Davide Daniele
La prima cosa che notò fu il cappottino marrone. Abbottonato
fino al collo, come tutti i bambini di sei anni. Per un attimo gli sembrò quasi
di stare guardando una sua vecchia foto che lo ritraeva, con quel benedetto
cappottino marrone, e sua madre che lo teneva per mano. Doveva averne una del
genere da qualche parte nel portafoglio o persa in chissà quale cassetto.
Si vedeva che il cappottino non doveva essere nuovissimo. Era un modello
abbastanza vecchio e superato; doveva avere un fratello maggiore, pensò, perché
aveva tutta l’aria di essere uno di quegli indumenti che si tramandano di
fratello in fratello, oppure presi ad un mercatino dell’usato.
Per esperienza personale sapeva che se si avevano cugini o fratelli più grandi,
a sei anni si porta un cappottino così e lo si abbottona fino al collo.
Non lo aveva mai visto con quel cappotto. Di solito portava sempre la maglia di
Totti sopra qualsiasi cosa e da lontano mostrava il pallone, segno
inequivocabile che lo stavano aspettando per la solita partitella di calcio. I
colleghi lo avevano soprannominato "Trap". Lo conosceva e se lo ricordava bene
perché quel ragazzino era stato l’unico a capire la regola del fuorigioco e la
teoria del catenaccio all’italiana. Non a caso forse indossava la maglia di
Totti.
Quel giorno però il pallone lo teneva basso, non lo mostrava come un trofeo o
come un richiamo.
I colleghi di guardia all’ingresso del campo se ne accorsero subito. Quel
cappotto non piaceva proprio a nessuno e poi non faceva così freddo.
Cominciò a camminare verso di lui, senza pensare a niente, quasi rapito da
quell’immagine di bimbo con la faccia tirata, un cappottino marrone e un pallone
Tango di quelli che aveva portato dall’Italia.
«Lascialo stare Sarchielli!» (i Carabinieri si chiamano per cognome anche in
questi momenti).
«Allontanati, Cristo! Ma non lo vedi!!!»
«Fra due settimane ce ne andiamo Sarchielli non fare cazzate!!! Non lo toccare!
Non vuoi riportare il tuo culo a casa?!»
«Levati che gli sparo, non vuole giocare stavolta!!!»
Sarchielli sembrò non sentire nulla, i suoi colleghi urlavano fino a strozzarsi
in gola, ma lui niente. Ormai gli era di fronte. Il bimbo era immobile,
impietrito, tremava e piangeva. Rivide nei suoi occhi quella splendida
rovesciata di due giorni prima. Lo aveva portato in trionfo come se avessero
vinto la Coppa dei Campioni.
Gli sbottonò il cappotto con una delicatezza estrema, quasi senza toccare la
stoffa. Sapeva cosa avrebbe trovato, e fu solo sorpreso di vedere un gilè di
esplosivo sopra la maglia di Totti. Pensò con tristezza e con rabbia a quelle
mani sapienti e perdute che avevano confezionato un vestito di morte.
Gli tolse il cappotto e gli tolse il gilè di esplosivo (anche lui aveva mani
sapienti).
I suoi colleghi gli gridarono di togliersi di mezzo che avrebbero sparato al
ragazzino.
Lui si abbassò a terra (ed era una cosa che aveva imparato a fare durante questa
missione, guardare il mondo ad altezza di bambino, uno sforzo notevole, se ci si
pensa bene, per uno alto un metro e novanta) e disse al suo Totti di
tornare a casa e lo salutò come si saluta un bambino di sei anni,
accarezzandogli la testa.
Non c’era nessuno davanti a loro, solo deserto e polvere e una carcassa di una
macchina esplosa e bruciata mesi prima.
Si girò verso i suoi compagni mentre il piccolo Totti correva più forte di una
mezzala sinistra sulla fascia del campo lasciata libera da una difesa distratta
e gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: «I BAMBINI NON DEVONO MORIRE!»
Era bellissimo in quel momento Amedeo Sarchielli, con la sua divisa da
Carabiniere appena lavata, mentre, in una strada polverosa, gridava al cielo, a
qualche Dio e agli uomini tutti: «I BAMBINI NON DEVONO MORIRE MAI!».
Era proprio bello il Sarchielli. La leggera pancetta all’italiana e il nuovo
buco alla cintura fatto col coltello del kit in dotazione ai militari in
missione all’estero non si vedevano nemmeno. Lui era bello davvero, anche se non
era biondo. Era bello come tutti gli eroi della storia e delle tragedie, bello
come tutti quelli che tornano a casa coperti da una bandiera tricolore, come
tutti quelli che gridano verità inascoltate, bello come un Cristo sulla croce o
un eretico sul rogo.
Non si accorse neppure di quell’uomo sulla moto con volto coperto e un cellulare
in mano. Lui continuava a gridare. Le cose vere vanno ripetute tre volte, lo
aveva imparato da un famoso magistrato.
«I BAMBINI NON DEVONO MOR...».
