File di palline gialle, il sole che filtra tra le righe della
persiana, due palline scure, i miei occhi spalancati da non so più quanto tempo.
Il mio amore dorme, disteso accanto a me in un sonno incosciente, incosciente
anche sveglio, per altro, ignaro dei mutamenti dell'anima mia.
Ignaro di ciò che c'è stato e di ciò che c'è, ignaro dei miei desideri profondi,
delle mille paure, dei sensi di colpa. Ignaro del dolore. Del dolore e del
Dolore.
Quello diffuso, localizzato, spinoso, sordo, acuto, pungente, feroce, battente,
pulsante, vivo, il dolore insomma, l'onnipresente dolore che accompagna la vita
di un malato come me. Ancor più quello insidioso, strisciante, intangibile
eppure quasi palpabile, avvilente, sconfortante, maldicente, amaro, bruciante,
il Dolore insomma, l'onnipresente dolore che parte dagli occhi degli altri e ti
si insinua nella testa.
Lo guardo e lo accarezzo, lo amo di un amore infinito, nonostante talvolta lo
odi e lo abbia ferito.
Nella mia mente si definisce l'immagine che ora ho di me, mi vedo e non sono più
io ma una farfalla posata su un fiore, che gode dei primi raggi di sole, che
sorride alla vita che sboccia nel nuovo giorno che si apre, corolla di fiore
baciata dal sole. Vola farfalla, leggiadra conquista il tuo cielo, mi dico. Non
posso, non ho più le ali, mi dico.
Una lacrima si insinua tra le palpebre che si abbassano seguite da un leggero
abbassarsi del capo, sconfitto, ma una fitta lancinante spazza
l'autocommiserazione e fa spazio al dolore, poi allo sconforto.
Il mio amore si muove, il mio grido smorzato, appena accennato, deve averlo
svegliato, mi guarda inespressivo e raccoglie un sorriso dolcissimo, un sorriso
che dice mi spiace per le attese tradite, ed un tenero bacio che chiede perdono
per ciò che non sono.
E più non vorrei essere io ma fumo che svanisce senza lasciare traccia, senza
lasciare tristezza, perché mai è stato.
Si gira il mio amore e mi cinge con un braccio la vita, mi tira a se
sonnecchiante, sono io che lo butto giù dal letto al mattino, e così ha
escogitato questo dolce baratto, un abbraccio per dieci minuti di sonno forse
anche venti se proprio mi va di restare abbracciata.
La sua tenera stretta sul mio fragile corpo sembra quasi una morsa, sento quasi
le ossa cedere, il respiro mi manca dall'acuto dolore, eppure non oso fiatare,
ne allento la presa e poi ancora sorrido e intesso le lodi alla sua forza
virile, da togliere il fiato.
Son di nuovo farfalla, fragile insetto, tra le piccole incaute mani di un
bambino.
Scorre il tempo impietoso ed è ora di alzarsi, e lo scuoto, gli accarezzo la
testa, lo solletico un poco, si desta.
Lo guardo mentre si alza, fa il giro del letto e si china su di me dal mio lato,
porge il collo al mio braccio, che vi si aggrappa, naufrago al suo pezzo di
legno. Ancora baci, sparsi a casaccio sul viso, la logica non è necessaria in
questo rito, basta solo illudersi che sia per diletto e non per necessità. Io
spero di ingannare lui. Forse lui spera di ingannare me, e anch'io, anch'io in
fondo vorrei ingannare me stessa, vorrei credere almeno una volta che ce la
farei lo stesso, che ciò di cui non posso fare veramente a meno sono i sui baci,
non il suo sostegno.
O forse il sostegno più grande sono proprio i suoi baci.
Lentamente mi reco in cucina, mi piace preparare la colazione, chiacchierare
guardando fuori della finestra nuda, la vita che scorre.
Poi sorprenderci a guardarci nello stesso momento, e sorridere dei nostri occhi
innamorati, e abbracciarci ancora, e ancora un suo bacio sulla mia fronte che
gli si posa sul petto, timorosa che possano uscire i pensieri ed essergli
manifesti. Vorrei non sapesse quanta paura ho, in ogni istante da quando conosco
cosa vuol dire amarlo, cosa vuol dire esserne amata. Vorrei non sapesse che
mentre mi aiuta a portare il mio fardello col suo amore lo appesantisce della
paura di perderlo, per non essere abbastanza normale, della paura
dell'immobilità totale, della paura della morte, che pur inevitabilmente un dì
dovrà separarci.
E più non sono io ma un cucciolo arrotolato al caldo nelle pieghe del corpo
della madre, e non vorrei andar via.
Borbotta il caffè sul fuoco, la normalità delle cose che rassicura, che
ridimensiona.
E lui: cosa metto addosso, a che ora vai da quel cliente, mi porti i calzini,
accidenti è tardi ho un cliente alle nove, bella scollatura. Ed io: ma quand'è
che farai la barba, cosa vuoi per pranzo, dici che sto bene.
E sorrisi, tutto sorride con noi, le porte, il letto, il tavolo, le sedie, il pc
fino a quando qualcosa non mi cade di mano. Lui si china, lo raccoglie mentre
resto a guardare, ed un sorriso amaro e dolce porta un ombra sul sole.