"Lucia è scappata, Lucia è scappata, Lucia è scappata…" Lo so
sembra ossessivo, ma non riesco a smettere di ripeterlo.
Oggi mi sento senza forze. Ma, del resto, è così tutti i giorni. Vorrei solo
dormire, ma non posso, "Lucia è scappata…" e ricomincio.
Mamma piange. Ormai è al telefono da quattro ore ininterrotte; ha chiamato papà,
ma lui, come al solito, non le ha risposto; poi ha chiamato la polizia e ha
denunciato la scomparsa di sua figlia, mia sorella. Mia sorella, Lucia, "è
scappata", satura della situazione insostenibile che ormai da mesi si è creata
in casa.
Mamma e papà, dopo atroci litigi e lunghe sofferenze, finalmente hanno ottenuto
il divorzio, ma, ancora adesso, nonostante la nostra completa custodia sia stata
affidata a mamma, spesso li sento violentemente discutere sul mio stato di
salute. Perché io sono malata. Come lo chiamano? Ah sì, ho sentito dire che lo
chiamano autismo. Non nella forma più grave, non sono ritardata, semplicemente
non riesco a relazionarmi col mondo esterno. Dentro me c’è un universo di luci,
colori, c’è una vita normale che scorre nelle mie vene, ma non riesco a
manifestarlo. È più forte di me.
È da quando avevo cinque anni, età in cui ancora non avevo imparato a dire una
parola ad alta voce e se mi chiamavano per nome non rispondevo, che mi astraggo,
vivo in una realtà tutta mia e parlo con Martino. Lui non esiste, lo so, è una
mia invenzione, ma io gli voglio bene, come se fosse mio fratello, un migliore
amico sempre presente nei momenti di difficoltà, a volte il mio fidanzato.
Che strana cosa i fidanzati, vanno e vengono. Mia sorella ne ha già avuti due,
io però non li ho mai visti. Lucia dice che spesso faccio cose troppo strane e
per questo non li hai mai fatti venire a casa. Crede che io non senta quando
litiga con mamma e la accusa di dedicarmi troppo del suo tempo, ma io non gliene
voglio per questo. Ha ragione. Ha diciassette anni e dovrebbe vivere ovattata in
una famiglia normale, ma purtroppo questo privilegio non l’ha mai avuto. È per
questo che è scappata. Ed io so dov’è. Sono giorni che leggo il suo diario di
nascosto e ascolto le sue telefonate, muta nell’ombra come un pipistrello. Io
non volevo che se ne andasse, ma non ho potuto fare niente per impedirlo. Non
volevo che se ne andasse, non voglio che le cose cambino, di nuovo, non voglio.
Sento un brivido che mi percorre la schiena, lo scaccio. Così cominciano le mie
crisi in genere: un brivido e poi scoppio in un pianto senza fine, chiassoso,
irrispettoso di dove mi trovo o di chi ho davanti. Mi sforzo di respingerlo, ma
non ce la faccio, mi prende.
Mamma continua a parlare al telefono, urla, si dispera, poi si accorge della mia
crisi e con gli occhi gonfi di lacrime corre verso di me e mi stampa un bacio
sulla fronte, come a volermi proteggere e piangiamo insieme. La sento stringersi
a me, cerca di assentarsi dal suo mondo e di entrare nel mio, ma il trillo del
suo cellulare la riporta con i piedi per terra.
Io resto con gli occhi chiusi, immobile, il suo profumo si allontana, risponde
al telefono, uno degli ospedali che aveva contattato l’ha richiamata, alza la
voce, trattiene il respiro, forse l’hanno trovata, scuoto la testa con dissenso.
Mamma attacca liquidando velocemente l’interlocutore, corre verso di me:
"Sandra, io devo scappare in ospedale, forse hanno trovato tua sorella!". Io
abbasso lo sguardo, riesco solo a dire: "Tua sorella è scappata, scappata, Lucia
è scappata…" Mamma ha fretta, deve correre in ospedale, mi stringe il viso tra
le mani: "Sandra, mi ascolti per favore? Forse hanno trovato tua sorella. Devo
andare da lei. Ora avverto la nonna, le dico di venire subito qui. Tu sei capace
di restare qualche minuto da sola?" Abbasso di nuovo lo sguardo, quella parola
mi ha innervosito. Sola. Non voglio restare da sola, ho paura, mi aggrappo a lei
con forza. Mamma mi abbraccia, mi accarezza i capelli, mi tranquillizzo. In
fondo Martino resta con me, non sono sola. Mi alzo dal divano del salotto e, con
Martino accanto, mi dirigo in camera mia a testa bassa. Sento la porta
dell’ingresso chiudersi, ora sono sola per davvero.
