Gran Premio Letterario Europeo Penna d'Autore - PRIMO PREMIO ASSOLUTO
IN UN SOFFIO DI FIATO
Federica Leva
«Il bambino può essere ammesso alle scuole pubbliche, ormai.
Altro non possiamo fare per lui, nel nostro istituto».
Mio padre fissò la direttrice dapprima con stupore; poi, in un impeto di
collera, sferrò un pugno contro la scrivania, e ruggì: «E lei lo giudica
preparato a sufficienza per affrontare le scuole medie? Ma ancora non sa
scrivere, e legge a stento...! E non riesce a comunicare con noi, e neppure con
le maestre!»
«Sono costernata, signor Guerri, ma suo figlio rifiuta d’assecondare i nostri
metodi educativi – insistette lei, con fermezza –. Riesce ad impugnare la penna,
ma, anziché scrivere parole, si diletta ad abbozzare ridicole caricature delle
sue insegnanti. Mi creda, trattenerlo in istituto sarebbe tanto vano quanto
dispendioso. L’affidi ad una scuola pubblica, e lo costringa a parlare: son
certa che, se sarà meno blandito e viziato, Filippo si sforzerà d’emettere
qualche suono o di scrivere anche semplici parole, come gli altri bambini».
Incatenato alla mia carrozzina, m’agitai convulsamente sui cuscini, lanciando un
gemito stonato. Come poteva, quella donna, gettare fango sulla mia volontà,
tramutando le mie sofferenze in vili capricci infantili? Trafitto
dall’umiliazione, avrei voluto piangere ed urlare, perché avrei venduto la mia
anima per poter pronunciare una parola soltanto, e cantare, gioire, e persino
inveire, ed invece il mio corpo si ribellava alla voce, e s’ostinava in uno
spasmodico e tragico mutismo. Mio padre s’alzò, livido in volto.
«Lei non capisce nulla di disturbi neurologici, signora – fremette –. Come può
credere che un ragazzo esuberante come Filippo possa preferire il silenzio al
vigore della parola? Se questa è la sua opinione, non abbiamo altro da
discutere». Infuriato, afferrò rudemente la carrozzina e mi trascinò lungo i
corridoi fino a discendere nel cortile, dove m’issò sull’auto assieme al mio
bagaglio. Non l’avevo mai visto tanto sdegnato, ma, mentre mi legava sul sedile
posteriore, m’accarezzò i capelli con affetto, e disse, un appassionato
giuramento: «Se la nascita d’un figlio è un miracolo, perché non dovrebbe
esserlo anche il dono della parola? Parlerai... Abbi fiducia in me!»
Quella sera, mentre ero raggomitolato nel mio lettino, lo sentii discutere
vivacemente con mia madre, e qualche giorno più tardi fui condotto in un centro
C.A.A. (Comunicazione Alternativa e Aumentativa), dove fui esaminato da
un’équipe di neurologi, psichiatri e logopedisti. Mi vennero mostrate figure e
tabelle che riconobbi senza difficoltà, e tracciai su di un foglio alcune
lettere e qualche disegno. I medici si scambiarono più volte un gesto d’assenso,
e al termine della visita spinsi ansiosamente la carrozzina accanto ai miei
genitori per ascoltare. «Il ragazzo può aderire al programma di prova – dichiarò
una dottoressa –. È intelligente, ed avido d’imparare. Chissà quante parole gli
sono affollate nella bocca, e non riesce a liberarle!»
Quella speranza m’inondò d’una gioia incontenibile. Forse, osai
fantasticare, un giorno potrò muovere le labbra e parlare. Parlare! Un
miraggio insperato! Trascorsi molti giorni beandomi nei miei sogni, e alla
ripresa dei corsi terapeutici m’impegnai con solerzia nelle lezioni di
logopedia; poi, un pomeriggio di primavera, il primario del centro mi convocò
nel suo studio. Accanto a lui sedeva una ragazza alta e bionda, ma dapprima non
le badai. Febbricitante, attendevo la sentenza sulla mia voce.
«Vostro figlio – esordì il primario rivolgendosi ai miei genitori – è affetto
dalla Sindrome di Angelman. Il danno neurologico è intrattabile, tuttavia è
possibile aiutare Filippo a potenziare le sue limitate capacità espressive. Di
solito affrontiamo il programma riabilitativo con bambini più piccoli, ma il
ragazzo è vivace e curioso, e non avrà difficoltà ad apprendere i nostri metodi
formativi».
Gli sorrisi, grato per la sua fiducia, e lui prese le mie mani fra le sue, e
ribadì: «Sì, imparerà. L’affiancheremo ad un facilitatore giovane, ma
esperto... Elisa». La ragazza bionda s’alzò, e m’avvidi ch’era bellissima. E
quando parlò, la sua voce m’accarezzò come una nuvola di velluto. Elisa si chinò
su di me, e mi baciò sulle guance. «Buongiorno, Filippo», mi salutò, ed anche il
suo profumo era dolce, lieve come viole di bosco. «Da oggi resteremo assieme
tutti i giorni, se lo vorrai», soggiunse. Accennai un gesto d’assenso con il
capo, come m’avevano insegnato in istituto, e lei mi sorrise. E da quel momento,
l’amai.
Sino ad allora, la mia vita era stata percossa dallo strazio del mio handicap.
