Accompagno alla porta gli ultimi ospiti che si riprendono il
cappotto e il loro compassionevole sorriso, stringo loro le mani, mormorando un
grazie di circostanza.
Resto sull’uscio accompagnandoli con lo sguardo, osservando le loro schiene
allontanarsi fino a sparire.
Fa freddo questa sera, dicembre è alle porte; inspiro l’aria fino a riempirmi i
polmoni, mentre i miei occhi fissano l’immagine di un cielo incredibilmente
limpido.
Poi rientro in casa, chiudendo fuori, a tripla mandata, quel tripudio di stelle.
La festa è finita e, mentre raccolgo dal tavolo bicchieri e
piatti di carta, buttando tutto in un sacco, penso che in fondo non è stata una
brutta serata. Teresa si è divertita e non è molto importante se gli auguri
fatti fossero sentiti o di circostanza. Passerà molto tempo prima che qualcuno
si faccia rivedere in questa casa.
Lascio scorrere l’acqua, metto nel lavello le posate di
metallo e osservo il getto scrosciare. Tocco l’acqua con la mano: troppo calda,
troppo fredda… così va bene.
Comincio a lavare le posate, meccanicamente; la quotidianità mi serve per
anestetizzare i pensieri.
Mentre le ripongo, penso che la lampadina della cucina manda una luce debole,
troppo fioca: mi devo decidere a cambiarla.
La radio è ancora accesa e diffonde musica; Teresa sembra
seguirne le arie, con brevi e sgraziati gesti, seguiti da una sorta di nenia che
vuole essere un canto.
Ha la testa reclinata da un lato e ruota spesso gli occhioni azzurri come
seguisse chissà quale oggetto in volo. L’osservo senza avvicinarmi, per non
distoglierla dal suo mondo.
In questo istante so che è felice.
Le cinghie di cuoio l’assicurano alla sedia a ruote,
impedendole di cadere.
Sembra che la sedia la stringa in un abbraccio.
Mi piacerebbe poter entrare nella sua testa e rimettere tutte le cose che non
funzionano al loro posto.
Sono sempre stato bravo a riparare ogni oggetto.
Ho fatto ogni genere di lavoro nella vita.
Ma lei non è una sedia che traballa, una macchina che non funziona, o un
elettrodomestico rotto.
È un progetto di Dio.
E io, Lui sa quanto ci ho provato, non so leggere i Suoi schemi, i Suoi disegni.
Tutto questo devo solo accettarlo.
Teresa è mia figlia e oggi compie trent’anni.
Quell’essere indifeso, raggomitolato su di una sedia a ruote, che sbava in
continuazione come fosse un’eterna neonata, è la mia bambina e stasera c’era la
sua festa di compleanno.
Ricordo come fosse ieri quando nacque: i medici non
riuscivano a capire cosa avesse e azzardavano ipotesi di ogni tipo.
Parlavano di sindromi, ipotizzavano disfunzioni usando termini che né io né mia
moglie avevamo mai sentito e cercavamo ogni sera su un dizionario medico in modo
da comprenderne il significato.
Ma in quell’oceano di parole, in tutti quei consulti, nel loro vocabolario dotto
e su quello di carta non sentimmo né trovammo mai spazio per la parola speranza.
Teresa sarebbe cresciuta solo nel fisico e nemmeno molto
bene; la sua mente invece sarebbe stata un muro invalicabile, un pianeta lontano
che non le avrebbe mai permesso di mettersi in contatto in maniera chiara con
noi, abitanti di un altro universo.
I suoi pensieri sarebbero stati sempre un cifrario misterioso, le sue parole uno
strascicare da intuire più che da comprendere, il suo sguardo un vorticare di
pupille, dove per un estraneo è difficile cogliere la luce della vita che,
nonostante tutto, vi assicuro, brilla.
Ricordo che i medici, prima di congedarci, ci dissero che i
soggetti come Teresa di solito non durano molto. Dieci, vent’anni al massimo.
Pronunciavano quelle parole come se potessero esserci di conforto.
Come se la morte potesse essere una via di salvezza.
Come se l’annientamento di quel corpo potesse liberarci dalle nostre angosce,
dagli sguardi pietosi della gente che si volta dall’altra parte, quando incontra
Teresa.
Però, nonostante tutte le loro ipotesi, Teresa è qui.
Mi sono chiesto mille volte il senso di tutto questo.
Da quando è venuta al mondo me lo sono chiesto tutte le sere.
L’ho chiesto anche a Lui, senza avere mai una risposta. Ho urlato affinché fossi
sicuro che mi sentisse, mentre Teresa non stava bene e noi la vegliavamo nel suo
sonno agitato senza sapere che fare per darle sollievo, spendendo ogni stilla di
energia, anche noi prigionieri di quel corpo sbagliato.
Ma non ho mai dubitato del Suo operato.