Il diario di Lucia è ancora lì. Blindato sotto una coltre di calzini e pigiami
nel secondo cassetto dell’armadio. Lo prendo, è ancora impregnato del suo odore,
così fresco, così buono, mi ci perdo dentro. Lo scaravento con forza per terra,
sono stanca. Io so dov’è e non voglio che le cose cambino. "Martino che
facciamo?", Martino ha già capito le mie intenzioni e annuisce sorridendo.
"Però avremo bisogno di soldi!" mi ricorda il mio amico, e ha ragione. Non ne
conosco molto bene il valore, ma so che i litigi di mamma e papà spesso
riguardavano "i soldi". Anche Lucia spesso rimproverava a mamma di spenderne
troppi per me e troppo pochi per lei. A me sembrano tanti bizzarri foglietti
colorati, ma so che potrebbero servirci, quindi vado in camera da letto di
mamma, guardo nello stipetto del comodino ed eccoli lì. Li prendo. Sto rubando.
Ma è per una buona causa e non provo rimorso. Spesso quando vado a casa delle
amiche di mamma rubo qualcosa e la porto con me. Lei si arrabbia sempre, dice
che sono dispettosa perché non mi piace uscire di casa, ma non è così si
sbaglia. Oggi lo dimostrerò.
Esco, ma non prendo l’ascensore, lì dentro mi sento soffocare, scendo a piedi,
eccomi in strada. Sarà facile raggiungere Lucia, il posto in cui è andata lo
conosco benissimo. Papà per inseguire la sua adorata arte ci porta lì almeno due
volte l’anno da quando siamo piccole. Il mio cammino inizia, Martino mi tiene la
mano. Cerco di schivare la gente che mi passa accanto, qualcuno lo urto, a volte
mi manca l’equilibrio. Sono un po’ frastornata, ma vado avanti. Sento qualcuno
fissarmi con insistenza, sembra non abbiano mai visto una persona malata. Tiro
dritto. La voce nella mia testa continua a ricordarmi che "Lucia è scappata,
Lucia è scappata…" e mi viene da ricominciare a ripeterlo.
Ecco ora devo girare a destra, ricordo perfettamente. Il sole sta tramontando
alle mie spalle, dovrei essere in tempo. Comincio a sentire freddo, mamma lo
dice sempre di coprirmi, accidenti non la ascolto mai. Intanto continuo la
cantilena "Lucia è scappata…" e penso che in realtà sia questa la cosa più
importante in questo momento.
Dopo la piazza grande, dove con Lucia rincorrevamo i piccioni da piccole, devo
girare di nuovo a destra. Ci sono quasi. Povera mamma, io la conosco, stiamo
sempre insieme, le verrà un colpo quando si accorgerà che sono scomparsa anche
io. Non preoccuparti mamma, torno presto, sta tranquilla. Il brivido. No.
Supplico. Non adesso. Ma riesce sempre a sopraffarmi. E comincio a piangere, a
dirotto, a singhiozzare, Martino cerca di consolarmi, ma niente, non riesco a
riprendermi. Piango, piango e intanto continuo a camminare. Una signora mi
blocca per le spalle. "Tutto bene signorina?" mi chiede, urlo e lei mi lascia
andare in malo modo. Le lacrime quasi mi annebbiano la vista, quando finalmente
eccola, la stazione. Sono arrivata. O meglio, quasi arrivata. Solo questo riesce
a calmarmi. Sono sudata per la corsa, ma proseguo.
Ricordo ancora le mani grandi di papà che mi stringevano e le sue parole:
"Corriamo o perderemo il treno!"… il treno. Quella strana automobile dove non si
guida, ma si sta solo seduti ad aspettare la propria destinazione, così grande
da poter ospitare centinaia e centinaia di persone. E difatti centinaia e
centinaia di persone, di differenti colori e differenti sguardi, corrono con me
verso il treno. Chissà se sono in tempo. Riprendo la cantilena, ma stavolta
diversa: "Corriamo o perderemo il treno!" e rido, rido fragorosamente, ad alta
voce, quasi urlando. Rido talmente tanto che i passanti mi guardano attoniti,
insomma riesco sempre a spostare l’attenzione su di me, ma non mi importa, le
risate mi travolgono e non riesco a fermarle. Se il ricordo non mi inganna il
mio treno dovrebbe essere il numero sette. Ogni volta che tornavamo dal viaggio
con papà, io Lucia e mamma disegnavamo tutto quello che avevamo visto ed anche
il treno, ora ricordo bene, sì è il numero sette.
