TERZO
PREMIO - SEZIONE RACCONTI
GIANFRANCO ANDORNO (Genova)
OH FELICINA!
Eh Giovanni non c’è più, il mio Giovanni. Aveva dei
mancamenti, si riprendeva subito e si fingeva assorto per non preoccuparmi.
Testardo, non voleva andare dal dottore. Mi diceva: «Ormai siamo vecchi, e la
morte è come la grandine. Nessuno la chiama eppure viene e si porta via tutto.
Cosa ci puoi fare? Fa parte della vita». Fatalista.
Vecchi, vecchi siamo, e aveva ragione: la vita è corsa più in fretta del treno
sul ponte grosso. Quel ponte da dove Giovanni, ragazzo, lanciava i gatti che,
dopo il gran salto, fuggivano per i prati.
Sono nata nella stalla perché l’inverno era gelido e, per l’alitare delle mucche
e dei buoi, era il posto più caldo. Sono nata lì, così raccontava mia madre. A
terra un tappeto di paglia e fuori i mucchi di letame che fumavano come le pipe
dei nonni. Mi hanno chiamata Felicina, per buon augurio.
Ragazzina, già aiutavo i miei a rastrellare il fieno nei campi, a mungere le
bestie. Andavo al lavatoio e sbatacchiavo con forza le lenzuola dopo averle
strofinate con la cenere. Una volta mi sono protesa troppo, ho perso
l’equilibrio, ci sono finita dentro. Mi hanno ripescata zuppa zuppa. Da
strizzare!
Ogni anno la festa dei coscritti, della leva militare. Per tre giorni, con il
fazzoletto al collo, si girava. Di casa in casa. E ci stappavano le bottiglie
impolverate, quelle delle annate buone. Perché la vigna è incostante come noi
donne, diceva Giovanni. Nell’occasione era concesso, a noi femmine, di stare con
i maschi. Mi ero fatta bionda, con l’acqua ossigenata, un pasticcio. Mia madre e
il curato mi avevano sgridata.
E poi, alla ricorrenza del santo, tutti sotto il tendone a ballare. Con il
clarino e la fisarmonica che scodellavano valzer e mazurke: e gira gira…
Giovanni mi ha fatto girare la testa. Lo conoscevo bene. Abitava poche case più
in là, verso la provinciale. Un bel giovanottone Giovanni, che zappava con
vigore, quasi cercasse un tesoro in quella terra ostile, così restia a
rilasciare la sua ricchezza.
In chiesa, alla messa, io stavo davanti all’altare con le coppie sposate, mentre
i giovani ancora fantini sostavano dalla parte della sacrestia. Giovanni lo
vedevo che mi fissava e io abbassavo la testa, malvolentieri. Se don Berto mi
avesse visto…. guai! Mi avrebbe fatto recitare tutto il rosario.
I ricordi… i ricordi sono dolci come il miele che cola dalle arnie ma se ti ci
perdi ronzano e pungono più delle api.
Il mio matrimonio con Giovanni una gran festa. Tra gli invitati perfino il
signor padrone della fornace e persone che abitavano oltre la collina. E gli
scherzi… Sotto le lenzuola avevano infilato un coniglietto. Io pur avvezza con
gli animali, come ho sentito grattare le gambe mi sono spaventata ed ho
strillato. Noi, Giovanni ed io, timidi in camera: quatti quatti. E quelli sotto,
nell’aia, a cantare e schiamazzare. A ballare con la luna e il coro dei cani
sgolati, strozzati dalla catena. Allegria, allegria! Qualche parente si è
inciuccato.
In viaggio di nozze siamo andati da certi cugini in una città di mare. Solo per
qualche giorno, non potevamo abbandonare le bestie, la semina. D’altronde, tutta
quella distesa d’acqua mi metteva malinconia. Sognavo che le onde, con il loro
andirivieni arrabbiato, ci rubavano la terra, un incubo. Non vedevo l’ora di
tornare a casa. Ed anche Giovanni perché, per il cambiamento d’aria, aveva
sempre mal di testa.
Da sposata, una volta alla settimana, mi recavo al forno a cuocere il pane.
Avevo imparato i trucchi. Non si doveva andare presto perché il forno, acceso
per tutti, era ancora freddo e affumicante. E neppure tardi: c’era troppa
fiamma. Allora le pagnotte potevano uscire crude o bruciate.
Giovanni mi mancherà nel letto. Appena coricati stringeva la mia mano mutilata
da quella falciatrice diavola, a darmi coraggio. Poi si girava e russava che mi
sembrava di dormire sotto il ponte grosso, con le locomotive Asti-Torino a
soffiarmi addosso.
Se restavo sveglia se ne accorgeva… e dopo la disgrazia, dopo che avevo perso il
bambino, non dormivo più. Stavo lì a pensare, a pensare. Quando l’hanno portato
via, avvolto nei panni, mi sembrava un pane non lievitato. Non ci avevamo messo
abbastanza lievito, abbastanza amore?
E nella notte c’era il salice che per le spinte del vento si lamentava, gemeva,
sembrava il piagnucolio del mio bambino. Giovanni mi aveva guardato e senza che
gli dicessi niente si era rizzato. Era sceso e presa l’ascia aveva abbattuto la
pianta. Ingenuo e buono credeva così di toglierci il dolore d’attorno.
Il prete, un po’ stanco delle mie lagne, infine aveva detto che era stato Dio a
volere un angioletto, mi dovevo rassegnare. E poi ero una giovane donna: che ci
riprovassi! Sono andata al santuario, ho fatto un voto, ed è nato Domenico.
