QUINTO
PREMIO - SEZIONE RACCONTI
CALOGERO CATANIA (Palermo)
L'ESPERTO DI FRITTATE
Odio aspettare e fare code.
E più concretizzo quanto ciò mi deprima, più mi capita di stare in coda e di
attendere un turno.
Mi accade ovunque: nella sala del medico, allo sportello della posta o della
banca, alla cassa del supermercato, ovunque, persino dal macellaio.
A volte mi è capitato di condividere lo spazio e il tempo dell’attesa in
compagnia di persone antipatiche, pettegole e invadenti, altre volte, invece,
sono stato vicino a gente riservata, simpatica e graziosa che alla fine dispiace
lasciare e, anzi, si vorrebbe che il turno non arrivasse mai; più raramente ho
avuto la fortuna di accostare personaggi che valeva la pena conoscere,
personaggi di quelli che lasciano un’impronta significativa nell’animo.
Così, un giorno, mentre aspettavo che venisse il mio turno dal macellaio, mi
accadde di conoscere una persona del tutto particolare. La sua particolarità
consisteva nel fatto che era un uomo di rispetto, un uomo d’onore alla vecchia
maniera, un... “amico di tanti amici”. E non si poteva sbagliare che fosse tale,
ché appena mise piede nella bottega tutti lo salutarono ed ossequiarono come si
può osservare nei più famosi film di mafia.
Sorridente e docile, disponibile e gentile sino allo sdolcinato, si presentava
come un ometto piccolo di statura, di età compresa tra i sessantacinque e i
settanta, molto attivo d’intelletto ed energico nei movimenti; portava gli
occhialini da vista con i vetri bianchi che gli ingentilivano l’aspetto e gli
conferivano una apparenza quasi da intellettuale. E lui, a dire il vero,
incarnava appieno questa sua immagine, conferendo ad essa tutto il peso e il
valore che meritava sorridendo timidamente e proponendosi come il più umile
degli esseri umani; mi parve pure che egli godesse di questa sua parvenza.
Tutto il contrario del macellaio che evidenziava un aspetto truce e modi grezzi,
duri e volgari, legati sicuramente al ruolo che assolveva con le sue povere
vittime.
E bisognava vedere, appena scorse entrare nella sua bottega “u zu’ Ninuzzu”1
(così si chiamava l’uomo di rispetto), con quali e quanti salamelecchi lo
accolse, quale e quanta cortesia usciva dai suoi gesti poco allenati a queste
evenienze, quale e quanta delicatezza nell’armeggiare con la carne che teneva
sul bancone di lavoro. Dava l’impressione di muoversi a scatti, di saltellare,
per la contentezza e la soddisfazione, mentre tentava di indirizzare sorrisi
incerti al nuovo entrato, sorrisi che non erano abituati ad uscire da quelle sue
labbra, abitualmente tenute serrate.
E come un bambino scoperto con le mani nella marmellata se le pulisce addosso di
nascosto, nella sua tenera ingenuità, così il macellaio fece una pesante carezza
con entrambi le mani al grande grembiule bianco che gli copriva tutto il
davanti, illudendosi di aver tolto le tracce e il residuo di sangue dovuto al
maneggio della carne, preparandosi a stringere la mano dell’uomo che gli aveva
fatto tanto onore a visitare il suo negozio.
Ma il nuovo arrivato non pensò minimamente di dare la mano a quell’uomo
sterminatore di polli e capretti.
Tutto ciò mi divertiva. I miei occhi lo dicevano, le mie labbra distese in un
sorriso appena accennato, e l’interesse attento ma discreto di chi aveva seguito
tutta la scena.
Anche “u zu’Ninuzzu” sorrideva in modo altrettanto discreto.
Notai che nel fare il suo ingresso aveva girato lo sguardo con una certa
noncuranza a destra e a manca con i suoi occhietti furbi e penetranti per
rendersi conto delle persone e della situazione che trovava.
