Il mito rivive a casablanca

 

2° PREMIO
SEZIONE
NARRATIVA INEDITA
MIRJAM TASSAN di Zagarolo (RM)
con il racconto: «In vino veritas»

Era la vendemmia; in quei giorni Ernesto si sentiva più allegro del solito, perché la sua vita silenziosa e solitaria veniva rallegrata dalla compagnia degli operai, che assoldava a cottimo per raccogliere l’uva.
Ernesto era considerato un tipo strano in paese, o almeno così pensava; non aveva molti amici e quei pochi con cui ogni tanto scambiava qualche parola lo trattavano come se fosse un po’ stupido. E forse lo era un po’ stupido Ernesto o comunque non era come gli altri. Il suo modo di camminare era goffo come il suo modo di parlare; tra le persone si sentiva impacciato, soprattutto con le ragazze, e qualsiasi cosa dicesse era fuori luogo, buffa e tutti ridevano.
Ernesto era un tipo semplice, non era affascinante, non era intelligente, non capiva molto di quello che gli succedeva intorno, ma aveva delle certezze, poche, ma le aveva. Ernesto possedeva un appezzamento di terra del tutto rispettabile; su gran parte del terreno aveva piantato una bellissima e florida vigna, che gli regalava ogni anno un vino leggero e frizzante come l’aria del suo paese; un restante pezzo di terra lo aveva adibito ad orto e vi aveva fabbricato sopra una casa di pietra e una piccola stalla con pochi animali: un asino, una capretta, qualche gallina e un gallo tronfio quanto malandato. Queste erano le certezze di Ernesto; la sua vita era scandita dalle occupazioni della campagna, dai lavori di mantenimento dei suoi attrezzi e dall’accudire i suoi animali, i soli con cui condivideva lunghe giornate a parlare delle sue preoccupazioni e dei suoi progetti.
Ernesto non aveva grandi sogni, gli bastava ciò che possedeva; eppure aveva sofferto molto nella vita. Da poco era finita la guerra, che Ernesto aveva conosciuto solo quando quegli uomini in divisa che parlavano in modo strano erano venuti nel suo paese. Tutti erano afflitti e preoccupati, tranne lui perché pensava che non si dovesse aver paura degli uomini, tutt’al più di Dio che può mandarci all’inferno. Ma un giorno Ernesto vide scendere dal cielo delle cose che somigliavano a pigne giganti; una di quelle colpì la sua casa dove si trovavano i suoi genitori e li uccise. Fu così che Ernesto rimase solo al mondo, con l’unico mezzo di sostentamento della sua terra.
Ernesto era giovane, o almeno così credeva, e voleva sposarsi come facevano gli altri giovani. Provava simpatia per la figlia di un venditore ambulante di scarpe, che si affacciava in paese nei giorni di festa. Gli piaceva molto quella ragazza dai capelli scuri e dagli occhi del colore dell’uva quando matura. In paese dicevano che era una poco di buono; chissà che voleva dire? Forse perché sorrideva ai ragazzi del paese e non faceva la ritrosa come le altre. Un giorno, mentre Ernesto cercava di vendere i suoi poveri prodotti al mercato domenicale, la ragazza gli si avvicinò inaspettatamente e con voce sicura gli chiese di mostrarle il suo podere. Ernesto non credeva alle sue orecchie! Tutte le giovani del paese lo scansavano e lo prendevano in giro, lei era l’unica ad avergli rivolto la parola; anzi, addirittura gli aveva chiesto di accompagnarla a vedere la cosa a cui teneva di più, il suo terreno. Si avviarono per la strada polverosa che portava verso la campagna; arrivati, Ernesto mostrò orgoglioso la sua vigna, così ben curata e carica di grappoli d’uva, i suoi attrezzi e la stalla con tutti i suoi animali. La giovane donna, di cui non conosceva neppure il nome, sembrava distratta e annoiata; i suoi occhi vagavano stancamente come rapiti da qualcosa che non era presente lì tra loro. Ad un certo punto ad Ernesto parve di vedere due lacrime rigare il suo bel viso, ma non fece in tempo a dire nulla che la ragazza cominciò a stuzzicarlo, facendogli il solletico e scappando subito dopo in modo che lui la rincorresse. Ernesto, spinto come da una forza misteriosa, la seguì prontamente e, una volta raggiuntala, la fermò agguantandole un braccio.
