21° Premio Letterario Penna d'Autore - Sezione Racconti: Gianfranco Andorno

 

TERZO PREMIO - SEZIONE RACCONTI

GIANFRANCO ANDORNO (Genova)

OH FELICINA!

Eh Giovanni non c’è più, il mio Giovanni. Aveva dei mancamenti, si riprendeva subito e si fingeva assorto per non preoccuparmi. Testardo, non voleva andare dal dottore. Mi diceva: «Ormai siamo vecchi, e la morte è come la grandine. Nessuno la chiama eppure viene e si porta via tutto. Cosa ci puoi fare? Fa parte della vita». Fatalista.
Vecchi, vecchi siamo, e aveva ragione: la vita è corsa più in fretta del treno sul ponte grosso. Quel ponte da dove Giovanni, ragazzo, lanciava i gatti che, dopo il gran salto, fuggivano per i prati.
Sono nata nella stalla perché l’inverno era gelido e, per l’alitare delle mucche e dei buoi, era il posto più caldo. Sono nata lì, così raccontava mia madre. A terra un tappeto di paglia e fuori i mucchi di letame che fumavano come le pipe dei nonni. Mi hanno chiamata Felicina, per buon augurio.
Ragazzina, già aiutavo i miei a rastrellare il fieno nei campi, a mungere le bestie. Andavo al lavatoio e sbatacchiavo con forza le lenzuola dopo averle strofinate con la cenere. Una volta mi sono protesa troppo, ho perso l’equilibrio, ci sono finita dentro. Mi hanno ripescata zuppa zuppa. Da strizzare!
Ogni anno la festa dei coscritti, della leva militare. Per tre giorni, con il fazzoletto al collo, si girava. Di casa in casa. E ci stappavano le bottiglie impolverate, quelle delle annate buone. Perché la vigna è incostante come noi donne, diceva Giovanni. Nell’occasione era concesso, a noi femmine, di stare con i maschi. Mi ero fatta bionda, con l’acqua ossigenata, un pasticcio. Mia madre e il curato mi avevano sgridata.
E poi, alla ricorrenza del santo, tutti sotto il tendone a ballare. Con il clarino e la fisarmonica che scodellavano valzer e mazurke: e gira gira… Giovanni mi ha fatto girare la testa. Lo conoscevo bene. Abitava poche case più in là, verso la provinciale. Un bel giovanottone Giovanni, che zappava con vigore, quasi cercasse un tesoro in quella terra ostile, così restia a rilasciare la sua ricchezza.
In chiesa, alla messa, io stavo davanti all’altare con le coppie sposate, mentre i giovani ancora fantini sostavano dalla parte della sacrestia. Giovanni lo vedevo che mi fissava e io abbassavo la testa, malvolentieri. Se don Berto mi avesse visto…. guai! Mi avrebbe fatto recitare tutto il rosario.
I ricordi… i ricordi sono dolci come il miele che cola dalle arnie ma se ti ci perdi ronzano e pungono più delle api.
Il mio matrimonio con Giovanni una gran festa. Tra gli invitati perfino il signor padrone della fornace e persone che abitavano oltre la collina. E gli scherzi… Sotto le lenzuola avevano infilato un coniglietto. Io pur avvezza con gli animali, come ho sentito grattare le gambe mi sono spaventata ed ho strillato. Noi, Giovanni ed io, timidi in camera: quatti quatti. E quelli sotto, nell’aia, a cantare e schiamazzare. A ballare con la luna e il coro dei cani sgolati, strozzati dalla catena. Allegria, allegria! Qualche parente si è inciuccato.
In viaggio di nozze siamo andati da certi cugini in una città di mare. Solo per qualche giorno, non potevamo abbandonare le bestie, la semina. D’altronde, tutta quella distesa d’acqua mi metteva malinconia. Sognavo che le onde, con il loro andirivieni arrabbiato, ci rubavano la terra, un incubo. Non vedevo l’ora di tornare a casa. Ed anche Giovanni perché, per il cambiamento d’aria, aveva sempre mal di testa.
Da sposata, una volta alla settimana, mi recavo al forno a cuocere il pane. Avevo imparato i trucchi. Non si doveva andare presto perché il forno, acceso per tutti, era ancora freddo e affumicante. E neppure tardi: c’era troppa fiamma. Allora le pagnotte potevano uscire crude o bruciate.
Giovanni mi mancherà nel letto. Appena coricati stringeva la mia mano mutilata da quella falciatrice diavola, a darmi coraggio. Poi si girava e russava che mi sembrava di dormire sotto il ponte grosso, con le locomotive Asti-Torino a soffiarmi addosso.
Se restavo sveglia se ne accorgeva… e dopo la disgrazia, dopo che avevo perso il bambino, non dormivo più. Stavo lì a pensare, a pensare. Quando l’hanno portato via, avvolto nei panni, mi sembrava un pane non lievitato. Non ci avevamo messo abbastanza lievito, abbastanza amore?
E nella notte c’era il salice che per le spinte del vento si lamentava, gemeva, sembrava il piagnucolio del mio bambino. Giovanni mi aveva guardato e senza che gli dicessi niente si era rizzato. Era sceso e presa l’ascia aveva abbattuto la pianta. Ingenuo e buono credeva così di toglierci il dolore d’attorno.
Il prete, un po’ stanco delle mie lagne, infine aveva detto che era stato Dio a volere un angioletto, mi dovevo rassegnare. E poi ero una giovane donna: che ci riprovassi! Sono andata al santuario, ho fatto un voto, ed è nato Domenico.
