PRIMO PREMIO
SEZIONE NARRATIVA
MARIO SCOTTO di Torino
Una notte di tango in
Provenza
Il giorno in cui il suo destino decise di portare Marco là dove lo attendevo,
mancavano pochi minuti alle dieci di una sera di inizio agosto.
Per il suo arrivo, e per quello di Anne, la Piazza era pronta; avevo ottenuto
per quella sera anche la dolce brezza della Provenza, che porta con sé l’odore
del mare non lontano, della violetta lavanda marina, dei canneti e delle stoppie
della Camargue. Inoltre nell’aria c’era quel senso di sospensione e di attesa
che precede l’inizio di un ballo. Un gruppo di ballerini stava programmando la
musica ma la scelta dei brani era solo mia; dal mio immenso repertorio, formato
da quasi sessantamila opere, avevo tratto i brani che mi potessero dare le
maggiori probabilità di successo. L’unica difficoltà, poteva essere la
concomitanza e questo mi causava un poco di tensione; mentre sorvegliavo
dall’alto il convergere di Marco e Anne verso la piazza, dovevo calcolare i
tempi in modo che i brani iniziassero nel momento preciso in cui i loro sguardi
si sarebbero incontrati. Non ci doveva essere alcuna possibilità che Marco non
invitasse Anne dopo quel primo sguardo.
Ripassai ancora una volta la sequenza che credevo più adatta al temperamento di
Marco. Una musica lenta e importante, fatta per due persone che nell’abbraccio
si ascoltano e si cercano. Osvaldo Pugliese quindi.
Il grande musicista e direttore di orchestre, mi ha dedicato brani che io
considero tra i più belli della mia raccolta. Sono capolavori che hanno
rivoluzionato la mia musica, introducendo l’imprevisto nello sviluppo della
linea melodica. I suoi brani iniziano spesso con un lento crescendo, una
ripetizione della frase musicale, che aumenta la tensione, il tempo si dilata,
si tende sempre più sino al parossismo finale del suono, che esplode in mille
colori. Poi, improvvisa e drammatica, la pausa. Una musica che è l’essenza
stessa della vita, il crescendo nell’incontro di due animi, la tensione nella
scoperta del piacere di sentirsi attratti l’uno dall’altra, e l’esplosione del
primo abbraccio e della passione.
Ma dovevo sbrigarmi, Marco era già sul limitare della Piazza, lo vedevo
guardarsi intorno ed ascoltare la musica con quella sua espressione intensa ed
un poco buffa che conoscevo così bene, dato che ci frequentavamo da anni.
Nello stesso tempo Anne, dal lato opposto, stava raggiungendo la fontana che era
il punto d’incontro del ballo, e vedendola, ancora una volta l’ammirai; era
un’amica recente, ma avevo avuto il tempo di apprezzare la sua eleganza, il suo
portamento, la sua femminilità.
Avevo scelto bene per il mio grande amico Marco.
* * *
Dopo aver percorso la stretta e sinuosa Rue Gerard Philippe, Marco sbucò
nell’ampio spiazzo che porta all’ingresso del Palais des Papes e alla Piazza
vera e propria. Nell’aria il ritmo dolce di un tango di Fresedo, dava lo sfondo
musicale a quella notte di agosto in Provenza. Si fermò un attimo, per
imprimersi meglio nella mente quel momento. Di fronte a lui, sullo sfondo, il
biancore della pietra del Palazzo, reso ancora più imponente dalle luci
provenienti dal basso: a ridosso delle mura, più a sinistra, la spianata con la
fontana e alcune piante molto alte costituivano i lati di un grande, suggestivo
rettangolo. Il gruppo di ballerini, muovendosi al suo interno, dava forma ad una
lenta rotazione, sotto la luce dei lampioni disposti tutt’intorno.
Un ballo all’aperto ha sempre una sua magia ma quella Piazza era un superbo
palcoscenico, con la fontana che fungeva da fondale e le due scalinate
convergenti a formare le quinte. La luce tenue dei lampioni, la notte stellata
ed una luna al massimo splendore, lo rendevano unico.
Con un poco di impazienza salì gli ultimi cinque gradini che lo separavano dalla
fontana e dal ballo, mentre il brano si avviava alla fine. Come per abitudine,
quasi senza volerlo, osservò il finale che le coppie stavano delineando e pensò
che quella sera si annunciasse bene, c’erano buoni ballerini: quasi tutti
avevano chiuso l’ultima figura, sull’ultima nota del tango ed alcuni anche molto
bene. Come molte altre sere, come ogni volta che entrava in una milonga, provava
una strana aspettativa. Forse perché ogni sera è un mistero, ogni notte ti può
regalare i tanghi che preferisci ed una nuova ballerina con cui condividerli.
