«Olindo Pardini. Presente!»
Così si presentava sempre mio zio, o meglio il marito di mia zia, tutte le volte
che qualcuno lo chiamava. Era uno cui piaceva scherzare, specialmente con noi
ragazzi, e più diventava vecchio più gli piaceva parlare e intrattenerci sul suo
passato in tempo di guerra. Anche perché del periodo post-bellico non aveva
molto da raccontare, o meglio nulla che secondo lui potesse infiammare la nostra
curiosità di ragazzi. Chissà se era poi tutto vero quello che ci raccontava. Noi
lo chiamavamo lo “zio partigiano”, perché avevamo capito che gli faceva piacere
essere chiamato così.
Di origine era toscano, veniva dalle parti della Versilia, e all’inizio noi
ragazzi ci interrogavamo curiosi su come fosse riuscito ad arrivare nelle valli
bergamasche e a sposare nostra zia, che da giovane doveva essere molto bella e
già piena di spasimanti. Lui ci rispondeva a modo suo: «La guerra, ragazzi. La
guerra porta tante cose brutte ma riserva anche qualche bel fiore come vostra
zia Anita. E poi io ero bellissimo e per di più forestiero. Volete mettere a
confronto un toscanaccio come me con i ragazzotti bergamaschi che ronzavano
attorno all’Anita di allora? Volete mettere a confronto come parla bene e come
sa far l’amore un toscanaccio come me rispetto ai contadini montanari delle
vostre parti? Ovvìa, ragazzi, codesta è la domanda?»
Quando terminava con questa espressione, sempre la stessa, detta a proposito o a
sproposito, voleva dire che aveva concluso il suo discorso e non c’era più verso
di farlo proseguire. Era il suo modo categorico e originale di dirci: ragazzi,
che domanda mi fate? questa è la vita e non ci si può fare niente.
Zio Olindo era arrivato dalle nostre parti prima dell’estate del ’44, non ancora
ventenne, al seguito di un piccolo gruppo di partigiani, per costituire “una
cellula di collegamento con la più esperta brigata partigiana della Toscana”,
come sosteneva lui. Ci diceva sempre che era sfuggito, allora e per poco, ad un
orrendo massacro perpetrato dai nazi-fascisti. E qui chiudeva il racconto con la
solita frase, senza mai aggiungere altri particolari, tant’è che noi ragazzi ci
credevamo sì e no, inconsapevoli di quello che era veramente successo sulle
montagne dell’Appennino tosco-emiliano in quegli anni terribili. Pensavamo fosse
una delle tante storie che zio Olindo sapeva raccontare così bene da farci
restare sempre a bocca aperta. Poi qui conobbe mia zia e non se ne andò più.
Legò in modo straordinario con tutta la parentela di taciturni bergamaschi che
si trovò intorno, lui così loquace e ciarliero come pochi. Per me, poi, zio
Olindo sembrava avesse una predilezione particolare.
Così, mi spiacque moltissimo quando anch’io come lui, un giorno, dovetti partire
dalla mia terra, a causa del lavoro di mio padre, senza farvi ritorno per
parecchi anni. Ma tutte le volte che lo rivedevo, zio Olindo mi abbracciava e mi
baciava come fossi suo figlio, lui che di figli non ne aveva potuti avere a
causa, credo, di qualche problema della zia. E più invecchiava, più sembrava
affezionarsi a me. Poi il caso volle che, ormai laureato e specializzato,
trovassi lavoro in un ospedale a pochi chilometri dal mio paese d’origine e
così, dopo quasi vent’anni di sporadici rimpatri a Natale o d’estate, potei
tornare a gustare con più assiduità le storie dello zio partigiano, che col
tempo non avevano per nulla perduto di vivacità e fantasia e che sempre si
concludevano allo stesso modo: «Ovvìa, ragazzo, codesta è la domanda?»
Sembrava che nulla fosse cambiato con gli anni, anche se io non ero più il
ragazzo di allora e lui non era più lo scanzonato zio Olindo di un tempo. Io mi
dedicavo troppo al lavoro e troppo poco a coltivare un amore che fosse
definitivo. Lui si mostrava sereno ma intristiva sempre di più dopo la morte
della moglie. Anche la salute lo stava abbandonando. Solo la saggezza sembrava
aumentare in lui insieme con l’età. E non è una frase fatta.
Un giorno mi trasse in disparte e mi disse in tono serio: «Ragazzo, sento che mi
resta poco da vivere e avrei un desiderio che ho rimandato per troppo tempo.
Vorrei che fossi tu ad aiutarmi a realizzarlo. Tu sei medico, le capisci certe
cose. E poi… tu sei tu. Ovvìa, codesta è la domanda!»