* * *
«Qual è la cosa che non devi assolutamente dire ad un
Carabiniere che ti chiede se la sai l’ultima?»
«Dai... Spara!»
Questa la raccontava sempre a tutti, insieme a quella del Carabiniere che entra
dal tabaccaio per comprare le sigarette. Sul pacchetto trova scritto, bello in
grande e listato a lutto "Il fumo rende impotenti". Il Carabiniere lo guarda un
po’ perplesso e spaventato poi restituisce il pacchetto al tabaccaio dicendogli:
«Mi dia quelle che fanno venire il cancro».
«Ma perché diavolo devi raccontare le barzellette su di noi, Sarchielli! – gli
chiedevano i colleghi –. E poi non sei un Carabiniere anche tu?!».
Lui diceva che avrebbero dovuto prendere esempio da Totti che con le barzellette
su di lui ci aveva fatto i milioni.
«E allora scrivile, invece di raccontarle!» gli rispose un collega.
«Buona questa! – ribatté Sarchielli – sei sulla buona strada...».
Le barzellette per lui erano una cosa seria. La sua vita, diceva sempre, era
cominciata come in una barzelletta. Sua madre, sola in casa e in preda alle
doglie, chiamò per sbaglio, digitando confusamente e senza volerlo, il 112 dei
Carabinieri invece del 118 del pronto intervento chiedendo immediato soccorso
senza però specificarne la reale natura.
Quando i Carabinieri si presentarono all’indirizzo della donna, non poterono
fare altro che aiutarla a partorire, e mentre uno dei due chiamava l’ambulanza
un giovane Carabiniere di nome Amedeo lo portò alla luce. La prima cosa che vide
Sarchielli non fu sua madre o una sala di ospedale o il camice verde di
un’ostetrica. La prima cosa che vide fu una bella divisa da Carabiniere.
Avvenne come per i pulcini, gli uccellini e tutte quelle specie di animali che
riconoscono come madre la prima cosa che vedono allo schiudersi delle uova. Fu
come un imprinting e divenne Carabiniere quasi per istinto natu-rale.
C’era un suo superiore fissato con i proverbi, e lui tutte le volte ribatteva
con una barzelletta, e per giunta sui Carabinieri. E questo lo faceva mandare in
bestia. «Non ci tieni proprio alla carriera, vero Sarchielli?» gli dicevano
tutti.
«Comandante, la sa quella del Carabiniere nello spazio?»
«Non la so Sarchielli, ma sentiamo, ricorda però che ho poco tempo e che gli
antichi dicevano che il riso abbonda sulla faccia degli stolti».
«Allora ad una missione nello spazio partecipano un cane, un gatto ed un
Carabiniere. Dalla base chiamano via radio: "Base chiama Apollo 3, rispondete!".
Il cane, dopo aver messo le cuffie, risponde: "Bau... Bau...". "Ok Apollo 3, ha
posizionato il braccio meccanico per l’espulsione del satellite?" "Bau... Bau...".
"Ok Apollo 3, hai posizionato la rotta sul computer?" "Bau... Bau...". "Ok
Apollo 3, ora passami il gatto". Il gatto, prendendo le cuffie dal cane,
risponde: "Miao... Miao...". "Ok, hai fatto i rilevamenti per le analisi al
rientro?" "Miao... Miao...". "Ok, ora passami il Carabiniere". "Dite pure base!"
"Hai dato da mangiare al cane e al gatto?" "Certo!" "Ok, ora non toccare più
niente, mi raccomando!"»
«Non fa poi così ridere, Sarchielli».
Lui diceva che nei proverbi c’era qualcosa di triste e decadente. I proverbi
sono quelli da sempre, o per lo meno da molti decenni e questo voleva dire che
l’uomo non cambiava mai, rimaneva sempre lo stesso, tale e quale. Il proverbio
dice all’uomo che gli è preclusa ogni possibilità di cambiamento.
Mentre le barzellette cambiano di generazione in generazione, e quelle che
facevano ridere venti anni fa magari oggi non fanno più ridere e ne fanno ridere
invece altre che anni addietro non si immaginavano nemmeno. Sarchielli sosteneva
che le barzellette erano la testimonianza dell’evoluzione e del progresso
dell’uomo (nel bene e nel male), e andava dichiarando convinto che l’umorismo
era l’unica cosa che ci distingueva dagli altri animali; ma quando lo diceva ai
suoi colleghi o al suo comandante, tutti si mettevano a ridere più di quando ne
raccontava davvero una.
Un giorno un signore andò a pranzare in una trattoria lasciando la macchina
parcheggiata in doppia fila. Lasciò un pezzo di carta con la frase: «Sono alla
trattoria» ed una freccia verso la trattoria per farsi trovare nel caso di
necessità. Dopo circa un’ora uscì e non vide più la macchina. Al suo posto trovò
lo stesso pezzo di carta con la frase: «Siamo alla centrale» per terra.
Lui le raccontava così, facendole sembrare storie vere.