Il gruppo più folto era tutto intorno alla fontana, il cui bordo molto ampio,
serviva alle donne da seduta. Vide alcuni tedeschi, distinguibili dal colore dei
capelli, venati di ciocche biondissime e dal colore acceso della pelle più
propensa alla scottatura che all’abbronzatura. Alcune donne francesi spiccavano,
nel gruppo, per la loro vitalità ed energia e tra queste, un poco discosta,
c’era lei.
Era alta, i capelli corti e di colore castano molto chiaro rimandavano, sotto la
luce dei lampioni, caldi riflessi luminosi; un leggero sorriso, nell’attesa di
un invito, indicava il piacere di essere lì quella sera.
Marco fu colpito da quel sorriso, era quello di una donna che sapeva di avere
fascino, fiera della sua bellezza, ma tratteneva pure una lieve e lontana
tristezza. Si avvicinò a lei, cercò i suoi occhi e, quando si avvide che anche
lei lo guardava, le rivolse un cabezeo, quel leggero movimento del capo in
direzione del ballo, che nel tango dà alla donna la possibilità di accettare o
di negarsi. Distogliendo gli occhi, non umilia con un rifiuto l’uomo che la
invita. Lei diede segno di gradire l’invito, muovendogli incontro verso la
Piazza, che quella sera si era trasformata in una pista da ballo. In quel
momento, la musica di un tango di Osvaldo Pugliese intitolato “A Evaristo
Carriego”, si diffuse nella notte, tra i ballerini e nelle vie che confluivano
nella Piazza.
Marco sentì come un presagio, il fatto che uno dei suoi tanghi preferiti
accompagnasse il suo primo ballo con quella donna sconosciuta. La guardò negli
occhi e nello stesso tempo con il braccio destro le cinse la vita. Risalì poi
più in alto e la sua mano trovò la pelle morbida lasciata scoperta dalla
scollatura del suo vestito rosso, le sue dita sentirono i muscoli e la leggera
tensione del dorso, forse dovuta al primo ballo della serata.
Stese verso l’esterno, lentamente, il braccio sinistro a cercare la sua mano, a
trovarla intenta a cercare la sua e la strinse leggermente formando così un
semicerchio. Unito a quello formato dalle braccia di lei, completò il circolo
ideale in cui si muovono i ballerini di tango. La serrò nell’abbraccio e sentì
subito che il corpo di lei aderiva al suo, che lei si abbandonava all’attesa
delle sue proposte: percepì attraverso la pelle che lei era pronta. Ruotò
leggermente il corpo di lei verso destra e poi verso sinistra, per conoscere le
sue reazioni, poi le infuse di colpo tutta la sua energia.
Iniziò con un’ampia apertura della gamba a sinistra per seguire lo stesso ampio
crescendo della musica: poi via con la salida, l’uscita della gamba destra in
avanti ed all’esterno della donna. Il momento della verità nel tango, in cui si
può capire l’intesa che si creerà tra i due. Ancora un passo, un altro e lei va
al cruze, quasi il simbolo del tango, il suo piede sinistro incrocia il destro
in un piccolo controtempo, prima che il destro riparta ancora all’indietro: in
una camminata lenta e marcata, un passo ad ogni battuta del brano, dall’apertura
del pianoforte che lascia poi il posto ai violini, sino all’irrompere del
bandoneon.
Seguendo il suo fraseggio con passi lunghi e drammatici, sedici passi per sedici
battute ed è ancora il pianoforte a smorzare la tensione, a riportare la pausa.
Un lento ruotare indietro ed intorno a lei che fa da perno, lasciando nel
contempo che il capo e le spalle restino vicini. Allontanare il resto del corpo
lentamente, fino a formare un arco nel quale lei sembra quasi all’estremo punto
di equilibrio, sembra piegarsi in avanti ma è solo il caricamento di una molla
il cui rilascio cederà l’energia per la successiva partenza. Il suo piede si
insinua tra i suoi, si arresta contro il destro, attende il cambio del peso per
sospingerlo indietro in una barrida sensuale carica di “presenza”, il gioco si
ripete, il pianoforte ed il bandoneon si alternano nel fraseggio, il colore
della musica va verso il rosso vermiglio, l’ocra, il bruno.
Poi un leggero controtempo e lei parte in un lento e sinuoso disegnare
all’indietro, e sul pavimento, una serie di otto. Uno, due otto che sono
interrotti solo dall’incontro con il piede di lui che, in un dialogo muto, le
propone l’arresto; in quella posa carica di aspettativa, la gamba sinistra di
lei tesa in avanti, l’altra piegata un poco indietro. La risposta della donna
alla sua proposta, può esprimere la sua reazione all’interruzione degli otto,
quello che prova nel ballare con lui, oppure la sua seduzione, perché quello è
il suo spazio. Lei spostò il peso sul piede sinistro e delineò con il destro sul
pavimento un lapis, un ampio cerchio ad incontrare il piede arretrato di lui,
risalì lungo la gamba in una carezza sensuale che pareva voler dire mi hai
fermato ma ho capito, anche io so giocare a questo gioco. Dopo un lieve tocco
d’intesa, lo scavalcò ritornando poi a lui ed alla sua frontalità con un ocho
cortado, un otto dimezzato, che aveva la grazia di un passo di danza classica.