Era vero che aveva poco da vivere: da qualche mese gli avevano diagnosticato un
tumore allo stomaco, giudicato oltre i limiti di operabilità per metastasi
epatiche e carcinosi peritoneale. Si era anche deciso di non sottoporlo a
chemioterapia, vista l’età e i problemi cardiaci di cui soffriva e visto lo
scarso beneficio che ne avrebbe ricavato. Fui anch’io d’accordo col chirurgo e
con l’oncologo che l’avevano seguito in ospedale. Ora era affidato alle ben
poche cure possibili del suo medico di famiglia e mie ed alle ben più importanti
attenzioni di tutta la famiglia allargata, della quale si era conquistato un
affetto incondizionato e duraturo. Volle essere messo a conoscenza del suo vero
stato di salute e ne parlava liberamente, riuscendo a volte anche a scherzarci
sopra o ad imbastirci una storia delle sue, soprattutto quando riusciva a bere
di nascosto un bicchiere del suo rosso toscano, cosa di cui tutti fingevamo di
non accorgerci.
«Se questa è la domanda, zio Olindo, è già pronta la risposta: chiedimi tutto
quello che vuoi.»
«Questa volta non scherzo, ragazzo. Vorrei portare un mazzo di rose ad una
persona che sta a più di trecento chilometri da qui e vorrei che tu mi
accompagnassi.»
«Ma, zio, nel tuo stato di salute…»
«Conosco benissimo il mio stato di salute e tu lo sai. Questo è uno dei motivi
per cui vorrei tu venissi con me, ma il motivo vero è un altro: questo viaggio
farà bene alla mia anima e spero un poco anche alla tua. Ovvìa, codesta è la
domanda!»
Il tono delle sue parole era stranamente duro ma estremamente dolci e
convincenti furono i suoi occhi e la carezza che mi fece sulla guancia con la
sua mano rugosa. Ne fui commosso, appoggiai la mia mano sulla sua e risposi:
«Certo, zio Olindo, dimmi solo quando e dove.»
«Fra qualche giorno, il prossimo Primo Maggio. A Sant’Anna di Stazzema.»
Fu un viaggio allucinante e straziante allo stesso tempo.
Partimmo solo lui ed io, non volle nessun altro al seguito. Partimmo presto.
Ancora lo vedo già pronto sulla soglia di casa, col vestito scuro che gli
ballava addosso: probabilmente erano anni che non lo indossava ed ora gli stava
troppo largo, visto il suo recente dimagrimento dovuto alla malattia. Si
appoggiava al bastone con la sinistra mentre teneva con la destra un mazzo di
rose rosse bellissime appoggiato al petto. Mi fece tenerezza, sembrava stesse
abbracciando una donna con una nuvola di capelli rossi in testa. Glielo dissi,
scherzando, appena si fu sistemato con un po’ di fatica sul sedile anteriore
dell’auto e lui rispose: «È così!» e non aggiunse altro. Anzi, per quasi un’ora
di strada non proferì parola, se non per rispondere a monosillabi ai discorsi
che inventavo sul momento, tanto per distoglierlo da quella specie di torpore
che sembrava averlo assalito dall’inizio del viaggio. Non era da lui comportarsi
così, non sembrava più lo zio partigiano di sempre.
Poi, all’improvviso, ruppe il silenzio: «Non mi hai ancora chiesto cosa ci
andiamo a fare a Sant’Anna di Stazzema.»
«Aspettavo fossi tu a dirmelo, zio. Mi sono documentato su Sant’Anna, sai?, in
particolare sull’eccidio che ci fu il 12 agosto del ’44. Ci furono 560 morti, se
non ricordo male, in gran parte vecchi, donne e bambini, massacrati e bruciati
dai tedeschi. Ho pensato che tu avessi qualche parente fra di loro, visto che
sei originario di quei luoghi. Ho anche letto che la vittima più giovane, non
ricordo bene se aveva 2 anni o addirittura 20 giorni, si chiamava Pardini di
cognome, proprio come te, Anna Pardini. Ho supposto fosse una tua parente. Anche
se, a dire il vero, mi è sembrato strano che tu non avessi mai accennato
direttamente all’eccidio di Sant’Anna nelle storie che ci raccontavi da
ragazzi.»
«No, non era mia parente.»
«Allora non capisco…»
«Ti spiegherò a suo tempo. Codesta è la domanda!»