Scoprii in seguito che egli era abituato a comportarsi così. L’esperienza gli
aveva insegnato che era una necessità vitale quella di non farsi trovare mai
impreparato ai luoghi e alle persone, perchè “u zu’ Ninuzzu” vero è che aveva
tantissimi amici, ma era altrettanto vero che esisteva anche qualche non amico
che poteva causargli certi enormi fastidi, fastidi che era preferibile evitare.
Per ciò preferiva frequentare posti noti e trattare con persone conoscenti.
Questo comportamento i malpensanti2 lo chiamano gestione e controllo del
territorio; tra questi si annoveravano tutti gli sbirri, e non sono pochi, e poi
alcuni infami dell’ambiente che era solito frequentare e in cui viveva.
Bastò un solo sguardo, tra me e “u zu’ Ninuzzu” per intenderci e dirci tutto
quello che occorreva.
Il suo cervello allenato sapeva distinguere una persona pulita ed educata da un
cafone inaffidabile; lo intuì subito dal mio accenno di sorriso e dalla
ostentata indifferenza. “U zu’ Ninuzzu” soppesò che ero uno di quelli che sapeva
riconoscere gli uomini, gli uomini e le loro azioni, e che avevo afferrato a
volo tutto quello che c’era da capire.
Per ciò, dopo essersi guardato intorno, rispose al mio sorriso con un sorriso
altrettanto lieve, come se fossimo stati vecchi amici; due vecchi amici che
s’incontrano e si fanno festa con gli occhi, in modo discreto, senza scambiarsi
nè un abbraccio nè un saluto.
«Professù - m’interpellò il macellaio - mi permette che ci do al signori la roba
che aveva già ordinato?».
«Ma certo!» risposi, mostrando la mia solita gentilezza, consapevole che il
nuovo entrato, avesse o no ordinato precedentemente, aveva comunque la
precedenza: «Un minuto in più o in meno non cambia la sostanza della vita».
Fu così che conobbi “u zu’ Ninuzzu”.
Passò qualche tempo ed un giorno lo rividi al bar.
Era circondato da tanti amici che lo onoravano e lo adulavano. Salutai a voce
alta, com’è mio solito, e mi appoggiai al bancone in attesa del mio caffè
pomeridiano.
«Zu’ Ninuzzu - diceva qualcuno - mi lo devi dari st’anuri, stu’ piaciri?3»
E qualcun altro: «È mai possibile che ‘un ci pozzu offriri un cafè?4».
E “u zu’ Ninuzzu” rispondeva sempre con le stesse parole: «Picciotti, nna stu’
bar ho il conto sempre aperto; puru si vulissivu pagari, il signor Nuccio
picciuli di vuatri ‘un si ‘ni pigghia5».
Mostrando indifferenza, ascoltavo quei discorsi banali e li associavo a false
gentilezze, a comportamenti di facciata, a leziosità, di un mondo che non mi
apparteneva, ma che sprigionava un fascino particolare, forse assurdo, forse
sbagliato, che m’attraeva e mi sollecitava l’intelletto.
Ascoltavo, ma intuivo di essere osservato.
E difatti dopo un po’ “u zu’ Ninuzzu” si avvicinò e mi chiese: «Professù,
permette che ci offro questo cafè?».
Non me lo aspettavo e sorrisi a quell’uomo che si mostrava gentile nei miei
confronti.
«Grazie. Non s’incomodi».
Ma lui insistette.
Allora gli diedi la mano e mi presentai: «Mi chiamo Cattaneo, Carlo Cattaneo».
«Lo so - rispose - lo conosco perché abbiamo canuscenzi6 in comune». Andai col
pensiero appresso a quella frase ed a quali potessero essere le conoscenze che
avevamo in comune.
Sinceramente non ne trovai.
Continuò: «Devo essere io a ringraziare lei, per l’altra volta dal carnezziere.
Ha dato una risposta che mi ha fatto riflettere e io, per mia natura, sono uno
che ci pensa alle risposte che mi danno».
«Cioè?» chiesi.