Durante la gravidanza sono stata più riguardata, evitavo la fatica nei campi. In
quell’ozio forzato, supina, ho scoperto una grossa macchia nel muro del fienile
dove c’era un tralcio di frola, di uva americana. L’avevano spruzzata di
verderame e negli anni il colore era sbiadito, assumendo un bell’azzurro. E a
fissarlo ci trovavo un pezzo di cielo sereno, ed anche il manto della Madonna
della cappelletta.
Com’è passata in fretta la vita! Un calendario fatto non dai fogli appesi ma
dalle stagioni che si rincorrono, si prendono a calci.
Adesso è tutto cambiato. Prima c’erano le tampe, pozze d’acqua ferma che di
notte ribolliva ed era tutto un gracidio. Ora hanno fatto le piscine ma una
coltre di mosche e farfalle annegate ricorda che siamo in campagna. E quel blu
dipinto sul fondo che si rispecchia… è finto. Il nostro colore è il grigio. Quel
grigio che con la nebbia s’ingoia, si mangia tutti gli altri colori.
Le strade erano di pauta, di fango e impastavano chi ci passava, anche le ruote
delle biciclette. Adesso sono di asfalto lucido con la pioggia che scivola e
scappa via.
Le cascine sono diventate ville. E i vicini ci hanno denunciato perché passando
con i carri, davanti casa loro, cadeva un po’ di letame. È venuto il signor
giudice a controllare il letame, la puzza. Giovanni mi ha ammonita di stare
zitta ma non ce l’ho fatta. «Signor giudice è concime. Lo mettiamo anche
nell’orto, a far crescere la verdura» ignorando le occhiatacce di Giovanni, la
sua mano alzata a minacciarmi. «I signori sono di città - ho cercato di spiegare
- queste cose non le sanno». E a concludere: «Siamo contadini». Non prepotente
ma fiera.
Il giudice, arcigno e pensieroso, aveva assentito e poi sentenziato che potevamo
passare con il letame perché, per l’appunto, eravamo contadini ma dosando la
quantità.
Le cose sono così cambiate nel tempo che noi, rimasti a lavorar la terra, ci
sentiamo statuine da presepio. Un tempo portavamo le mucche dal toro, scacciando
i ragazzetti che volevano vedere. Ora infilano nella mucca un’asta lunga fredda
ed è ingravidata. Ah sui documenti ci sono i nomi dei tori: Otello, Minosse. Ma
le mucche non sanno leggere!
Un giorno ho lasciato il fuoco acceso, e sono uscita senza vestirmi, ma avevo un
caldo e poi e poi… mi sarò dimenticata. Eh può succedere. Così mio figlio,
Domenico, ha mandato una ragazza, una straniera. Irina, romena, per aiutarmi
nelle faccende di casa.
Sulle prime averla sempre per casa auffa: un impiccio! E poi quando Irina
abbracciava Giovanni e gli passava la mano sulla testa pelata, mi dava un po’
fastidio. Cos’è questa confidenza li rimbrottavo a bassa voce, quasi tra me.
Irina lo abbracciava e rideva. Rideva sempre. Ma che c’era da ridere?
Giovanni mi capiva e sorridendo: «Potrebbe essere nostra figlia, che vai
cercando?». Ringalluzzito da quella mia gelosia. Irina ci guardava interrogativa
e poi mi accarezzava: «Felicina, mi ricordi la mia mamma».
Ma Giovanni se n’è andato, in punta di piedi per non dar fastidio, per non
spaventarmi. E io sono sola… meno male che vengono a vendemmiare. Ah in quanti
sono! E tutti a cantare festosi. Devo preparare la bagna cauda… «Felicina cosa
fai? È notte. Riposa», mi sussurra Irina. I cori si sono zittiti all’improvviso,
svaniti. Dicono che ho la testa in confusione.
La gente è cattiva. Dice che Domenico ha subito venduto le bestie, ma come avrei
potuto accudirle? Che noi contadini non dovevamo far studiare i figli perché ora
stanno in città, a fare i dottori, e la campagna va in malora.
Dicono che Domenico mi ha mandata all’ospizio. Ospizio? non sono mai stata così
bene. È un albergo… non capiscono. Perfino imbarazzata a non far niente: mi
sembra strano. Posso aiutare? Sì, la macchia celeste della nostra casa, mi
manca, ma è eguale al mantello della Madonnina nel corridoio.
Il mio Domenico a fare la signora mi ha mandata! Voi siete come le civette che
giocano a nascondino tra le pannocchie del granturco, e borbottano senza farsi
vedere
E poi ecco Irina ed io sorpresa: «Irina ma che ci fai qui? Sei venuta a
trovarmi? Grazie, grazie. Mi porti a passeggio?». E Irina: «Su Felicina, presto
che partiamo. Mia madre ci aspetta al mio paese. Altro che passeggiata! Questa
notte è venuto a trovarmi Giovanni e mi ha detto: “Oh non fare la sciocca. Vai a
prendere la Felicina. Vuoi abbandonarla là dentro?”. “Ma io non so la lingua.
Come faccio?”. “Non preoccuparti, le mamme s’intendono sempre!”».
La macchina era ricolma all’inverosimile. Cianfrusaglie. La radio accesa al
massimo, un fracasso assordante, e Irina rideva rideva mentre l’ospizio, alle
loro spalle, diventava sempre più piccolo.
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