E tornò col solito intercalare a chiudere ogni discorso sull’argomento. Ci
fermammo a bere qualcosa in un autogrill sulla Cisa. Io presi un caffè, comprai
La Repubblica e l’ultimo romanzo di Camilleri. Zio Olindo non volle nulla, solo
un bicchiere d’acqua naturale, che sorseggiò lentamente, non risparmiando un
commento sul mio acquisto. «Robaccia», disse. «Quello lì non sa neanche scrivere
in italiano. Come fa ad avere successo e a piacerti?»
«Codesta è la domanda?» risposi io sorridendo e prendendolo sotto braccio per
ritornare alla macchina. «In fondo voi due, intendo tu e Camilleri, siete fatti
della stessa pasta: raccontate un sacco di storie che piacciono tanto a noi
comuni mortali privi di fantasia. Con una differenza: tu lo fai con un
bellissimo accento toscano e senza guadagnarci un euro, mentre lui le scrive in
un siciliano tutto suo e si porta a casa un mucchio di soldi.»
«Non prendermi in giro, ragazzo. Sono ben più vecchio di te» concluse zio Olindo
con malcelata soddisfazione.
Ripartimmo verso Sant’Anna in un clima più sereno. Lo zio divenne un po’ più
loquace ma non nel senso che intendevo io. Quasi all’improvviso, cogliendomi di
sorpresa, mi chiese: «Tu, piuttosto, ragazzo, quando pensi di mettere la testa a
posto? Quando ti decidi a sposare la tua compagna? Questa Vanna mi sembra una
ragazza per bene. E io me ne intendo di ’ste faccende. Ovvìa, codesta è la
domanda!»
Non era in realtà la prima volta che zio Olindo mi provocava bonariamente su
questo argomento. Io tergiversavo sempre e anche stavolta dribblai rispondendo:
«Non sono mica tutte come la zia Anita, no? È vero, Vanna è una brava ragazza e
meriterebbe anzi qualcuno migliore di me. Vedremo…»
Nel frattempo giungemmo all’uscita dell’autostrada e questo mi permise di
cambiare argomento: «Ecco l’uscita di Versilia. Quasi siamo arrivati, zio. Come
ti senti?»
«Fisicamente un po’ stanco ma sono felice di essere qui. Ci saranno ancora una
decina di chilometri per Sant’Anna.»
Furono dieci chilometri di una strada di montagna tutta curve ma molto
panoramica e bellissima, resa ancora più bella da una splendida giornata di
sole. Di nuovo zio Olindo si chiuse in un assorto silenzio: di lui parlavano
soltanto gli occhi fissi verso l’alto.
«Eccola!» disse indicandomi con mano tremante un vecchio campanile quadrato che
spuntava in mezzo al verde degli alberi. «Quello è il campanile della chiesa di
Sant’Anna di Stazzema.»
Parcheggiammo in uno spiazzo intitolato proprio ad Anna Pardini e ci avviammo a
piedi verso la chiesetta davanti alla quale furono trucidati tanti innocenti in
una calda mattina d’agosto del ’44.
Zio Olindo camminava con un certo sforzo, appoggiandosi al bastone, ma cercava
di stare ritto sul busto. Volle che fossi io a prendere il mazzo di rose che
aveva portato. C’era altra gente in giro, giovani coppiette e un gruppo di
uomini e donne che portavano un vessillo dell’ANPI di non so quale paese e
parlavano e discutevano a voce alta.
«Bestie», disse zio Olindo con una smorfia, «questo luogo merita rispetto e
silenzio!» Attraversammo il prato antistante la chiesa ed entrammo. Lo zio, dopo
un attimo di esitazione, si diresse subito alla parete di destra, dov’era appeso
un cartellone con vecchie fotografie delle vittime di Sant’Anna e, subito dopo,
un altro con un elenco di nomi. “Elenco incompleto”, dicevano i cartelloni. Zio
Olindo sostò davanti alle foto per lunghissimi minuti, osservandole una per una
e fermandosi in particolare sull’ultima fila in fondo. Poi si rivolse a me,
sussurrando con un filo di voce: «Ragazzo, scegli la rosa più bella.» Gliene
porsi una bellissima e lui si chinò piano piano a deporla per terra. Si rialzò a
fatica e, senza dire una parola, si diresse lentamente all’uscita, con cent’anni
di più sulle spalle e nelle gambe. Vidi una lacrima rigargli il volto e sparire
all’angolo della bocca.
Si fermò sulla soglia, trasse un sospiro profondo e disse: «Andiamo al museo.»
Mi appoggiò una mano sulla spalla e in silenzio ci avviammo verso la vecchia
scuola elementare dov’è stato ricavato il Museo Storico della Resistenza
toscana.