Immobilizzato sulla carrozzina, guardavo la neve cadere nel giardino
dell’istituto, in inverno, e non ne conoscevo il nome. In estate seguivo le
farfalle volteggiare di fiore in fiore, ma i loro colori abbaglianti per me
erano soltanto meraviglia e splendore. Quante cose avrei voluto
imparare, ed invece le maestre mi forzavano a leggere raccolte di favolette per
bambini o sciocche filastrocche! Ma un giorno, a casa d’alcuni cugini, avevo
trovato una silloge di liriche e m’ero immerso nella lettura fino a sera,
travolto dal sapore spumeggiante delle parole, ed avrei proseguito sino a notte
inoltrata se mia zia non m’avesse sorpreso, gli occhi chini sulle pagine
ombreggiate dal vespero, e non m’avesse portato nella sala da pranzo assieme ai
figli. Oh, quelle parole, che incantevoli memorie...! A quel tempo avevo
compreso poco di quanto avevo letto, ma nella mia mente i suoni della pagina
muta – muta... ma soltanto in apparenza! – s’erano infranti come onde sugli
scogli – i miei occhi –, e avvolto dal miraggio di quella musica eterea ero
sprofondato nei riflessi crepuscolari di terre sconfinate, ed avevo udito il
chioccolio di placidi fiumi solitari e il rintocco di campane disperse in
villaggi senza nome. Questo era il prodigio della parola: mostrava quel che era
lontano, e talvolta persino inventato dalla fantasia, e donava un’illusoria
corporeità ai soavi, filigranati palpiti dell’anima. Era un incontro diventato
segno e suono, ed io avrei venduto il mio nome pur di saper confidare a coloro
che amavo le mie emozioni più segrete... perché, se ero un bambino deforme nel
corpo, non lo ero altrettanto nell’animo. Fino a quando avevo studiato
nell’istituto, i miei desideri e le mie ambizioni erano sempre stati soffocati
dal sudario del silenzio; e nessuno, nemmeno i miei genitori, che tanto
m’amavano, riuscivano a comprendere i miei pensieri e a soddisfarli. Non potevo
chiedere nulla, neppure un bicchier d’acqua o una coperta per la notte, ma ora
Elisa stava scalfendo la muraglia che m’isolava dal mondo, e in breve tempo
appresi ad usare tabelle ed icone speciali, e a comunicare con maggior sveltezza
d’un tempo. Potei inoltre proseguire gli studi, e scoprii che altri giovani
affetti dal mio stesso male s’erano diplomati e laureati, ed alcuni lavoravano
persino nel campo della pedagogia. Ero ricolmo di speranza, ma ancora non
riuscivo a dominare la voce, e la mia felicità era screziata dall’afflizione per
il mio ostinato mutismo. A volte ascoltavo Elisa suonare il pianoforte, e,
guardando le mie mani lente e goffe, consideravo ch’erano ancor più agili della
mia gola; eppure, non servivano che a trarre suoni inaccettabili dalla vasta,
nevosa prateria del piano.
«Le tue mani volano sulla tastiera, amica mia – le scrissi un giorno –. Ma pensa
a quant’è beffardo il destino: tu parli con le labbra, e vorresti cantare con le
dita; io m’esprimo con le mani, e bramo di comunicare con la voce».
Ma nonostante la mia smania, sapevo soltanto piangere e ridere, e ripetere vaghi
suoni gutturali. Come potevo, con un linguaggio tanto ridotto, discorrere con
disinvoltura – come un ragazzo qualsiasi! – e confessare ad Elisa il mio amore?
Dopo qualche mese d’appassionanti illusioni, mi rinchiusi in un guscio di
malinconia. Scrivevo con una macchina da scrivere, ma ero lento, e sovente
scordavo i pensieri che strappavano dalla mia mente irrequieta, e, smarrito, mi
fermavo nel mezzo d’una frase, incapace di riprendere; poi, prostrato, strappavo
il foglio scritto, e m’allontanavo dal tavolo, e rifiutavo la compagnia di Elisa
o dei miei genitori.
Così trascorsero alcuni mesi; ed allora mio padre decise di farmi un regalo. Un
giorno ch’ero più imbronciato del consueto mi raccolse dalla carrozzina,
intimandomi di non strillare. «Niente capricci, oggi!», m’impose, in torno
ferreo. Mi portò nel salotto, dove Elisa e mia madre attendevano davanti ad un
portatile specializzato. Mio padre sedette su una sedia, e mi sostenne sulle
gambe.
«Scrivi, Filippo, scrivi! – m’incalzò Elisa –. È simile alle nostre tabelle,
vedi?»
Mi mostrò le icone disegnate sulla tastiera e, confuso, le guardai senza
sfiorarle. «Non aver paura, tesoro, scrivi qualcosa», m’incoraggiò mia madre.
Avevo già visto i computer, al centro medico, e qualche volta li avevo
utilizzati. Erano comodi e veloci, ed ero felice che mio padre ne avesse
acquistato uno per me. Ma questo era diverso: sulla tastiera erano raffigurate
icone, anziché comuni lettere e numeri. Elisa mi guardò con i suoi irresistibili
occhi chiari. «Non aver paura: scrivi la prima cosa che desideri».
Sfiorai l’icona che raffigurava l’amicizia – un cuore – e una voce disse:
«Amico». Era la voce del computer, e parlava per mia volontà. Sorpreso, premetti
altre icone, e dissi: «Sei bella!» Elisa rise, lusingata, e mia madre arrossì.
Incredulo, ripetei più volte quelle parole, pazzo di gioia. Oh, non avrei mai
parlato, ora ne ero consapevole. Ma dopotutto, quella voce nasceva da me, dai
miei pensieri... A suo modo, m’apparteneva. Frenando a stento una lacrima di
gioia, mia madre si strinse a mio padre, e sussurrò, piano: «Quando
l’ineluttabilità della natura e le virtù della scienza s’incontrano, il mondo
può quasi apparire giusto».
Io li guardai, esultando.
Avevo trovato la mia voce.
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