"Corriamo o perderemo il treno! Martino corriamo o perderemo il treno!" Ma è
inutile incitarlo, Martino regge il passo e corre con me, noi non ci separiamo
mai. Ci siamo quasi, ancora qualche altra rampa di scale e dovremmo essere
arrivati. Ho l’affanno, ma riesco ancora a parlare: "Corriamo o perderemo il
treno! Corriamo o perderemo il treno!", travolgo una ragazza, la sento urlarmi
qualcosa, ma non ho tempo, non posso fermarmi. "Corriamo o perderemo il treno!"
Eccomi, il numero sette. I passeggeri si affrettano a salire, mi infilo tra
loro, prendo posto, uno qualsiasi, tanto sono tutti comodi.
I minuti trascorrono interminabili, nel frattempo torno a pensare a mamma. Sarà
molto preoccupata, ma io devo riportare Lucia a casa. "Non voglio che le cose
cambino. Lucia è scappata, Lucia è scappata, Lucia è scappata…" e torno alla mia
vecchia cantilena. Il mio vicino di posto è un bel signore sulla cinquantina, lo
vedo incuriosirsi quando mi sente mormorare. Vorrebbe chiedermi se va tutto
bene, ma si trattiene. Intanto il treno chiude le porte e parte. Il viaggio
comincia. "Lucia è scappata, Lucia è scappata, Lucia è scappata…" non riesco a
smettere, il signore accanto a me appare visibilmente preoccupato. Mi sfiora la
mano, sta per dire qualcosa, ma io non posso fare a meno di gridare. Poi rido,
mi è piaciuto il suo tocco, così leggero, pieno di apprensione. Diverso dagli
altri, sincero. Gli prendo la mano, la stringo forte. "Martino non essere
geloso!" esclamo, e riprendo a ridere. Dopo pochi minuti smetto di ridere. La
mano del mio vicino è ancora nella mia. È così morbida e arrendevole che mi
avvolge, mi fa venire sonno. Un lieve senso di torpore mi assale, mi addormento,
sorridendo.
Qualcuno mi sta picchiettando nervosamente il dito sulla spalla. Non voglio
proprio svegliarmi, ma questo qualcuno è tenacemente insistente. Apro gli occhi.
Un buffo signore in divisa è davanti a me, con aria decisamente irritata.
"Signorina il suo biglietto per favore! È la quarta volta che passo, ma siamo
quasi arrivati e ho dovuto svegliarla obbligatoriamente!"
Siamo quasi arrivati? Balzo dalla poltrona e mi affaccio al finestrino, il
paesaggio è decisamente cambiato rispetto a quello di casa, comincio a
riconoscere i luoghi familiari. Avrò dormito molto, mi ricordavo che il viaggio
fosse interminabile.
Il merito sarà stato sicuramente del signore che mi aveva tenuto la mano così
calorosamente da farmi sentire al sicuro. Mi era sembrato quasi di essere con
papà. Mi dimentico completamente dello strambo signore in divisa, che ricomincia
a picchiettarmi sulla spalla. "Signorina, signorina mi scusi, il suo biglietto,
ho altri controlli da fare, devo andare!" Non so chi sia, ho paura. Non lo
conosco urlo il nome di Martino, più e più volte. Martino è lì, accanto a me, ma
non parla, non sa che dirmi. Continuo a chiamare il suo nome a voce alta, non so
che fare. Il signore in divisa è senza parole, sembra spaventato. Arriva il mio
vicino, che si era allontanato. In mano stringe due lattine rosse, buone sono le
mie preferite. Mi alzo e gliene strappo una di mano, mamma dice che
assolutamente queste cose non si fanno, ma ormai siamo diventati amici. Lo sento
parlottare con il signore in divisa, gli offre dei soldi e questi va via,
sbuffando. Si risiede accanto a me, mi scruta, sorride. Io bevo la mia bibita,
soddisfatta. Martino mi guarda con cupidigia, ne vorrebbe anche lui, ma non
gliela offro, è stato cattivo, non mi ha difeso prima. "Ti piace la coca, ho
scelto bene!" Il mio vicino mi scruta mentre succhio dalla mia cannuccia, poi
nel silenzio sentiamo una voce all’altoparlante. Siamo arrivati!
Sento già il profumo dei giardini ed il chiacchiericcio straniero degli abitanti
di questa splendida città: Parigi. Certo dovrò ancora camminare a lungo per
raggiungere il posto dove si trova Lucia, ma non mi spaventa. "Lucia è scappata,
Lucia è scappata…" salto dalla seduta e sgattaiolo verso il portellone d’uscita.
