfatta la mia anima.
È diverso. Lo sento.
È troppo inebriante l’odore dell’incenso al limone; mi accompagnerà dall’attimo
in cui ti accosterai la porta alle spalle.
Liquefa il pensiero mentre cavalco sulle onde del piacere ancora più
rabbiosamente.
Il tempo lievita su immensi flutti e non trova spazi circostanti oltre a queste
quattro mura d’infernale paradiso. Ti bacio del bacio più profondo, più umido,
più risucchiato. Voglio rubarti l’anima, attratta dal sordo sentimento di
possesso.
Mi muovo come smaniante fiera per spolpare ogni tua cognizione.
Mordo il tuo petto, ma non stacco brandelli di carne, ingoio solo pezzi di
cuore. Quelli che ancora pulsano per un patrio sentimento.
Voglio essere io, il tuo più folle battito e implodere in te, trascurando un
futuro di sterminanti mine.
Invasa da sussulti in ogni cellula del mio corpo, scruto se tu non voglia
tornare indietro nelle tue decisioni.
«Rimani con me» ti sussurro.
Voglio fermarti dentro di me, inghiottire ogni tua essenza vitale, lasciarti
privo di sensi, tra queste lenzuola madide di delirio. Futuro abbandono (?)
Non ti concederò il minimo respiro, se non filtrato dalle mie stesse labbra.
Non basterà.
Ho il terrore di quello che accadrà tra poche ore. Non so come asserragliarti
nelle chele di una mai spenta passione.
Non basterà.
L’orologio rigurgita l’ora del distacco: sbotta e massacra il vortice d’estasi
che è ancora incollato alle nostre carni.
Sradicherà frammento dopo frammento ogni gemito.
E il gorgo trafigge il soffitto sino alle scarne nuvole, le stesse nubi che tra
qualche giorno forerai con saettanti lamiere d’acciaio.
C’è una divisa abbandonata sulla sedia. È in ordine, è verde. Spiccano dorate le
mostrine: le strapperei a una a una, per umiliarti e rendere meno pesante quest’assurda
separazione.
Vomiterei su questa maledetta uniforme, macchiandola d’ogni infamia. Riverserei
tutto il mio odio e te lo consegnerei. Non so se il tuo amore saprà indicarti il
ritorno.
Stai allacciando la camicia. Da dietro affondo le mie mani nella tua nuca d’irti
capelli; arpiono con le gambe il tuo bacino già ruvido di pantaloni pungenti.
Mi graffio la caviglia con la fibbia della cintura ma perdo sangue dentro.
Provo già l’acuto dolore di un abbandono non ancora successo. M’inginocchio ai
tuoi piedi mentre ti allacci una scarpa.
Ti abbraccio le caviglie, tentando di fuggire l’idea che questo potrebbe essere
l’ultimo mio atto d’amore.
Mi passi la mano lungo la schiena. Fisso il brivido che mi penetra al tocco.
Crollo, come bambola sgonfia, senza forze, senza cognizione, senza fibra.
Stille s’incrostano silenziose tra le gote bollenti e il pavimento ghiacciato:
evapora un timido smarrimento.
Vai, vai maledetto.
E ancor più maledetto è George W. Bush e bastardo quell’uomo scuro, dai baffi
satanici, dai mille cloni e dalle altrettante follie. Lui indegno odia le nostre
stelle e strisce ma anche uno spicchio del suo stesso popolo.
E tu, col cuore impresso dalla bandiera svetterai nei cieli su un minaccioso
aereo e lancerai su un’atterrita Bagdad un’inutile esplosione di morte.
La stessa che sto provando ora, mentre chiudi la porta piano, piano, dietro di
te... mi perdi lungo la striscia seghettata delle scale.