QUARTO
PREMIO
SEZIONE NARRATIVA
ARTURO BERNAVA di Chieti
Io sono la luna
Io sono la luna.
La luna pallida, bianca, ambivalente. La luna che ammalia e fa innamorare. La
luna che sfugge come donna fatale, come la misteriosa essenza di una forza
femminea.
Io sono la luna, faro nella notte, che ammicca e si nasconde. Una luce, punto di
riferimento per i naviganti, per i ladri, per gli amori clandestini e non.
Io sono la luna, raminga nel cielo notturno, ora bassa dietro una collina
ondulata, ora alta nella notte, testimone degli umani intrighi.
Alta sì. Da quassù nulla mi sfugge e tante e tali sono le cose che vedo che
anch’io mi imbarazzo e a volte mi coloro di rosso. A nulla serve il nascondermi
dietro una nuvola passeggera, che con il suo velo bagnato mi permette di
riprendermi dallo stupore di ciò che vedo nel mondo.
No, a nulla serve e l’incredulità mi dilania, mi divide in tanti pezzi, porta
via, notte dopo notte, una parte di me. Ma torno sempre. Come l’amore, come
l’eterno congiungersi dell’uomo e della donna.
Io sono la luna e sono alta.
Io sono la luna e so.
E ciò che so ora vi racconto!
«Questa luna piena non ci voleva, ma non posso rimandare.
Deve essere questa sera, questa notte. Questa è l’ultima notte e non mi importa
se la luna mi porterà via il buio che mi occorre. No, non importa. Mi importa
soltanto che questa notte tutto abbia fine e tutto abbia inizio.
Voglio che finisca questa insopportabile separazione. Lei è mia e non posso
tollerare che ci tengano ancora separati. Mi ama, la amo. Questa è l’unica cosa
che importa.
Ma allora perché sposa quell’altro?
Che sciocco che sono. Lei ha detto che non lo sposerà, ha fatto solo finta di
accettare. All’ora stabilita scapperà e verrà qui ed insieme scapperemo verso i
nostri sogni.
Ha detto che lo farà e non ho motivo di dubitarne.
Eppure questa luna mi sembra quasi minacciosa con il suo brillare proprio sopra
la casa di lei, sfavillante di luci, piena di invitati e circondata dal servizio
d’ordine.
E che faccia che hanno queste guardie. Sicuramente sono uomini del padre e sono
tutti armati.
No. Non mi fanno paura.
Lei ha detto che verrà.
Io la aspetto».
«Questa luna così brillante sembra quasi una benedizione.
Sembra messa lì ad indicarmi la strada. Sembra che voglia farmi coraggio, a me
che odio il buio. Vai, lui è lì che ti aspetta, sembra dirmi, e il buio non ti
sorprenderà perché io ti illuminerò la strada.
Cara, dolce, pallida e sorridente luna.
Quante volte ci ha visto ballare. Quante volte è stata testimone delle nostre
evoluzioni, del tocco sapiente di lui, del mio lasciarmi andare, senza remore e
senza paure. Quante volte ha assistito da lassù alla tempesta dei nostri corpi
che ballavano; quasi attaccati eppure senza altro contatto fisico, quasi che una
invisibile forza magnetica lasciasse un impercettibile passaggio tra noi. Ma sì,
sì, c’era questa forza magnetica: era elettricità pura. E non ci saremmo mai
potuti toccare mentre ballavamo, eccezion fatta per le mani: non ci saremmo mai
potuti toccare perché una scintilla forte e prepotente ci avrebbe respinto e
fatti volare lontani l’uno dall’altra, come se davvero fossimo stati investiti
da una potente scarica elettrica.
Cos’era ballare con lui? Era un viaggio senza destinazione, era cuore fatto
gambe, gambe fatte cuore. E respiri trattenuti e occhi che si incrociano solo un
istante, prima di voltare di scatto la testa, prima di riprendere il frenetico
volteggiare.
Questo e altro era ballare con lui.
E la luna era lì, come questa sera, che fa venire voglia di piangere solo a
guardarla.
Ma non posso piangere, non devo. Ho detto a mio padre che
sono contenta di sposarmi con quel tizio, che farò la mia parte da brava figlia,
che farò tutto ciò che vuole lui.