In fila, allineati davanti a me in attesa di uscire ci sono persone, tante
persone e valige, grandi valige. Spingo tutti a gomitate, è da maleducati, lo
so, ma ho fretta di scendere. Sento voci mandarmi al diavolo, poi ne sento una
distinta, diversa, quella del mio vicino. Mi chiama, cerca di raggiungermi, ma
invano. La folla lo sommerge. Avrei dovuto ringraziarlo per essermi stato così
benevolmente accanto, ma non sono brava in queste cose, forse un giorno lo
incontrerò di nuovo. "Lucia è scappata, Lucia è scappata…" ora è il mio unico
tarlo. Un cartello gigantesco con su scritto il nome della stazione sovrasta la
zona in modo imponente. Il sapore dei viaggi con papà riaffiora in me, no, di
nuovo. Brivido, e poi eccomi, di nuovo a piangere. Non ho tempo, non posso
distrarmi. Devo andare. Piango, ad alta voce, i parigini si fermano esterrefatti
a guardarmi. Mi asciugo le lacrime con il polsino della camicia, che freddo! Qui
è notte fonda ed il vento si alza tagliente. Esco dalla stazione.
Improvvisamente smetto di piangere, mi sento subito a mio agio, quasi come a
casa. So dove devo andare, nessuno mi fermerà. Mi volto, Martino mi segue è
sempre lì. Continuo a passo veloce, poi giro a sinistra, "Lucia è scappata,
Lucia è scappata…" ormai queste parole mi hanno accompagnata lungo tutto il
tragitto, non posso abbandonarle. "Lucia è scappata, Lucia è scappata" , qualche
passante si ferma credendo che mi stia rivolgendo a lui, dei ragazzini di strada
si avvicinano. Parlano francese non li capisco. Mi seguono, comincio ad
innervosirmi. Quasi correndo giro di nuovo a sinistra e proseguo per la mia
strada, ma niente, sono ancora dietro di me. Chiedo a Martino se capisce cosa
vogliono, ma Martino non ne ha idea. I ragazzini mi vedono parlare al vuoto e si
incuriosiscono, uno di loro mi viene vicino e mi tira per la camicia, lo
strattono per la spalla e, urlando, lo allontano. Mi dispiace, non voglio essere
violenta, ma non amo essere toccata dagli estranei. A dire il vero è una cosa
che odio profondamente. Mi viene da ripensare al mio vicino del treno e a quanto
l’avessi lasciato avvicinarsi a me. Mi meraviglio quasi di me stessa, intanto i
ragazzini spaventati sono scappati via. Meglio così.
Ora devo girare a destra, sono emozionata e rido, rido a squarciagola. Mi piace
ridere. Sono stanca, quasi sfinita, ma rido lo stesso. Sono quasi arrivata.
Ancora qualche metro. Poco lontano da me le luci della torre incantano qualche
turista. E magari anche mia sorella. Lucia, ancora pochi metri e sarò da te.
Porterò tutto al suo posto, non voglio più che le cose cambino, non voglio, e lo
ripeto a voce alta.
Giro a sinistra ed eccola, la intravedo. La piramide di vetro. La prima volta
che mi trovai al suo cospetto rimasi incantata per ore. Nessuno riusciva più a
trascinarmi via da lì. Così imponente e particolare da lasciarmi a bocca aperta.
Quasi quanto ci riuscì all’interno del museo quella strana scultura di donna
senza testa. Papà ne è innamorato, dice che è splendida, ma non ne ho mai capito
il perché visto che è priva di volto. Secondo me il viso di una persona dice
tante cose. È da quello che capisco di chi fidarmi. Ritorno a pensare al mio
vicino del treno, ai suoi tratti dolci. Poi torno con i piedi per terra. Eccola
dinanzi a me, la piramide. Il museo è chiuso, è tardi, ma emana comunque tutto
il suo fascino. Papà dice che Lucia ed io abbiamo ereditato da lui il nostro
senso artistico. Lucia frequenta la scuola dell’arte e dipinge, è brava, mamma
ha esposto tutte le sue tele a casa e accanto a queste ha messo i miei disegni.
