SECONDO
PREMIO
SEZIONE NARRATIVA
MARIO MALGIERI di Genova
La scelta di Greta
Immaginate che vi abbia invitato nella mia casa di montagna.
È sera, abbiamo appena cenato e la polenta concia sta facendo il suo corso
mentre, seduti davanti al camino, sorseggiamo una rara bottiglia di vera grappa
di Picolit che ho generosamente spolverato e stappato (un poco mi piange il
cuore genovese, ma per gli amici cosa non si farebbe?).
In cambio vi chiedo un poco d’attenzione, tanto fuori nevica e la TV satellitare
non funziona, forse perché non ho più pagato l’abbonamento.
Vi voglio raccontare una storia. Come? Sì, Gina, potrai fare domande, ma per
piacere prometti di pensare due volte a quello che dirai prima di aprire bocca.
Gina è insopportabile, in tutte le compagnie di amici c’è sempre una Gina che
non viene mandata a quel paese perché è l’amica di un caro amico.
Ora mettetevi comodi, la sintesi non è il mio forte.
Sapete cos’era l’A.O.I.? Non sono in molti a ricordarlo e i libri di scuola
aiutano poco. Un aiutino?
«Faccetta nera, bell’abissina
Aspetta e spera che già l’ora si avvicina!
Quando saremo insieme a te,
noi ti daremo un’altra legge e un altro Re».
Africa Orientale Italiana, le colonie di quello che fu un
effimero impero proclamato dal Duce nel 1936.
L’A.O.I. comprendeva un coacervo di terre ed etnie le più varie. Mare, deserti,
laghi, altopiani e montagne costituivano un territorio vasto quasi sei volte
l’Italia e popolato da tribù e civiltà disparate. La sede del viceré era Addis
Abeba, “nuovo fiore” in amarico, la lingua dei fieri Etiopi che l’avevano eletta
capitale della loro nazione dopo che la regina Taitù la volle costruire dal
nulla, vicino alle fonti termali che amava tanto.
Vi parlerò di due persone, Antonio e Greta, che in quei luoghi erano arrivati
per motivi diversi.
Lui era un funzionario del governo coloniale, uomo del sud, religioso,
impetuoso, generoso e idealista. Impetuosità e idealismo lo avevano portato nel
1917, nemmeno diciottenne, a falsificare la firma paterna per arruolarsi
volontario tra gli Arditi Incursori, a guadagnarsi sull’altopiano di Asiago una
croce di guerra e poi una brutta ferita. In Africa era andato, sempre
volontariamente, per amore dell’avventura e spirito di servizio. Si era
assicurato un buon posto governativo grazie alla sua laurea in giurisprudenza e
al suo passato militare che all’epoca aveva una certa importanza. Naturalmente,
socialista da sempre, era anche iscritto al partito fascista pur non
condividendo molti di quegli ideali.
Come dici, Gina: «Come cazzo faceva un socialista ad essere fascista?».
Non ti hanno mai detto che pure un certo Benito Mussolini era stato socialista?
Lasciami proseguire.
Lei, Greta, era figlia di un ingegnere di Essen e di una bella signora milanese.
Questo brillante ingegnere era stato inviato in Italia per collaborare alla
costruzione di centrali elettriche e la vita di Greta e delle sue sorelle era
stata felice per pochi anni, durante i quali si spostavano per l’Italia, da nord
a sud, seguendo il lavoro del capofamiglia. Poi… ma questa è un’altra storia,
che da sola potrebbe diventare un romanzo di stampo ottocentesco, di quelli con
povere orfanelle, matrigne spietate e tanta disperazione. Forse un’altra sera ve
la racconterò. Basti dire che Greta andò nella nuova terra promessa per cercare
uno sbocco a una vita molto difficile.
Si sa che le difficoltà possono distruggere una persona o indurirla. Greta era
indurita, almeno all’esterno, ma dentro di lei ancora si agitava uno spirito
romantico e passionale. Ma torniamo ad Addis Abeba.