La sua tensione si sta sciogliendo – pensò Marco – il suo dorso sta
riacquistando morbidezza e risponde benissimo ai lievi segnali che le trasmetto
con la mano. Siamo riusciti a stabilire subito un’intesa. Vai allora, guarda
avanti e intorno, cerca uno spazio tra i ballerini, anche se il suo capo, sulla
destra, ti toglie un poco di visuale; ma ecco che lo piega leggermente in
avanti, a sfiorare la mia guancia, sarà solo un caso? Non ti distrarre pensa a
guidarla, alle figure da proporle. Mio Dio, questa donna balla benissimo!
Avanti ancora, sul tempo della musica, ogni passo ed ogni figura hanno sempre un
solo peso, un solo piede è in appoggio ed il cambio da un passo all’altro, da
una figura all’altra fa, per un istante, sentire anche il peso di lei. Ed è
bellissimo, quasi inebriante, questo continuo passaggio dalla quiete al
movimento, sentendo con tutto il corpo lei, il pavimento, gli altri ballerini e
la musica, la musica tutta intorno. Provare quanto c’è di più raro nel tango:
l’intesa perfetta.
Emozionato da questo pensiero, assecondò dolcemente il finale del brano con un
semplice passo indietro e, portandola in avanti verso di sé, ruotò un poco in
una quebrada, una torsione che le fece posare tutto il corpo contro il suo.
Sentì, in quel chiudersi del tango, la rara, meravigliosa sensazione di
completezza fisica, come se le due metà di una moneta, a lungo separate,
ricongiungendosi avessero finalmente ritrovato il loro valore originale, la loro
funzione. Pensò che fosse incredibile, ogni parte del suo corpo, veniva
completata dal corpo di lei, come se la sua figura fosse stata disegnata e
realizzata sul progetto del corpo di lei.
La guardò negli occhi ma lei non rispose al suo sguardo, teneva ancora lo
sguardo sul suo petto, come è d’uso per la donna nel tango.
Cosa sto facendo – si disse – pur avendo già sciolto l’abbraccio le tengo ancora
la mano, è meglio che la lasci. Vorrei parlarle, dirle molte cose ma non c’è
tempo, questo è un altro brano, ancora Pugliese è “La Yumba”. La riprese tra le
braccia e sentì che anche per quella sconosciuta signora francese era bello
ritrovarsi nell’abbraccio, lo sentì dal leggero tremore della mano racchiusa
nella sua, sperò che anche lei avesse provato almeno una parte di quello che
provava lui. Ancora emozionato, iniziò a portarla in avanti, voleva riprovare
ancora quanto aveva vissuto in quei primi tre minuti di movimento, conoscenza,
comunicazione.
Tre minuti di una storia che può essere, se si è abbastanza fortunati da
capirlo, una metafora della vita. Un uomo ed una donna, che non si conoscono, si
incontrano nell’abbraccio e cercano, attraverso la propria sensibilità, di
realizzare insieme una cosa meravigliosa: l’intesa che consenta loro di
costruire la Bellezza.
Vorrei baciarla ora e subito, sull’angolo delle labbra, pensò. Alla luce del
lampione che li sovrastava, sembravano piene, leggermente aperte, invitanti.
Ma il respiro di lei nel movimento, era come un soffio leggero, un sottile
ansimare e si intenerì, l’impulso di baciarla si stemperò lentamente nella
dolcezza che quella donna gli ispirava.
Sotto la sua mano sentiva quel corpo asciutto, compatto nella sua morbidezza,
sempre in equilibrio in ogni figura, che fosse allacciata o discosta da lui:
pensò che probabilmente in passato avesse fatto molta danza. Quando le sfiorava
il collo con le labbra, sentiva il suo profumo francese, leggermente speziato,
arancio e forse cardamomo, che mischiandosi alla leggera traspirazione lo
eccitava straordinariamente. Provava per lei passione e tenerezza.
Si rese conto che in quella notte magica, la Piazza li aveva voluti e attirati e
non solo per ballare un tango. Il loro muoversi nella musica, pareva sempre più
un rituale nel quale il dare e ricevere emozioni fosse il preludio ad una messa
in scena più importante. Per il resto del brano, si lasciò portare da
quell’emozione, seguì la musica proponendole i passi che l’istinto ed il senso
del tempo gli suggerivano, per sottolineare tutte le variazioni del tango. Fu un
istante stupendo, a Marco sembrò che sulla Piazza non ci fossero che loro, che
tutta Avignone sospendesse per un poco il respiro: sentì che in quella notte
tutto gli sarebbe stato concesso e si spinse, alla fine del tango, a dimostrarle
in modo più completo quanto provava in quel momento. Sciogliendo l’abbraccio non
lasciò la sua mano ma, descrivendo un piccolo arco, la portò alle labbra e
guardandola negli occhi la baciò.