Anche a me piace disegnare. Però mamma mi aiuta, perché spesso mi manca la
pazienza di completare i disegni e strappo tutti i fogli. Anche qui, nel museo,
ho lasciato dei disegni, chissà se li hanno esposti. Durante una delle nostre
ultime visite ho lasciato la mano di papà che mi guidava tra le gallerie e sono
scappata. Mi sono chiusa in bagno per ore ed ho cercato di fare dei dipinti
belli come quelli che avevo visto. Quando mi hanno ritrovata papà mi ha
sgridato, non mi ha dato neanche il tempo di raccogliere i miei disegni e mi ha
trascinata fuori per un braccio. Non mi ha parlato per giorni per questa cosa.
Quando poi abbiamo fatto pace mi ha detto che scappare è da stupidi, che non si
fa e che faccio preoccupare le persone che mi vogliono bene. Chissà cosa starai
pensando adesso papà. Forse sarai arrabbiatissimo. Forse non mi parlerai per
giorni. Ma io dovevo farlo, io dovevo scappare. Devo riportare Lucia a casa.
"Non voglio che le cose cambino, non voglio…" ripeto questa frase decine di
volte. Martino mi richiama alla realtà. "Hai ragione Martino scusa, dobbiamo
trovare Lucia." Ed insieme ci incamminiamo verso i giardini delle Tuileries.
Vedo un ragazzo avvicinarsi a me. È sporco, ha i capelli legati e gli occhi
spenti. Non mi piace. Cambio direzione. Mi viene da piangere. Ho paura. Il
ragazzo prende la mia stessa direzione, è quasi davanti a me. Mi tende una mano.
Vuole qualcosa. Poi improvvisamente, un passo prima di raggiungermi, si siede a
terra e si accascia con la testa tra le gambe. Starà male, tiro un sospiro di
sollievo, non mi dispiace per lui, ho avuto troppa paura.
Una donna semi-vestita mi attraversa la strada, bella. Bocca grande, rossa e
carnosa che stringe avidamente una sigaretta, occhi profondi, talmente scuri che
a stento riesco a distinguerne le pupille. Un uomo la segue, la ferma, le dice
qualcosa ad un orecchio. Lei abbozza un sorriso lo tira a sé e lo bacia
profondamente, intensamente. Mi soffermo troppo a fissarli e se ne accorgono. Mi
dicono qualcosa in francese, il loro tono non sembra essere gentile, "Lucia è
scappata, Lucia è scappata…" a loro, che non capiscono la mia lingua, suona come
un risposta e a loro volta controbattono, di nuovo in francese. Vado via.
Continuo le mie ricerche. La notte sta lentamente diradandosi lasciando il posto
ad un timido sole. Sono un po’ stanca. Mi seggo su una panchina a cercare un po’
di riposo. Tiro giù i polsini della camicia sino a coprirmi completamente le
mani cercando alla meglio un po’ di calore. Appoggio un attimo la testa sul
bordo della panchina, disperatamente combatto con i miei occhi per tenerli
aperti, ma perdo e cado in un sonno profondo.
Qualcuno mi scuote con insistenza, sarà un altro buffo signore in divisa, penso,
e faticosamente apro gli occhi, piano, perché il sole è alto adesso, è un sole
forte, caldo e quasi non mi permette di vedere chi ho di fronte. Ma subito
riconosco il profilo. Lucia mi sta davanti, con gli occhi verdi pieni di
lacrime, stenta a credere che io sia lì, non sa che dire. Grida il mio nome,
sento il brivido, comincio a piangere anch’io. Lucia si avvicina, mi rinchiude
in un abbraccio forte, stretto, quasi mi soffoca. Continua a chiamare il mio
nome ed io piango così tanto che quasi mi fanno male le tempie per lo sforzo.
Tra i singhiozzi mi dice "Che ci fai qui? Come sei venuta? Come mi hai trovata?"
Vorrei risponderle ma non ci riesco. Riesco solo a piangere, ma lei sembra
accontentarsi. "Mamma sarà preoccupatissima, come sei arrivata fin qui?" Sa che
non avrà risposte, ma sembra non curarsene e mi travolge con un turbine di
domande. Le uniche parole che riesco a pronunciare sono "Dovevo portare le cose
al loro posto, non voglio che le cose cambino, non voglio che le cose cambino di
nuovo…" Lei mi prende per mano e mi sussurra: "Non ci divideremo mai più Sandra,
non farò mai più lo sbaglio di lasciarti sola, lo giuro. Torniamo a casa adesso,
le cose non cambieranno mai più."
Tornammo a casa e fu molto difficile calmare mamma e papà, ma quello con mia
sorella fu il giorno più bello della mia vita.
Quello con mia sorella fu il giorno che riuscì a portare un po’ di luce, nel mio
piccolo mondo, fatto di ombra.