Zio Olindo si fermò un momento all’esterno, davanti alla riproduzione in bronzo
di un particolare di “Guernica” di Picasso, lesse attentamente la lapide con le
parole di Pietro Calamandrei “al camerata Kesselring”, annuendo di tanto in
tanto in segno di approvazione, e ripeté: «Ora e sempre Resistenza. Codesta è la
domanda!»
Entrammo e ripercorremmo insieme, attraverso le immagini e i documenti e le
fotografie della mostra, tutte le fasi della Resistenza in Versilia e dintorni.
Zio Olindo si soffermò in particolare sulle foto dei partigiani, forse ne
riconobbe qualcuno ma non disse nulla. Alla fine lesse, una per una, anche se
presumo le conoscesse già, tutte le storie e le testimonianze dei sopravvissuti,
inquadrate in pannelli rossi e intercalate a gigantografie di volti di vecchi e
vecchie che, ad un tratto, in una specie di sovrapposizione cinematografica di
immagini, mi parvero tutti uguali tra loro e tutti tremendamente simili al volto
di zio Olindo!
Uscimmo dal museo visibilmente stanchi e provati, quasi stravolti, io più di
lui. Non c’eravamo neanche accorti che erano le due e non avevamo mangiato
niente dal mattino. Lasciai lo zio seduto sul muricciolo davanti al prato della
chiesa ed entrai in una piccola bottega d’altri tempi, dove non trovai di meglio
che una focaccia toscana e una bottiglia di acqua naturale per rifocillarci un
poco prima di ripartire. Zio Olindo si limitò ad assaggiare di malavoglia la
focaccia (era da tempo che il suo stomaco malato rifiutava il cibo) e disse:
«Voglio andare all’Ossario.»
Cercai invano di protestare. Ottenni soltanto di poterci andare in auto (ci
voleva un permesso che ebbi facilmente), senza dover percorrere a piedi la
stradina lastricata che, attraverso il bosco, porta lassù all’Ossario e che
viene chiamata Via Crucis, perché accosta il calvario di Cristo al calvario di
tante vittime innocenti di ogni guerra e di ogni violenza.
Fu l’ultima sosta di zio Olindo, davanti ad un’alta torre in pietra messa lì a
proteggere un gruppo scultoreo adagiato su una grande urna, che rappresenta un
uomo, una donna e un bambino avviluppati tra loro in un abbraccio mortale, con
gli occhi e le bocche urlanti dal terrore, come in un’istantanea scattata un
attimo prima di essere orrendamente trucidati.
Zio Olindo depose le sue rose sopra il monumento, tra la madre e il bambino. Poi
si sedette su un gradino, allargando lo sguardo alle montagne e alle pianure
intorno a noi, e iniziò a parlare, quasi a stento, a fatica, fermandosi spesso a
riprendere fiato. Capivi che non era colpa del suo fisico malato, ma era
l’emozione di un’anima, era il cuore di un uomo che ritrova se stesso dopo tanti
anni e rivive i luoghi e le persone e i fatti che l’hanno drammaticamente
colpito e maturato.
«Sono nato in questi posti e vi avevo trovato l’amore. La mia donna era una di
quelle che hai visto in fotografia, laggiù nella chiesetta, dove ha trovato la
morte. Una di quelle dell’ultima fila in fondo. Una di quelle uccise col bambino
in grembo…»
Zio Olindo si interruppe per un tempo che mi parve infinito. Non osai guardarlo
in viso, mi sedetti anch’io sul gradino accanto a lui, volgendo lo sguardo alle
pianure e alle montagne, che sembrarono all’improvviso scomparire dietro un velo
leggero di nebbia. O forse erano solo lacrime quelle che ci offuscavano la
vista.
«Non l’ho mai detto né alla zia né a nessun altro. Non sono più ritornato qui se
non una volta sola, di nascosto, subito dopo la guerra, per avere la certezza
ch’eran tutti morti. Poi non ne ho più avuto il coraggio.»
Si fermò di nuovo, lo sguardo fisso all’infinito e le mani nervose sul pomo del
bastone. «Non potevo non tornare a Sant’Anna almeno una volta ancora. Ora sono
in pace con me stesso e con i miei morti. Ti ringrazio di tutto, ragazzo.»
Un petalo di rosa si staccò e planò lentamente ai suoi piedi.
«Non ho paura di morire, perché ho sempre avuto la morte vicina, fin da
giovane.» Altra pausa. «Ora sono come questo petalo di rosa, mi manca poco a
staccarmi dalla vita e a volare via…»
«Zio…» mormorai in un singhiozzo, «codesta è la domanda?»
«Già,» rispose, «codesta è la domanda! Ora sono pronto a rispondere anche a Dio,
e a gridargli forte: Olindo Pardini? Presente!»