Ho promesso sì, ma non lo farò.
Perché ho giurato a lui che presto fuggiremo insieme. Ho solo paura del buio
fitto, ma la fidata luna mi aiuterà anche questa volta.
Devo solo cercare di non piangere».
Io sono la Luna.
E li ho visti quei due giovani incontrarsi la prima volta in una notte d’estate.
Lui ballava con una compagna argentina che sarebbe partita quella sera stessa
per un tour in Spagna.
«Resta senza compagna», aveva sussurrato il maestro Gutierrez all’orecchio di
lei che guardava estasiata la coppia ballare elegantemente.
«Ma io non potrò mai prendere il posto della sua compagna: è troppo brava, io
non sono nemmeno alla metà del suo livello. Come può pensare una cosa del
genere, maestro?», si era scandalizzata lei.
«Io penso e vedo cose che altri non riescono nemmeno a scorgere. La sua compagna
è molto brava, ma se la vedi così disinvolta, così sciolta, il merito è solo di
lui, che la porta alle volte come fosse una piuma al vento, altre come se il suo
corpo vibrasse di energia violenta. Lei è brava, ma lui lo è ancora di più:
insieme diventereste una coppia fantastica».
L’ho vista, da quassù, lei che scuoteva la testa, con i riccioli neri resi quasi
viola dal riflesso della mia pallida luce. Lei che aveva paura di sperare in un
sogno irrealizzabile, che, con i suoi enormi occhi ardenti, guardava quella
coppia volare sulla pista.
Poi la musica era finita (la ricordo ancora, La Cumparsita cadenzata dal
bandoneon, finire con un doppio passo violento) e la coppia era tornata ad
essere due unità, due persone che non erano più un qualcosa di unico, ma due
corpi e due anime a sé stanti.
«Ci vorrebbe un miracolo perché si accorga di me», pensò la
ragazza mentre lui si asciugava il sudore, vicino eppure irraggiungibile
Ma poi lui si voltò, la vide e si fermò. E gli occhi di lei, per lo stupore,
diventarono ancora più grandi. Cosa possono fare gli occhi. Possono fare un
miracolo?
Sì, possono. In quel caso lo fecero.
Lui si avvicinò, le prese la mano. La musica cominciò nuovamente e le loro anime
si congiunsero per sempre.
«Io la aspetto. Ormai non manca molto.
E il padre non potrà impedirmelo.
Mi ha sempre odiato, quel tricheco, dalla prima volta che mi ha visto. E non me
l’ha mai nascosto, arrivando persino a picchiarmi.
Stavo per reagire, ma lei mi ha fermato. No, mi ha gridato, non farlo! Ed io mi
sono fermato.
Il giorno dopo mi ha spiegato che lo ha fatto, ha fermato la mia mano, perché
altrimenti gli uomini di suo padre me l’avrebbero fatta pagare cara. Potevano
arrivare persino a rompermi una gamba. E per me sarebbe stata la fine: non posso
vivere senza di lei, ma non posso vivere nemmeno senza ballare. Che poi è la
stessa cosa, visto che per me ballare è lei, lei è ballare.
Amo la sua certezza nel ballare. Mi sento senza forza nelle tue braccia, mi
dice, ma non è vero. Lei è forte e i suoi movimenti sono energia pura che le
arriva dal cuore e non da me. Nel mio cuore ci sei tu, mi ripete sempre, quindi
la mia forza nel ballare mi viene da te. Ma io so bene che non è proprio così.
La sua forza nasce sì dal cuore, ma anche da un corpo scolpito, da gambe nervose
e snelle, da una grazia innata che la fa volare mentre balla, la rende simile al
vento che scuote gli alberi, ad una pioggia d’estate, violenta e irruenta, ma
preludio al sole, al calore, all’amore.
Nel mio cuore ci sei tu, mi ha detto. Sì, forse. Ma allora perché sposa un
altro?».
«Devo solo cercare di non piangere.