Nemmeno quando si è preso la mia Maria, in meno di tre mesi, lasciandomi solo e
smarrito.
Sono andato avanti lo stesso, ho raddoppiato i miei sforzi, e non ho mollato.
L’ho fatto per Teresa, a cui ero rimasto solo io.
L’ho fatto per Maria, che l’ha sempre guardata come se fosse la bambina più
bella del mondo.
In fondo l’ho fatto anche per me, e l’esserci riuscito mi fa sentire bene.
Tra non molto ci sarà il mio compleanno.
Compirò settant’anni e non farò nessuna festa.
Quando ci penso l’ansia mi prende il cuore e faccio un po’ fatica a prendere
sonno.
Non è la morte che mi spaventa. Ha già visitato i luoghi in cui vivo e l’ho
vista colpire molte persone che ho amato, indossando alcuni tra i suoi
travestimenti più terribili, eppure non mi fa paura.
Averne sarebbe come vivere male la giornata, solo perché si sa che poi questa
finisce e arriva la notte.
Quello che mi preoccupa è il tempo.
Il fatto è che sto diventando vecchio, non sono più forte come una volta e
vegliare Teresa, spostarla, lavarla, cambiarla, mi costa parecchio sforzo.
Per quanto i servizi sociali mi aiutino, molte cose le devo fare da solo e mi
chiedo se dovessi venire a mancare o diventare troppo vecchio e debole cosa ne
sarà di lei.
Ho parlato di questo alle persone che mi stanno intorno.
Nessuno mi fornisce una risposta che scacci le mie paure. Mi dicono solo di non
preoccuparmi, ma non mi basta, non riesco. So che se questo dovesse accadere la
rinchiuderebbero in un istituto e lì conoscerebbe per la prima volta nella sua
vita la solitudine.
Perché Teresa non è mai stata sola e la sua vita, per quanto vi possa sembrare
impossibile, è sempre trascorsa serena. Dal luogo in cui si trova ha imparato a
mandarmi dei segnali e io con il tempo a comprenderli e a farmi capire.
Teresa riconosce la mia voce e io so quali parole devo usare
per calmarla, quando si agita per qualche rumore improvviso, quale tono usare
per rimproverarla, quando sputa tutto e non vuole mangiare facendo i capricci.
So quali sono i suoi cibi preferiti, i colori che le piacciono di più; le storie
che bisogna leggerle per farla scivolare nel sonno accompagnata da un bel sogno
e da un sorriso.
Se mancassi chi si accorgerebbe che Teresa adora la musica,
chi scoprirebbe che è vanitosa e ride felice, quando dopo il bagno le metto due
gocce di profumo e le lego i capelli con i nastrini rossi e le dico che è bella?
La verità è che Teresa è mia figlia e non sopporto l’idea di
doverla abbandonare o lasciarla ad altri.
Sono invecchiato dedicandomi a lei e nonostante la mia vita sia stata segnata
dalla sua condizione non ho mai pensato a come sarebbe stata, a come avrei
potuto vivere o a cosa avrei potuto fare, se lei non fosse mai nata oppure fosse
diversa.
Non ho mai pensato di renderla al mittente, come un dono non gradito o un
giocattolo rotto.
Ho sempre pensato a farla star bene e non la voglio dividere con nessuno.
Forse sono solo un vecchio egoista, o forse ho paura di perdere la mia ragione
di vita.
La festa è finita, ed è finita anche questa sera.
Il tavolo è sgombero, la casa in ordine e siamo di nuovo soli.
Teresa è ancora lì con la testa reclinata, che agita un braccio ritmando un
tempo tutto suo, mentre ascolta la colonna sonora di un vecchio film.
È tardi, dovrei metterla a letto, so già che farà i capricci.
Sono molto stanco anch’io.
Però stasera è il suo compleanno, il trentesimo, quello che mai e poi mai
avrebbe dovuto compiere secondo i medici.
Ma come dicevo Dio ha i Suoi disegni, e per quanto abbiano studiato nemmeno i
dottori li sanno leggere.
La lascerò ancora un po’ lì, in fondo non c’è nulla di male,
domani recupereremo il sonno perso.
Mi siedo al suo fianco, si accorge della mia presenza e mi
sorride, agita le braccia, come volesse stringermi; le prendo le mani, la
stringo, l’abbraccio.
Sento le sue ossa che sembrano voler bucare la pelle, sembra un uccellino la mia
Teresa.
Forse le ali le ha per davvero, forse Teresa non è che un
angelo, un angelo travestito, e quelle sue braccia non sono che ali.
Le stesse che in questo momento mi stringono, fino a forarmi il cuore
riempiendomelo di un amore assoluto.
Restiamo così, abbracciati e felici.
Felici di niente.
Forse è questa la risposta che cercavo, che ho cercato per
tutta la vita.
Forse questa è la risposta di Dio.