Durante la gravidanza sono stata più riguardata, evitavo la fatica nei campi. In quell’ozio forzato, supina, ho scoperto una grossa macchia nel muro del fienile dove c’era un tralcio di frola, di uva americana. L’avevano spruzzata di verderame e negli anni il colore era sbiadito, assumendo un bell’azzurro. E a fissarlo ci trovavo un pezzo di cielo sereno, ed anche il manto della Madonna della cappelletta.
Com’è passata in fretta la vita! Un calendario fatto non dai fogli appesi ma dalle stagioni che si rincorrono, si prendono a calci.
Adesso è tutto cambiato. Prima c’erano le tampe, pozze d’acqua ferma che di notte ribolliva ed era tutto un gracidio. Ora hanno fatto le piscine ma una coltre di mosche e farfalle annegate ricorda che siamo in campagna. E quel blu dipinto sul fondo che si rispecchia… è finto. Il nostro colore è il grigio. Quel grigio che con la nebbia s’ingoia, si mangia tutti gli altri colori.
Le strade erano di pauta, di fango e impastavano chi ci passava, anche le ruote delle biciclette. Adesso sono di asfalto lucido con la pioggia che scivola e scappa via.
Le cascine sono diventate ville. E i vicini ci hanno denunciato perché passando con i carri, davanti casa loro, cadeva un po’ di letame. È venuto il signor giudice a controllare il letame, la puzza. Giovanni mi ha ammonita di stare zitta ma non ce l’ho fatta. «Signor giudice è concime. Lo mettiamo anche nell’orto, a far crescere la verdura» ignorando le occhiatacce di Giovanni, la sua mano alzata a minacciarmi. «I signori sono di città - ho cercato di spiegare - queste cose non le sanno». E a concludere: «Siamo contadini». Non prepotente ma fiera.
Il giudice, arcigno e pensieroso, aveva assentito e poi sentenziato che potevamo passare con il letame perché, per l’appunto, eravamo contadini ma dosando la quantità.
Le cose sono così cambiate nel tempo che noi, rimasti a lavorar la terra, ci sentiamo statuine da presepio. Un tempo portavamo le mucche dal toro, scacciando i ragazzetti che volevano vedere. Ora infilano nella mucca un’asta lunga fredda ed è ingravidata. Ah sui documenti ci sono i nomi dei tori: Otello, Minosse. Ma le mucche non sanno leggere!
Un giorno ho lasciato il fuoco acceso, e sono uscita senza vestirmi, ma avevo un caldo e poi e poi… mi sarò dimenticata. Eh può succedere. Così mio figlio, Domenico, ha mandato una ragazza, una straniera. Irina, romena, per aiutarmi nelle faccende di casa.
Sulle prime averla sempre per casa auffa: un impiccio! E poi quando Irina abbracciava Giovanni e gli passava la mano sulla testa pelata, mi dava un po’ fastidio. Cos’è questa confidenza li rimbrottavo a bassa voce, quasi tra me. Irina lo abbracciava e rideva. Rideva sempre. Ma che c’era da ridere?
Giovanni mi capiva e sorridendo: «Potrebbe essere nostra figlia, che vai cercando?». Ringalluzzito da quella mia gelosia. Irina ci guardava interrogativa e poi mi accarezzava: «Felicina, mi ricordi la mia mamma».
Ma Giovanni se n’è andato, in punta di piedi per non dar fastidio, per non spaventarmi. E io sono sola… meno male che vengono a vendemmiare. Ah in quanti sono! E tutti a cantare festosi. Devo preparare la bagna cauda… «Felicina cosa fai? È notte. Riposa», mi sussurra Irina. I cori si sono zittiti all’improvviso, svaniti. Dicono che ho la testa in confusione.
La gente è cattiva. Dice che Domenico ha subito venduto le bestie, ma come avrei potuto accudirle? Che noi contadini non dovevamo far studiare i figli perché ora stanno in città, a fare i dottori, e la campagna va in malora.
Dicono che Domenico mi ha mandata all’ospizio. Ospizio? non sono mai stata così bene. È un albergo… non capiscono. Perfino imbarazzata a non far niente: mi sembra strano. Posso aiutare? Sì, la macchia celeste della nostra casa, mi manca, ma è eguale al mantello della Madonnina nel corridoio.
Il mio Domenico a fare la signora mi ha mandata! Voi siete come le civette che giocano a nascondino tra le pannocchie del granturco, e borbottano senza farsi vedere
E poi ecco Irina ed io sorpresa: «Irina ma che ci fai qui? Sei venuta a trovarmi? Grazie, grazie. Mi porti a passeggio?». E Irina: «Su Felicina, presto che partiamo. Mia madre ci aspetta al mio paese. Altro che passeggiata! Questa notte è venuto a trovarmi Giovanni e mi ha detto: “Oh non fare la sciocca. Vai a prendere la Felicina. Vuoi abbandonarla là dentro?”. “Ma io non so la lingua. Come faccio?”. “Non preoccuparti, le mamme s’intendono sempre!”».
La macchina era ricolma all’inverosimile. Cianfrusaglie. La radio accesa al massimo, un fracasso assordante, e Irina rideva rideva mentre l’ospizio, alle loro spalle, diventava sempre più piccolo.

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