Credevo fosse semplice. Ma quando ho visto i miei compagni della scuola di ballo
ho fatto davvero fatica a trattenere le lacrime. I miei amici erano gli unici
tristi in una tripudio di allegria forzata. Mi ha commosso vederli così, con i
loro vestiti luccicanti, pronti per esibirsi sulla pista principale; il velluto
dei pantaloni dei cavalieri in perfetta sintonia con i fiori stampati sui
vestiti delle dame.
E poi c’era lui, il maestro Gutierrez. I suoi enormi occhi scuri, come sempre,
brillavano di luce propria: è la luce del tango che alberga in lui, che vive in
lui.
I suoi baffi bianchi accompagnano il disegno di una bocca sempre pronta al
sorriso, il suo corpo snello, ma non tanto alto, ne fanno un’icona del ballo. Ha
una voce bassa e calda e la risento sempre nella mia mente, mentre insegna nella
sua scuola, la stessa che ho frequentato per dieci anni, da quando ero bambina.
Ho cercato di non piangere, sì. Ma poi non ce l’ho fatta. Quando ho visto gli
occhi brillanti e caldi del maestro Gutierrez, infatti, mi sono ricordata di
lui, lui al quale ho cercato di non pensare per non farmi sovrastare dall’ansia.
Eppure è lì nel mio cuore, nella mia anima, nella mia mente, nelle mie gambe.
Io sono sua e stanotte scapperò con lui».
Io sono la luna e vi ho raccontato di quando le loro anime si congiunsero per
sempre.
Ma ricordo anche di quando i loro corpi toccarono le corde vibranti della
passione.
Quella sera io ero lì e loro si erano dati appuntamento alla rotonda, che la
mente di un architetto illuminato aveva fatto costruire quasi in riva al mare.
La musica, come ogni sera d’estate, risuonava alta per tutta la spiaggia, ma lei
appena arrivata aveva rifiutato l’invito di lui a ballare: «Ti devo parlare»,
gli aveva detto con voce allarmata e rotta dal pianto.
Si erano allontanati, rifugiandosi in un vicino stabilimento balneare, non
troppo distante da non sentire la musica, non troppo vicino da essere disturbati
da qualcuno.
A parte la musica ritmata che arrivava attutita dalla distanza, non si sentiva
altro, ed io dall’alto della mia postazione potei ascoltare tutto.
«Mio padre ha deciso di farmi sposare Achille Plazaola. Non vuole sentire
ragioni. Dice che non posso rifiutarmi e che se lo facessi mi ucciderebbe con le
sue stesse mani». La voce venne rotta dal pianto, ma nonostante questo continuò.
«Io non voglio sposarlo, piuttosto mi faccio uccidere o mi uccido io stessa!».
Un sussulto. Ecco cosa provò lui nel sentire quelle parole che sapevano di
definitivo.
Ma nulla poteva accadergli mentre ascoltava Vuelvo al sur.
Non si erano ancora dichiarati, ma quel pianto era molto eloquente.
Lui non le parlò del matrimonio forzato, non fece progetti di fuga e di
vendetta.
Le fece solo un’unica sconvolgente domanda: «Hai mai fatto l’amore?».
Lei non sembrò stupita da una domanda all’apparenza senza nesso. Scosse
semplicemente la testa: «Voglio che la prima volta sia con la persona della mia
vita e dopo che ci saremo giurati amore eterno».
Anche lui scosse la testa: «No, io non parlo di fare l’amore fisicamente, parlo
di qualcosa di più sublime, di più elevato».
«Cosa c’è di più sublime ed elevato che fare l’amore con la persona amata?»,
chiese lei incredula.
«Ti fidi di me?», rispose lui in un sussurro.
«Sì» venne detto in un altro sussurro.
Poi si baciarono. Lui cominciò a spogliare lei, lei a spogliare lui.
Si ritrovarono così, nudi, in piedi, al centro della piattaforma di cemento.
Scalzi, come ballerini gitani, belli come la forza dell’amore.
Una regia occulta e soprannaturale fece giungere sino a loro, proprio in quel
momento, la musica di Adios Nonino.
Cominciarono a ballare. Nessuno li vide, tranne me, che sono la luna.