Una sera del 1940, davanti alla farmacia di Piazza del Littorio si fermò una
Balilla. Ne scese un bell’uomo, con una barbetta nera, gli occhi vivaci e un
temperamento mediterraneo. Acquistò un medicinale e al momento di pagare fu
catturato dagli occhi verdi e dal sorriso gentile della cassiera.
Greta e Antonio si conobbero così, e si sposarono dopo due mesi da quel primo
incontro.
Ad Antonio il governo aveva assegnato, oltre alla Balilla di rappresentanza, un
bel bungalow a nord della città, dove le alture di Entòtto, ricche di eucalipti,
iniziavano a inerpicarsi per formare lo spartiacque di Gara Gorfù. Nel grande
giardino ombroso, una piccola gazzella veniva a prendersi le carezze di Greta,
condividendole amichevolmente con un grosso alano. Sul fondo, verso la foresta,
un muretto di pietra fungeva da appoggio per le bottiglie vuote che Greta e
Antonio usavano per allenarsi con la pistola. La terra era ancora in parte
selvaggia e anche i civili, donne comprese, andavano in giro armati. A parte
eventuali atti di guerriglia, per altro repressi duramente, non era infrequente
scorgere branchi di iene che si aggiravano ai margini della città. E le iene
possono essere pericolose come i leoni, ma ancora più scaltre.
Il clima di Addis Abeba era quello piacevole dell’altopiano che, a oltre 2000
metri di altezza, domava la calura africana rendendola simile a un’eterna
primavera. Insomma, quella di Greta e Antonio era una vita agiata, tipicamente
da coloni bianchi quando la condanna del colonialismo era ancora molto lontana
sia dai libri di storia che dalle coscienze, e alla coppia sembrava che la sorte
avesse rivolto loro uno sguardo particolarmente benevolo.
Ma la fortuna coloniale e bellica dell’Italia volse rapidamente al tramonto. I
rovesci della guerra fecero diffondere la convinzione che gli Inglesi sarebbero
presto arrivati sino lì. Qualcuno tra i coloni si diede alla macchia, andando a
vivere in capanne nella foresta sino alla fine del conflitto, ma Greta e Antonio
rimasero. Antonio aveva fortissimo il senso della responsabilità e della Patria,
tanto da pagare di tasca propria gli stipendi agli impiegati locali quando
dall’Italia non fu più possibile ricevere qualsiasi cosa.
Gina, hai detto: «Bel pirla?». Sì, questa cosa può sembrare sciocca, fuori dalle
logiche moderne, ma Antonio effettivamente viveva in un altro tempo, un tempo
dove Patria, Onore e Dignità avevano un significato che oggi ci è estraneo.
Poi le truppe inglesi arrivarono davvero. Greta e Antonio videro confiscati i
loro beni, dalla casa sino agli spiccioli che avevano in tasca. Fecero appena in
tempo a liberare la gazzella e consegnare l’alano al fedele Abebe, il ragazzo
che si occupava del giardino, poi furono arrestati, trasportati per camion in
Eritrea, a Massaua, e rinchiusi per mesi in un campo di concentramento dove,
assieme a molte altre famiglie italiane, finirono stipati in baracche di
lamiera.
Fuori la temperatura toccava i 50 gradi e le baracche diventavano dei veri
forni. I civilissimi Britannici, nei loro bungalow confortevoli e dall’alto
della loro imperiale alterigia, rimasero del tutto indifferenti a questa
situazione e nulla fecero per mitigarla. In fondo si trattava di uomini donne e
bambini internati perché di un paese nemico, quindi erano nemici. Punto e basta.
Sì Gina, lo so, ho fatto una velata critica agli Inglesi e tuo nonno era un
ufficiale inglese. Ecco, magari tuo nonno era proprio uno stronzo di ufficiale
addetto a quel campo di concentramento, per quello che ne so. Ora che sei
incazzata puoi anche uscire; nevica e ci sono otto gradi sotto zero, ti va? No,
non sei incazzata abbastanza? Bene, allora piantala e finisci quel bicchiere di
grappa.