"Io mi chiamo Nina e tu?" gli chiese.
"Ernesto"
"Hai la fidanzata?"
"No"
"Perché?"
"Non lo so. Forse perché sono brutto"
"Ed io come sono?"
"Tu sei bella"
"Mi vorresti come tua fidanzata?"
"Certo"
Nina con impeto gli baciò le labbra e scappò via come una furia. Ernesto, che non aveva mai ricevuto un bacio in vita sua, nemmeno da sua madre, sentì affluire il sangue al cervello, la testa cominciò a ronzargli e cadde in una profonda confusione. Lì per lì rimase come imbambolato, sbalordito non tanto da quel bacio, ma dalla reazione che gli aveva procurato. Quando si riebbe cercò di raggiungere Nina, che però si era nascosta nel tentativo di dirigersi verso il banco di scarpe del padre senza farsi vedere.
Da quel giorno Ernesto non vide più la sua Nina.
Come si è detto, il periodo dell’anno che Ernesto amava di più era quello della vendemmia; tutto diventava motivo di festa e di gioia: la raccolta dei grappoli, la spremitura, la fermentazione del mosto e infine l’imbottigliamento del suo prezioso vino.
Tutti compravano il vino di Ernesto; addirittura alcuni signori eleganti, che venivano dalla città, di tanto in tanto si fermavano al suo podere per prenderne qualche litro.
Quell’anno la vendemmia era stata più generosa del solito ed Ernesto a fine giornata, stanco, ma soddisfatto, gironzolava tra i filari della sua vigna, guardando orgoglioso i tralci ormai spogli del loro prezioso carico. Stava così crogiolandosi al pensiero dei complimenti, gli unici, che i suoi compaesani gli avrebbero rivolto al momento di assaggiare il suo vino, quando qualcosa lo spaventò; sentì una specie di mugolio, una sorta di pianto sommesso che proveniva da un cespuglio lì vicino. Pensò subito ad un animale senza dare troppa importanza alla cosa; quel rumore però non cessava, anzi diventava sempre più insistente fino ad assomigliare ad un pianto disperato. Ernesto allora decise di farsi forza e di avvicinarsi, non prima però di essersi munito di un bastone. Quatto quatto si apprestò al cespuglio da dove proveniva quello strano rumore e con molta circospezione scostò le fronde. Quale grande sorpresa! Vide qualcosa che al primo impatto lo spaventò; in una di quelle ceste che si usano per fare il formaggio c’era, avvolto in una coperta bianca, un bambino, che piangeva disperato. Ernesto non sapeva proprio cosa fare; aveva cresciuto una nidiata di pulcini, aveva dato il latte ad un cucciolo di cane abbandonato, aveva osservato la capretta allattare il suo piccolo, ma un bambino! Rimase immobile per un lungo lasso di tempo pensando a cosa fare; poteva portarlo in paese dove sicuramente qualcuno lo avrebbe preso con sé; poteva consegnarlo ai carabinieri, ma chissà se in caserma avrebbero voluto un neonato. Mentre Ernesto rimuginava tra sé e sé, il bambino smise di piangere e lo guardò intensamente negli occhi, poi sorrise in modo così buffo e dolce che Ernesto capì all’istante cosa avrebbe fatto: lo avrebbe portato a casa sua e lo avrebbe cresciuto lui! Tutto sommato se era riuscito ad allevare un cucciolo di cane, poteva accudire anche un bambino, non sarebbe stato poi così diverso! Risoluto, prese in braccio la cesta con il suo carico e si avviò verso la sua masseria. Ben presto, però, Ernesto si rese conto che non era poi così facile come aveva pensato; quel bambino piangeva in continuazione, probabilmente aveva fame e voleva essere cambiato. Ernesto allora lo prese e lo portò nella stalla dove la capra stava allattando il suo cucciolo e lo pose vicino alle mammelle dell’animale. Subito il bambino si attaccò e non smise di succhiare fin quando non si sentì sazio. Ernesto lo portò in casa per lavarlo e… quale grande sorpresa! Scoprì che era una bambina! Dopo averla accuratamente pulita, la avvolse con un lenzuolo e la mise a dormire nel suo letto. Ernesto pensò che era necessario darle anche un nome, ma era troppo stanco per prendere un’altra decisione; ci avrebbe dormito su rimandando tutto al giorno dopo. La mattina successiva si svegliò con in mente un nome, l’unico che avesse per lui una certa importanza; quella bimba si sarebbe chiamata Nina.