Io sono la luna ed ho visto come due corpi nudi possono diventare nella danza
del tango un’anima sola. Erano energia, erano passione, erano la forza
invisibile e violenta dell’amore e si ritrovarono uniti in un corpo unico. Le
note suadenti dei violini sembravano accarezzare la schiena di lei, circondata
dal braccio sapiente della guida di lui.
C’era gioia nell’abbraccio, sprigionava scintille la loro unione. Ma anche
dolore. Un dolore che saliva dalle gambe, gambe che si attorcigliavano in
disegni concentrici, che cercavano di sciogliere la tensione con continui
scatti, che fremevano per la voglia di fermarsi e congiungersi; ma che sapevano
anche che l’unione non nasceva solo dai corpi, ma da quella sconosciuta pulsione
che li faceva volteggiare nudi, sudati e frementi sulle note di un tango
argentino.
La musica stava per concludersi e l’orgasmo dei loro respiri, della loro unione
totale, cresceva prepotente, togliendo loro il respiro. Lei aveva paura che
tutto potesse finire con la musica: chiuse gli occhi e continuò a volteggiare
abbandonandosi totalmente a lui.
È questo fare l’amore: abbandonarsi all’altro, senza paura che tutto possa
finire, senza pensare che insieme alla musica possa concludersi una magia che
non è possibile creare, perché è dono, ma che si può rendere eterna
semplicemente abbandonandosi all’altro.
Quando la musica sciolse le sue note in un finale vibrante, loro non erano più
lì.
Solo io, che sono la luna, ho visto dove erano andati. Ma questo non posso
raccontarvelo. Posso darvi solo un indizio: erano proprio nel cuore del tango.
«Perché sposa un altro? È una domanda che mi sono fatto da
quando lei mi ha messo al corrente del suo piano, ma non sono mai riuscito a
darmi una risposta confortante.
E se avesse organizzato tutto questo perché vuole prendermi in giro?
Ma no, sono sicuro che non lo farà. Manca poco ormai, anzi, direi che non manca
nulla. Il momento è arrivato e presto lei scioglierà la seta della sua passione
sul mio corpo fremente.
L’orchestra smette di suonare. Cosa succede? Che abbiano già scoperto la sua
fuga?
D’un tratto la vedo, corre verso di me con i grandi occhi ancora più spalancati
dalla paura. Non parliamo, tra noi non c’è bisogno di parole.
Il suo abito lungo le rende più difficili i movimenti e correre con i tacchi
alti diventa quasi impossibile. Si toglie le scarpe e il suo andare a piedi nudi
mi fa ricordare per un attimo (oh, ma è solo un attimo) quando sulla spiaggia si
toglieva le scarpe, saliva con i suoi piedi sui miei e si abbandonava
completamente a me, sussurrandomi in un soffio: lasciami così, per sempre.
La corsa è sempre più frenetica, il fiato si fa fumo, i polmoni fuoco.
Alle nostre spalle le voci si fanno sempre più concitate,
sempre più vicine. L’uomo crudele vede sfuggirsi tra le mani la vittima
sacrificale, e diventa ancora più crudele.
Corre l’uomo crudele, corre più veloce del vento freddo del nord e, con lui,
corre anche la sua banda di lupi famelici, urlanti e scalmanati.
Come sempre le cose importanti accadono in un attimo. Lei inciampa, perde
l’equilibrio e scivola in una piccola scarpata alla nostra destra. Rotola
velocemente, ma si ferma dopo una ventina di metri. Non ha urlato, segno che non
si è fatta male.
Ma questa separazione temporanea è ciò che l’uomo crudele stava aspettando.
Lo scoppio è unico, secco, definitivo.
Poi, per me, il buio».
«Cos’è stato quello sparo?
Mio Dio cos’è stato? Perché non vedo più lui? Era lì un attimo fa ed ora perché
non c’è più?
Devo risalire questa scarpata. Non mi sono fatta niente, solo qualche
sbucciatura, ma allora perché mi gira la testa?
Non riesco ad alzarmi, devo aspettare un attimo. Forse la corsa mi ha stancata
troppo.
No, non è la stanchezza. Posso ballare per ore senza sentire la minima
stanchezza. So che il mio corpo è modellato attorno a quello del mio amore,
della mia metà, a quel corpo perfetto le cui pieghe mi ricordano un albero
nervoso e forte.