Molti internati morirono, altri, come Greta e Antonio ebbero delle gravi forme
di insolazione e disidratazione, ma sopravvissero.
Finalmente, nel Gennaio del 1944, tutti i superstiti del campo furono affidati
alla Croce Rossa che li imbarcò su una vecchia carretta insicura e rantolante.
Il canale di Suez era impraticabile da tempo, quindi la nave dovette seguire
un’altra rotta. Dopo aver puntato a Sud nel Mar Rosso, si diresse a Est per il
golfo di Aden, poi puntò a Sud-Ovest sino a doppiare il Capo di Buona Speranza e
poi risalire tutta la costa occidentale dell’Africa. Entrò in Mediterraneo da
Gibilterra per approdare finalmente a Genova dopo un viaggio di quasi due mesi e
la circumnavigazione del continente africano.
Gina, se dici ancora che in fondo si sono fatti un bel giro gratis, che nemmeno
Costa Crociere, freddo o non freddo ti butto fuori dalla porta a fare l’omino di
neve, solo che la carota non te la metto come naso.
Viaggio faticoso e rischioso. E la nostra coppia era rimasta con gli stracci che
aveva addosso, senza una casa e senza un lavoro, ma erano vivi e insieme. Si
ritennero fortunati.
Trovarono rifugio a Brescia, presso lontani parenti di lei. La vita continuava,
e a riprova di ciò Greta restò presto incinta.
Greta non era giovane per il primo figlio. A 37 anni ancor’oggi questo comporta
qualche rischio; allora era molto pericoloso, sopratutto per una donna come
Greta, dalla corporatura minuta e le anche strette. Come dicevano le comari, non
aveva i fianchi da fattrice. Inoltre, quasi due anni di sofferenze le avevano
lasciato dei segni nel morale e soprattutto nel fisico, tanto che i dottori
avevano sconsigliato di portare a termine la gravidanza.
Sì Gina, certo, adesso l’aborto è usato quasi come la pillola ed è legale. Ma
allora era tutto diverso.
La religiosità di Antonio e la voglia di maternità di Greta ebbero il
sopravvento e il bambino, perché si trattava di un maschietto, venne al mondo
sia pure con l’ausilio del parto cesareo e a prezzo di alcuni mesi d’ospedale.
Nei giorni precedenti al parto, Antonio dovette andare a Milano per cercare un
amico che gli aveva promesso aiuto e forse un lavoro. Quando il bambino venne al
mondo, Antonio non era ancora tornato e Greta era molto in pensiero: nei primi
mesi del 1945 viaggiare in quelle zone era difficile e molto perico-loso.
Ora immaginatevi Greta all’ospedale, nel suo letto. A fianco, il piccino in una
culla sembrava un fagottino di stracci in un cesto del cucito. Greta sentì delle
voci nel corridoio tra le quali le parve di riconoscere quella preoccupata e
affannata di suo marito. Poi udì dei passi frettolosi e un Antonio con la barba
lunga, i vestiti sporchi e in disordine entrò nella stanza. Vi posso dire con
esattezza le parole che si scambiarono.
No Gina, non c’era un registratore, non li avevano ancora inventati, queste cose
mi sono state riportate in seguito, lasciami proseguire.
«Amore, come stai? E quello, quello è il nostro bambino? Un maschio mi hanno
detto, e col parto cesareo. Hai sofferto?».
«Certo che è lui, un bel maschietto e io sto abbastanza bene, ora che sei
arrivato anche meglio, e il bambino sta bene, guardalo, è bellissimo; ma tu,
cosa ti è successo? Dovevi tornare ieri».
Antonio baciò con trasporto Greta, poi, a bassa voce per non svegliare il
bambino, iniziò a raccontare del suo viaggio a Milano e di come fosse stato
inutile. Non aveva trovato Gianni, il suo amico. La casa era vuota, dei vicini
gli avevano detto che Gianni e la sua famiglia erano spariti improvvisamente,
senza dire niente a nessuno. Correva voce che si fosse unito ai repubblichini,
raggiungendo il suo vecchio comandante e altri commilitoni per continuare a
combattere a fianco dei tedeschi.