«Sarchielli finiscila con queste stronzate! Le cose vere sono altre, sono la
roba per cui lavoriamo, quelle per cui lo Stato da centonovant’anni ti paga uno
stipendio! Ma che razza di figura ci facciamo se ci mettiamo a raccontare le
barzellette anche noi! L’Arma dei Carabinieri merita di essere servita con più
onore e più valore!».
Ma Sarchielli non replicava, sapeva che chi pensa male, parla male.
Lui i valori, o le cose vere della vita, come gli piaceva
chiamarli, li conosceva bene e non a caso faceva il Carabiniere.
Era strano, pensava Sarchielli, ma tutte le volte che si parlava di valori,
di onore e di tutte quelle belle parole con le quali spesso si riempiono
la bocca tanti politici corrotti o generali falliti o giornalisti che non hanno
niente da dire, se ne parlava sempre come qualcosa che si era perso e che andava
recuperato. Lui sapeva di non averli persi e proprio per questo aveva scelto di
fare il Carabiniere, per farli conoscere, per difenderli, per tramandarli, per
farli rispettare.
Era partito per la missione umanitaria all’estero perché gli sembrava una
cosa vera, una cosa per la quale valeva la pena almeno provarci. Era partito
anche perché gli avevano ammazzato il suo fraterno compagno e si sentiva un
Carabiniere "spiato", come un’inutile, sola e ormai unica, scarpa sinistra
lasciata nel fondo del ripostiglio. Forse era partito per ritrovarsi o per farsi
trovare. Lui non aveva mutui da pagare, mogli e figli da sfamare, vizi da
soddisfare e conduceva una vita per la quale lo stipendio da Carabiniere era più
che sufficiente.
Il giorno prima di partire non chiuse occhio, proprio come fanno gli studenti la
vigilia di una gita scolastica tanto attesa. Sapeva però che non sarebbe stata
una passeggiata e che avrebbe dovuto lavorare duro. Se ne accorse fin dal primo
giorno. «Quanto ci vorrà per montare un po’ di tende?» Dopo due settimane aveva
ancora i calli sanguinolenti sulle mani e la sua faccia cominciava ad
assomigliare a quella di tanti profughi, vagabondi e disperati che popolavano le
zone. Non perdeva mai però il contegno e l’eleganza di un Carabiniere in divisa,
nemmeno quando giocava a pallone con i ragazzini. Diamine se ci sapeva fare
Sarchielli con i ragazzini. I suoi superiori lo lasciavano andare, perché lui da
solo ne teneva a bada almeno ventidue per volta, ed era meglio che averli in
giro per le strade a rubare, a malmenarsi o a tirar sassi alle auto e alle
camionette. Non conosceva la loro lingua, solo qualche frase, ma la lingua del
calcio, si sa, è internazionale. Bastava sollevare un pallone al cielo e un
nuvolo polveroso di ragazzini gli si faceva attorno. I ragazzini, infatti, lo
chiamavano mister e lui aveva la pretesa di definirsi il loro allenatore.
Giocava con loro fino allo sfinimento, e a qualcuno aveva persino insegnato
qualche barzelletta. Venivano a chiamarlo, gli mostravano il pallone e bastava
un cenno d’intesa col suo Grande Capitano (come lo chiamava lui, il solo a
ridere alle sue barzellette) e correva da loro ad improvvisare partite e
campionati, proprio come si faceva a scuola, con due sassi o due zaini a fare da
porta per finire a discutere, poi, tutte le volte, se fosse stata traversa
oppure gol.
Ce n’era che indossava spesso la maglia di Totti, presa sicuramente da qualche
raccolta di abiti usati della Caritas, e sarà stato per la maglia o per
chi sa cos’altro ma quel ragazzino giocava proprio bene. Gli aveva insegnato
persino a chiamare il fuorigioco e a tenere alta la difesa. Un giorno come altri
venne a chiamarlo e si fermò poco davanti all’entrata del campo base.
* * *
Nella sua città ora c’è una scuola elementare che porta il
suo nome: Amedeo Sarchielli.
C’è anche un grande campo di calcio annesso all’edificio e i suoi colleghi
riuscirono a portarci Francesco Totti in persona per inaugurarlo. Alla gente del
posto non sembrava vero. «Il grande calciatore scomodato per un Sarchielli?»
Furono parole attribuite (ma poi smentite) al comandante dei proverbi.
Totti indossava la maglietta dell’Italia e sulle spalle, sopra il numero 10,
c’era la scritta: SARCHIELLI. Quando si voltò verso il folto pubblico di
ragazzini, maestre, genitori e militari fu come sentire la banda dei Carabinieri
mentre suona l’inno nazionale sulle frecce tricolori.
C’erano anche molti suoi colleghi di caserma e molti compagni di missione il
giorno dell’inaugurazione della scuola e del campo. Durante la cerimonia uno di
loro disse ad un altro:
«Ma tu te lo immagini Totti-Carabiniere?»