No, non è stanchezza. So cos’è questa testa che gira. È una consapevolezza che
non vuole conferme, che non ha il coraggio di chiedermi se è tutto vero o se
invece è solo un bruttissimo sogno da cui risvegliarsi tra poco.
No, non ho il coraggio. Ma io so.
So cos’era quello sparo, so cos’ha fatto mio padre, recidendo un fiore che aveva
cancellato l’aridità dalla mia vita.
E so anche cosa devo fare adesso.
Ho due strade. Piangere, disperarmi, lasciarmi morire d’inedia per
ricongiungermi quanto prima possibile con lui, o… renderlo immortale.
Scelgo la seconda. Mi rialzo e continuo a correre. Da sola».
Io sono la luna e so, perché ero alta nel cielo, quello che è
accaduto quella notte.
Il padre della ragazza, seguito dal suo improbabile futuro genero e dai suoi
uomini, correva deciso a riprendere la ragazza e a spezzare le gambe a
quell’impudente che aveva osato portarla via.
Ma più la corsa procedeva, più il padre della ragazza sentiva crescere in sé una
rabbia sorda, che non ammetteva scusanti, non permetteva spiegazioni.
E fu un attimo. Ad un certo punto non vide più la figlia accanto all’uomo.
Sparò, quasi senza prendere la mira, come se stesse cacciando nelle sue
sconfinate proprietà terriere.
Un solo colpo. Pochi secondi dopo giunsero sul posto dove giaceva il corpo
insanguinato e senza vita della sua «preda». Il futuro (e quanto mai
improbabile) genero non aveva ancora sviluppato la crudeltà del vecchio ed ebbe
un moto di fastidio: «Hai sparato ad un uomo disarmato. Ma come ti è saltato in
mente?», riuscì a dire senza pensare.
Il vecchio lo guardò male. Sfilò una pistola dalla cintura e la mise nella mano
destra del morto: «Non era disarmato», disse con un ghigno; poi rivolto ai suoi
uomini continuò: «Andate a riprendere mia figlia. C’è un matrimonio da celebrare
e siamo già in ritardo».
Quando gli uomini tornarono dicendo di non essere riusciti a trovare la donna,
il vecchio andò su tutte le furie.
Io sono la luna e ci sono anche questa notte.
La sala è gremita, ma silenziosa.
C’è attesa, ma nessuna fretta. Quando la donna entra in pista il silenzio
diventa addirittura assordante. Guarda il suo partner, teso e concentrato. Occhi
negli occhi, mente nella mente.
Lei non ha esitazioni. Si fa abbracciare inarcando leggermente la schiena.
Comincia la musica e lei chiude gli occhi. Deve farlo sempre, altrimenti non
riesce a ritrovare, nella sua mente e nel suo cuore, il movimento sapiente del
tango di lui.
Lo ritrova sempre, ma solo se chiude gli occhi.
Ma usa anche le orecchie. Ascolta la musica, con le orecchie,
con il cuore, ma soprattutto con le gambe e con il busto. È come se ogni piccola
parte del suo corpo fosse dotata di minuscole orecchie, con le quali ascoltare
il ritmo cadenzato della musica.
Ormai è riconosciuto da tutti: lei è la migliore ballerina di tango al mondo.
Lo è diventata perché lo doveva a lui: l’ha deciso quella notte, in quella
scarpata. Ogni suo passo, ogni suo tango, ogni sua milonga, tutto è dedicato a
lui e questo il mondo lo sa. E li renderà immortali.
Ma questo basta?
La donna continua a ballare ed illumina con la sua danza le ombre dell’anima di
chi la guarda volteggiare. Lei ne sorride amara, vivendo una vita senza altra
volontà che ritrovare gli occhi di lui, occhi negli occhi, fissi in un abbraccio
di tango.
È talmente forte questo desiderio che lei si chiede, come una bambina
incosciente e capricciosa, se i piedi capaci di lui torneranno mai ad
incrociarsi ai suoi.
Torneranno?
Chi può saperlo?
Io.
Io che sono la luna.
Io so.
So che torneranno.
Torneranno ad incrociarsi.
Nel cuore del tango.
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