Poi il treno del ritorno era stato mitragliato dagli aerei americani vicino a
Bergamo. Nessuno si era fatto male, ma i binari erano rimasti interrotti e lui
era riuscito ad arrivare a Brescia solo mezz’ora prima.
Stavano ancora parlando quando suonarono le sirene dell’allarme aereo. Un
dottore accorse insieme a una suora.
«Presto, tutte quelle che possono camminare, fuori, svelte, al rifugio, le altre
verranno prelevate dai barellieri; veloci, veloci!».
Tra la confusione generale, Antonio aiutò la moglie a mettersi addosso un
impermeabile, avvolsero il bambino in uno scialle poi, il braccio di lui a
sostenere Greta, si diressero verso l’uscita.
L’ospedale era vicino all’antica chiesa di Sant’Afra e alcuni tra ricoverati e
personale vennero indirizzati alla cripta che, ritenuta sicura, era stata
adattata a rifugio antiaereo.
Greta ed Antonio vi entrarono, scendendo una ventina di gradini. Nel frattempo
uno stormo di bombardieri B24 “Liberator” era arrivato sul cielo di Brescia e
già si udivano le prime esplosioni.
“Liberator”, non vi pare un nome di un umorismo un pochino macabro per un
ordigno di guerra destinato sopratutto a “liberare” dalla vita i civili delle
città bombardate a tappeto?
No Gina, adesso non sto criticando gli Americani; certo, ci hanno liberato, poi
ci hanno salvato dai comunisti mangiapreti e ora ci proteggono dai terroristi,
stai tranquilla, parlo di guerra, e in guerra è normale che accadano tante cose
ingiuste.
Nella cripta trovò posto una ventina di persone tra le quali un sacerdote che
andò al piccolo altare ricavato sulla parete di fondo e iniziò a celebrare la
Messa. I boati delle bombe si facevano sempre più vicini, mentre le lampade
appese al basso soffitto cominciavano a oscillare violentemente.
«Greta – sussurrò Antonio – vieni, andiamo vicino all’altare, faremo la
Comunione e sono certo che Dio ci proteggerà».
«No! – Greta replicò fermamente – mettiamoci invece lì, vicino alla parete, mi
sembra più sicuro».
Discussero brevemente a bassa voce, la profonda fede di Antonio a cercare di
scalfire il duro, lucido pragmatismo di Greta. Infine una decisione fu presa,
proprio mentre il grappolo di bombe da 250 chili sganciato pochi secondi prima
da un B-24, stava completando il suo viaggio.
Gli ordigni sfondarono il tetto di legno della chiesa, ma l’ingegno umano è
raffinato: erano costruiti per non esplodere a un impatto così leggero. Un
istante dopo trovarono il pavimento di pietra. Là finalmente liberarono tutta la
loro potenza distruttrice.
La chiesa sembrò rigonfiarsi, poi esplose a sua volta. I muri secolari si
sbriciolarono, il pavimento fu in parte ridotto in polvere, in parte venne
scagliato giù, verso la cripta, come un maglio gigantesco. Della chiesa rimase
una nuvola di polvere di pietra e marmo, alcuni tronconi di muri e un cumulo di
detriti dal quale si levarono le fiamme alimentate dalla copertura lignea del
tetto.
Adesso vi chiedo di dimenticarvi per qualche minuto di Greta,
di Antonio e del loro bambino. Facciamo un salto in avanti di una trentina
d’anni, però restiamo a Brescia e parliamo di un’altra bomba, purtroppo.
Tutti vi ricorderete della strage di Piazza della Loggia, vero? Se qualcuno era
troppo giovane per ricordarla dovrebbe andare a leggere uno dei tanti scritti
che ne parlano, è una di quelle cose che si devono assolutamente sapere per
cercare di impedire che possa ripetersi.
Siamo qualche mese dopo l’attentato, ma lasciate che vi racconti come se fossi
presente e facessi “la vita in diretta”, diamine, so stare al passo con i tempi!