* * *
A questo punto, il mio lavoro è terminato, a Marco ed Anne vivere il loro
futuro; a me resta solo una cosa da fare, presentarmi.
Sono nato sulle due sponde opposte di un fiume, così grande da sembrare un mare.
Un fiume il cui nome, Rio de La Plata, può evocare i riflessi argentei della
luna oppure, più prosaicamente, il Fiume d’Argento che i conquistadores spagnoli
speravano di trovarvi.
La mia nascita è piena di misteri: il primo è il luogo, che potrebbe essere
Buenos Aires o Montevideo, due città che si contendono l’onore di avermi dato i
natali, il secondo è il nome che ancora oggi non ha certezza di origine.
Emerge dalle nebbie di un passato in cui gruppi di neri, intorno al fuoco
notturno, festeggiavano e ballavano mentre, sullo sfondo, la maestosità del
lento scorrere del fiume, poteva far rimpiangere loro i fiumi africani da cui
provenivano.
Due sillabe compongono il mio nome, e già in questo c’è il presagio del ritmo,
del tempo musicale, del compas, due sillabe che scandiscono il battere di un
tamburo anche lui deportato dall’Africa nera.
Candombe, si chiamava mio padre, un tam tam, un ballo, che portava i ballerini a
chiedere ai musicisti “tocà tanbò” suona il tamburo e quando il ritmo partiva,
era facile sognare le calde notti africane, i fiumi, la libertà perduta.
Più tardi, sempre su quella riva del fiume, forse si erano trovati alcuni
musicisti dotati, in vena di sperimentare, un violino, un clarinetto una
fisarmonica oppure una vecchia chitarra, uno di loro ha udito un candombe ed
inizia ad accennarlo, un altro ha buona memoria e conosce l’habanera spagnola
(mia madre). I due fraseggiano tra loro fondendo i due ritmi.
Un terzo che conosce la milonga locale (mia zia), si unisce ed inizia il mio
concepimento prendendo forma dalla nostalgia della libertà perduta degli schiavi
neri e dalla tristezza degli emigranti.
Europei di tutti i paesi, italiani, spagnoli, francesi, tutti danno il loro
contributo di note, ritmi, parole, alla mia formazione.
La milonga, aveva già iniziato ad animare le feste ed alla voglia di cantare si
univa la voglia di ballare; su questa musica, giocosa, festosa, suonata da
chitarre, violini, persino pettini con carta, si poteva dare sfogo ai sentimenti
liberamente.
Nella città i suonatori di organetto mischiavano la milonga all’habanera
portandola nei bordelli, nei mercati, per la strada.
Sul Rio de La Plata, le camere che alloggiavano le donne dei carrettieri, un
misto di tutte le razze locali e immigrate, divennero nelle notti di festa i
luoghi in cui la mia forma si delineava sempre più, un laboratorio spontaneo che
unendo note, movimento e caratteri avrebbe fatto di me quello che sono.
I marinai francesi portarono il loro contributo con la contradanza un ballo che
derivando dalla polka e mazurca, teneva la coppia più stretta.
Dapprima per schernire ed imitare, esagerandolo, il ballo dei negri, poi sempre
più autonomamente, nel momento in cui la prima coppia decise di eliminare la
distanza, divenne naturale procedere con l’uomo che avanzava, anziché
indietreggiare, un passo avanti all’altro, con movimenti sincopati, interrotti e
poi ripresi sempre marcati, si chiamò canyengue, il mio fratello mag-giore.
Era spontaneo, i passi si facevano alzando i piedi perché il pavimento era la
terra battuta, non si poteva scivolare. Era anche molto informale, non aveva
l’eleganza e la postura che avrei acquisito, insieme al cugino vals, sui
pavimenti dei migliori locali da ballo di Buenos Aires, più tardi.
Qualcuno ora dice che sono triste e forse è vero; ero nato allegro, il candombe
e l’habanera lo sono, ma tutta quella sofferenza che si riversava in me, dai
mille rivoli della lontananza e della nostalgia mi cambiarono poco a poco fino a
che Enrique Santos Discépolo, il mio poeta preferito poté esclamare:
«Un tango può essere scritto con un dito, ma ci vuole anche l’anima;
un tango è l’intimità più segreta, è il grido che si innalza, nudo».
Tocà tanbò, tocà tanbò, ero nato.
Il mio nome è Tango.
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