«Sono rimasto colpito dalla sua frase. Non per le parole in sè, ma dal tono, dal
tono con cui ha pronunciato una certa parola, la parola “sostanza”».
S’interruppe per sorseggiare il suo caffè.
«Perché - ripresi - in che tono l’ho detta?».
«C’era in quel tono un non so che di greve, di rassegnazione… e ci ho trovato
una sottile malinconia che solo gli uomini che capiscono il vero significato
della vita posseggono, quelli che si chiedono il come e il perchè dei fatti e
sanno che siamo poca cosa di fronte alla potenza del creato; quelli appunto che
badano alla sostanza delle cose».
Guarda, guarda, dicevo tra me: vuoi vedere che “u zu’ Ninuzzu”, oltre ad
esprimersi bene, è pure un filosofo? Naturalmente aveva pronunciato quella frase
sapendo di affermare tutto e niente, ma intimamente convinto che io avessi
capito il senso occulto del suo discorso.
Ed io avevo capito.
E sì, con le sue parole “u zu’ Ninuzzu” mi stava dicendo che lui aveva intuito
che io avevo capito chi era e cos’era, e ci teneva a farmelo sapere, e voleva
ringraziarmi per non avergli fatto uno sgarbo davanti alla gente che lo
conosceva.
«Ho parlato in quel modo perché lo sentivo - risposi -. Cerco sempre di essere
me stesso per non trovarmi impreparato nei rapporti con gli altri e… nella vita.
é una forma di lealtà verso il mio prossimo e verso di me».
«Bravo, accussì7 mi piace. Lei è comu a mia.8 Si vede che è n’omu9 sensibile e
di cultura».
Poi continuò a parlare più piano e in modo riservato.
«Ci sono stati momenti nella mia vita in cui ho avuto il tempo di leggere tanti
libri. Soprattutto, sono affezionato ai romanzi di Natoli10, ai Beati Paoli per
intenderci, che ho letto mille volte truvannuci ogni vota11 una frase, un
riferimento alla nostra città che mi ha stimolato e affascinato. Ho letto anche,
tante volte, una specie di riassunto della divina commedia in cui erano messe in
evidenzia tutte le frasi celebri. Mi crede? Quelle frasi recitate al momento
giusto, nel posto giusto, erano più incisive di un discorso completo».
Inutile chiedere dove avesse trovato tanto tempo per leggere ed in quale luogo.
Con cipiglio serio e compito cominciò a recitarmi alcuni versi di Dante: «Fatti
non foste a viver come bruti ma…», ed io concludevo «... ma per seguir virtute e
canoscenza». E poi: «Ahi! Serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero
in gran tempesta…». Io mi inserivo nella declamazione: «Non donna di provincia
ma bordello»; “bordello” lo ripetevamo insieme. Accadeva, cioè, che mentre lo
ascoltavo mi lasciavo coinvolgere dalla bellezza dei versi e insieme a lui
completavo la citazione, assaporando quegli attimi come colui che ascolta quelle
rime per la prima volta e si sofferma a riflettere sul senso che vogliono
significare.
In alcuni momenti mi trovai pure in imbarazzo perché “u zu’ Ninuzzu” mi ripeté
alcuni brani che io non conoscevo, versi sicuramente appartenenti al paradiso,
meno noti (almeno a me) ma sempre belli, e per non dare a vedere la mia lacuna
abbassavo la testa in segno di consenso.
Tutto questo ebbe una conclusione clamorosa: tra me e “zu’ Ninuzzu” si instaurò
una sottile intesa fatta di poesia, che accostava le nostre sensibilità e i
nostri intimi interessi.
Eh sì! S’intuiva che “u zu’ Ninuzzu”, pur avendo la sua età, aveva un cuore
giovane, che era un uomo che voleva stare in auge e metteva la sua esperienza di
vita a disposizione degli altri, di quegli ignoranti che non sapevano cos’era la
vita e come ci si doveva comportare. E lui in cuor suo era così convinto di
trovarsi dalla parte del bene, del giusto, dell’onore, che preferiva pagare di
persona queste sue posizioni piuttosto che rinunciare al ruolo che il buon Dio
gli aveva assegnato.