Guardate quella coppia che passeggia in piazza.
L’uomo, quasi trent’anni, alto e con un pizzetto nero, è emozionato. Cinge le
spalle della ragazza bruna e piccolina che lo guarda con affetto, e forse
qualcosa di più. Sono arrivati da Genova in una sorta di pellegrinaggio
politico. Hanno voluto vedere coi loro occhi quel luogo e rendere omaggio alle
vittime dell’orrore e della follia omicida esplosa pochi mesi prima.
Sono rimasti a lungo sulla piazza a osservare i segni ancora visibili e quelli
apposti in seguito, corone, targhe, per esecrare e commemorare.
All’inizio erano sconcertati, ora si sentono invasi da una furia sorda per
quell’assurdità. Lasciano la piazza; l’uomo, senza spiegazioni ma chiedendo
qualche informazione, si dirige verso un quartiere appena fuori dal centro. La
ragazza lo segue in silenzio, lasciando che i minuti stemperino le sensazioni
precedenti.
Ora arrivano davanti a una chiesa, non particolarmente bella né antica, di
sicuro nulla che valga la pena di una passeggiata a piedi.
«Vedi – dice l’uomo – qui una volta esisteva un’altra chiesa, si chiamava
Sant’Afra. Venne rasa al suolo nel Marzo del '45 da un bombardamento. Ora non si
chiama più così, sopra le sue rovine hanno costruito questo nuovo tempio,
proprio bruttino, dedicato a Sant’Angela Merici. Vieni, entriamo, ti devo far
vedere una cosa».
La ragazza è un po’ perplessa, sa bene che il suo uomo non brilla certo per
saldezza nella fede, anzi. Ma tace e lo segue, è incuriosita.
Percorrono una navata, sono soli nella semioscurità. Lui che certamente è già
stato lì, tenta di orientarsi. Alla fine trova quello che cerca, una porticina
laterale vicino all’altare. Scendono alcuni scalini di pietra dall’aspetto molto
più antico del resto della chiesa.
«Qui siamo in quello che rimane della cripta della vecchia Sant’Afra. Durante la
guerra l’avevano adibita a rifugio antiaereo, poteva contenere qualche decina di
persone. Ecco, vedi? – l’uomo indica una lapide sul muro con una lunga lista di
nomi – Riporta una data, 2 Marzo 1945, quella del bombardamento e della
distruzione di Sant’Afra. Lì ci sono tutti, voglio dire i nomi di tutti quelli
che erano qui e morirono quel giorno. Veramente, quasi tutti; nella lista ne
mancano tre: quelli di una certa Greta, di suo marito Antonio e del loro bambino
di pochi giorni. Pensa, per seguire una strana intuizione della donna, quei tre
si misero a ridosso di un muro. Il pavimento della chiesa sovrastante resse
proprio lì, per quei pochi centimetri sufficienti a fornire loro una specie di
tetto. Tutti gli altri, sepolti, compreso il sacerdote che stava dicendo la
Messa all’altare. Quella famigliola si salvò. Terrorizzati, mezzi soffocati, ma
praticamente incolumi. Un miracolo. Pensa, Greta salvò il suo bambino che non
respirava più tirandogli fuori con le dita i calcinacci che gli erano entrati
nella bocca e nel naso».
Un momento di silenzio, poi l’uomo guarda sorridendo la ragazza al suo fianco:
«Quel bambino si chiamava Mario».
La ragazza ha un moto di sorpresa, poi capisce. Stringe più forte la mano
dell’uomo mentre si avviano all’uscita.
«Sai, cara – dice Mario una volta tornati sulla strada – mio padre mi
raccomandava sempre di rispettare le scelte delle nostre compagne. Mi diceva:
“Le donne hanno un dono che a noi uomini è negato. Noi pensiamo di chiedere
aiuto a Dio mentre loro, a volte, ascoltano già la Sua risposta”».
Come dici Gina, se è un caso che anch’io mi chiami Mario e sia nato a Brescia
nel ’45?
Solo una come te poteva fare questa domanda.
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