Ernesto riuscì a barcamenarsi tra i lavori della campagna e l’accudire la sua nuova piccola amica con tenacia e semplicità. Andò a trovare alcune donne che avevano partorito da poco e rimase a lungo ad osservare come si prendevano cura dei loro bambini, destando dapprima l’ilarità e poi il sospetto dei suoi compaesani; ma Ernesto, che già parlava poco di natura, custodiva gelosamente il suo segreto, non diceva una parola, non rispondeva a nessuna domanda, intuendo un pericolo in quella curiosità.
La sua vita era più bella da quando aveva trovato Nina; provava una dolcezza strana, una leggerezza e un’euforia che gli rendevano meno duro il lavoro, la sofferenza e la solitudine. Era felice quando alla fine delle sue lunghe e faticose giornate poteva prenderla in braccio e cullarla contemplando la sua vigna.
Ma, come spesso accade nei piccoli paesi, ben presto la cosa venne a galla; un giorno qualcuno troppo curioso si spinse oltre i confini del podere di Ernesto, scoprì il suo segreto e lo denunciò alle autorità. Quando i carabinieri vennero a prendere la piccola Nina per portarla chissà dove, Ernesto non disse una parola, ma dentro di sé pensò di subire un’ingiustizia, perché quella bambina apparteneva a lui, l’aveva trovata nella sua terra!
Passarono gli anni; Ernesto riprese la sua solita vita, ma il mondo cominciò a cambiargli intorno sempre più velocemente. Nelle campagne le macchine avevano preso il posto delle persone, la vendemmia non era più così gioiosa come un tempo e nessuno comprava più il suo buon vino.
Un giorno delle persone vestite in un elegante abito blu gli proposero di vendere il suo podere ad un prezzo che Ernesto giudicò equo; ma il poveretto non comprendeva il linguaggio del mondo economico: gli avevano detto che nessun altro avrebbe comprato il suo terreno ad un prezzo migliore e che non doveva preoccuparsi per la sua vigna perché un’azienda vinicola molto grande e potente avrebbe continuato a coltivarla e mantenerla per produrre del vino.
E fu così che Ernesto si ritrovò stanco, invecchiato, con pochi soldi in tasca e senza sapere dove andare. Venne ricoverato in una casa di cura per anziani, ma non se la prese perché aveva comunque un tetto sulla testa e un piatto caldo da mangiare; sereno, attendeva la morte certo che Dio lo avrebbe accolto in Paradiso, perché aveva fatto tutto quello che doveva fare. Ogni tanto ripensava alla sua Nina, a quella bambina che aveva cresciuto tanto tempo fa. Ernesto si chiedeva come fosse diventata, dove si trovasse, se qualcuno si prendeva cura di lei.
I giorni e gli anni si susseguivano l’uno uguale all’altro, scanditi dagli orari dei pasti e dalla noia sempre presente. Un giorno, in una calda mattina d’estate, Ernesto ricevette la visita di una ragazza, che era venuta a prenderlo per portarlo via di lì. Non capì molto di quello che gli venne detto; la ragazza raccontò di essere stata adottata da una famiglia facoltosa, proprietaria di una grande azienda vinicola e che da poco aveva scoperto di essere stata trovata in fasce da un uomo che l’aveva cresciuta con amore e dal quale l’avevano portata via. Con tenacia si era messa alla ricerca di quell’uomo e finalmente lo aveva trovato: era Ernesto; gli venne detto, inoltre, che il suo terreno, il suo prezioso podere apparteneva alla famiglia di quella donna e che gli sarebbe stato restituito insieme alla sua vigna e alla sua casa ristrutturata. Di tutto quel lungo discorso Ernesto capì solamente che quella donna era la sua piccola Nina e pensò che era cresciuta molto dall’ultima volta che l’aveva vista.
E fu così che il povero Ernesto non fu più solo.
E quando la sera, stanco e ormai vecchio, culla tra le sue braccia la figlia di Nina guardando fiero la sua vigna, prova nel cuore qualcosa che somiglia molto alla felicità.

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