Io, senza volerlo, gli avevo fornito il pretesto per esternare la sua vera
personalità, quella parte di sé che amava e a cui teneva di più, che nascondeva
perché, manifestandola alla gente che era solito frequentare, poteva dare
l’impressione di essere un sentimentale, un pappamolle.
Il risultato fu che, col passare del tempo, gli incontri occasionali con “zu’
Ninuzzu” diventarono simpatici e divertenti e io assunsi il ruolo di colui che
conosceva la sua passione segreta, una specie di coscienza amica a cui non
interessavano i fatti personali della sua vita, ma le vicissitudini dell’uomo in
generale, i suoi comportamenti, le virtù e i sentimenti. Tutto ciò improntato
sempre nel massimo rispetto reciproco, nell’allegria di ritrovarci a prendere un
caffè in piena serenità. Cosa importante: di tanto in tanto accettava il caffè
che gli offrivo, caffè che lui non accettava mai da persone che non riteneva
meritevoli.
Eh, sì! Tutto si poteva dire di “zu’ Ninuzzu”, ma non che fosse insensibile e
ignorante; quasi non riuscivo a credere che un uomo così potesse avere guai con
la giustizia.
Così un giorno gli chiesi: «Da come parla mi pare di capire che lei abbia avuto
fastidi con la giustizia».
«Eh, sì!» rispose.
«Se non sono indiscreto, zu’ Ninuzzu, che tipo di fastidi?».
«Eh, caro professore… Fastidi proprio con quella legge che dovrebbe garantire
tutti con la sua imparzialità e la sua giustizia».
Poi, vincendo la sua naturale riservatezza e mostrando l’espressione pìù seriosa
che possedeva, continuò: «Vede, io canusciu a tutti e tutti mi canuscinu.12 Ora
se lei ha bisogno d’aiuto, per una cosa qualsiasi, e bussa alla mia porta, io
non sono capace di dire di no… anche se lei ha avuto quistioni con la legge.
Allora, ecco, che niscieru a diri13 che ero complice, associato… Ora dico io:
associato a chi, per cosa? Niente: ‘un è datu sapiri…14 ».
“Zu’ Ninuzzu” adesso si mostrava attento e riflessivo. Doveva soddisfare la mia
curiosità e nello stesso tempo dire e non dire, affermare e negare per non
distruggere la buona impressione che si era costruito nei miei confronti ed
uscirne pulito.
«Sospetti, caro professore, solo sospetti...».
Poi guardandomi fisso negli occhi e assumendo un accento quasi rassegnato,
completò la sua dichiarazione: «Si poi costringinu quarchi ‘nfami a fari i nomi,
ecco che l’indegno si ricorda di mia e... la frittata è fatta».15
Poi, da un giorno all’altro, non ci incontrammo più.
Seppi, da bisbigli di bar, che “u zu’ Ninuzzu” si trovava nel luogo dove avrebbe
trovato tanto tempo per rileggere i suoi amati libri.
NOTE
1 lo zio Ninuccio
2 gli uomini di legge
3 “Zio Ninuccio, diceva ogni tanto qualcuno “me lo deve dare quest’onore, questo
piacere?”
4 “È mai possibile che non le posso offrire mai un caffè?”
5 “Picciotti, in questo bar ho un conto sempre aperto; anche se voleste pagare
il signor Nuccio soldi da voi non ne piglia”.
6 conoscenze
7 così
8 come me
9 un uomo
10 Luigi Natoli scrittore siciliano di rilievo vissuto tra la seconda metà
dell’800 e gli inizi del ’900
11 trovandovi ogni volta
12 Vede, io conosco tutti e tutti mi conoscono.
13 si è sparsa la voce
14 Niente: non è dato sapere.
15 Se poi costringono qualche infame a fare i nomi, ecco che l’indegno si
ricorda di me e... la frittata è fatta.
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