Per amore sono diventato un mangiatore di erbe, come un
cavallo. O peggio, una pecora.
Non c’è nulla di male a essere vegetariani, beninteso. Tuttavia mi sento un
traditore.
Ho tradito la carne per la carne.
Perché Giulietta non si sarebbe mai neppure accostata a uno che si nutre dei
propri simili, alla stregua di un cannibale (diceva lei).
Perché Giulietta era inamovibile nelle proprie convinzioni e, sopra ogni cosa,
nella rigidissima dieta vegetariana.
Perché Giulietta era bellissima e così ho tradito la carne per la carne.
Figuratevi lo scorno degli amici. Addio ai sabato sera con le grigliate miste e
il lambrusco, niente più banchetti al cospetto di ossi buchi e fiorentine.
Gli amici migliori, quelli con cui condividevo gioie e dolori da una vita, dei
fratelli insomma, ora mi guardano con sospetto. Se avessi rivelato di essere
sieropositivo sono certo che mi avrebbero compreso e sostenuto. Ma vegetariano
no, è troppo anche per loro.
A ciò si aggiunge la circostanza grottesca che, nonostante la dieta erbivora,
non sono dimagrito di un etto.
A causa della mia pancetta e delle maniglie dell’amore ormai degne di una
palestra olimpica, Giulietta mi fa sentire colpevole come un assassino, come se
il problema della fame nel mondo fosse colpa mia e dei miei ex-amici mangiatori
di carne.
Evitare la carne non è poi tanto difficile. Basta non pensarci, basta non averla
sott’occhio, basta seguire percorsi alternativi che privilegiano il negozio di
frutta e verdura a discapito del salumiere.
Basta non odorarne il delizioso aroma di cottura.
Proprio questo è il punto debole. Dalla parte opposta della strada, di fronte al
mio appartamento, c’è la trattoria di Agostino. Eravamo compari inseparabili fin
dalla scuola elementare e lui adesso non mi rivolge nemmeno la parola.
Dalla trattoria vengono su certi aromi e profumi da risvegliare una mummia.
Tutti i residenti entro un raggio di cinquecento metri dalla trattoria sono
ormai drogati, allo stadio ultimo di assuefazione.
La specialità di Agostino è la carne, ovviamente.
Ho imparato a riconoscere ben cinquantasette diversi odori, dal gulasch al
prosciutto flambé.
La domenica mi metto alla finestra del salotto e aspiro a pieni polmoni gli
effluvi che fuoriescono dal tubo di aerazione della trattoria.
Da non credersi, ma dopo un’oretta mi sento persino sazio.
Mentre in cucina (nella mia cucina) Giulietta è indaffarata a preparare il
consommè alle sette verdure. Senza formaggio, s’intende, perché Grana Padano e
Parmigiano Reggiano sono strumenti del demonio.
Oggi non è domenica. Peggio: Giovedì Grasso di carnevale. Ho messo la sveglia
alle 9,30 perché a quest’ora Agostino si mette ai fornelli e, tempo di farmi la
barba e bere un caffè, gli odori cominciano a spandersi, facendo fiorire questo
deserto con i profumi più sublimi prodotti dai migliori amici dell’uomo
(vitello, agnello, porcello e cappone).
Sono passate le dieci da poco e già si avverte nell’aria un frizzico piacevole,
un preludio invitante, come l’arpeggio degli archi nelle ouvertures di Rossini.
Con una certa trepidazione, lo confesso, mi chiedo quale sarà il piatto forte
nel menu di oggi.
Le prime molecole di lipidi e proteine mi giungono sulle ali del vapore acqueo e
di una lieve brezza.
Non riconosco nessuno dei cinquantasette aromi che ho catalogato nel corso di
questi mesi di penosa astinenza.
Adesso il profumo è più deciso, è pregno, saturo, è un condensato di gusti
diversi eppure fusi in modo armonico, come il coro del “Va pensiero” di Verdi.
No, non può essere.
Stento a credere al mio naso, eppure lui mi grida che si tratta proprio della
mia grande passione, della mia ragione di vita (prima di Giulietta): il Gran
Bollito.
Una zaffata tiepida e fragrante mi investe in pieno viso: quasi svengo per
l’emozione, mi sostengo al bracciolo del sofà e riesco a sedermi.
Dalla finestra aperta, la brezza gelida di febbraio continua a trasportare gli
odori della carne in ebollizione. Ogni volta è una pugnalata al cuore.
Sarà perché in questi ultimi tempi mi sento un po’ debole, o forse sarà la magia
del Giovedì Grasso… comincio a scivolare in un dolce torpore, attorno a me i
mobili e le pareti della stanza vanno in dissolvenza come nel finale di un film
d’amore, mi rimpicciolisco sempre più finché mi ritrovo addosso i calzoncini
corti e le mie mani sono quelle di un bambino di sei anni.
Mi ritrovo nella grande cucina con la stufa a legno e i paioli di rame appesi
alle pareti, nella cucina calda e protettiva dove per la prima volta scoprii i
piaceri della carne.
Vedo la zia Pina e la zia Adelina, assai indaffarate, muoversi leggiadre tra
piastre roventi e tritacarne, tra tegami smaltati e pentole di terracotta.
Maneggiano coltellacci dall’affilatura micidiale come la fatina di Cenerentola
la sua bacchetta magica.
Io me ne sto nell’angolino, sullo sgabello di paglia vicino alla stufa. Osservo
le zie e i loro seni generosi, convinto che abbiano infilato qualche strumento
da cucina nel vestito, per averlo sempre a portata di mano.
Mi sembrano due fattucchiere intente alla preparazione di filtri portentosi ma
benefici, perché i profumini che si diffondono nell’aria mi fanno venire
l’acquolina in bocca, anche se ho appena fatto colazione con caffelatte, pane,
burro, miele, marmellata e biscottini ai pinoli. Questi ultimi sono una
specialità della zia Pina e ho la sensazione che la zia Adelina ne sia un poco
invidiosa.
A un tratto le zie aprono lo sportello superiore della credenza e tirano fuori
una pentola enorme.
Non è una pentola qualsiasi, questa è la “Pignatta”. Si adopera solo nelle gradi
occasioni.
Porcellana smaltata con decorazioni azzurre a motivi floreali: mi fa impressione
perché è davvero gigantesca, forse potrei persino farci il bagno dentro. O
magari potrebbe servire a qualche orco per cucinarci i bambini.
Dopo averla riempita a mezzo d’acqua, le zie la depositano non senza fatica sul
piano rovente della stufa.
Mentre la zia Pina aggiunge legna (attraverso lo sportellino scorgo il rosso
incandescente nel cuore della stufa), la zia Adelina butta le verdure: cipolle,
carote, gambi di sedano, spicchi d’aglio, prezzemolo, rosmarino, alcune foglie
di alloro, sale grosso, pepe nero in grani e tre chiodi di garofano.
Una bella rimestata e la magia può aver inizio.
In attesa che l’acqua giunga a bollore, le zie si avventano sulla carne già
ammassata sul tagliere.
Lo stridio delle lame, sfregate una contro l’altra per l’affilatura, mi fa
accapponare la pelle sulla schiena.
La mia attenzione però è sempre rivolta alla Pignatta: comincia a borbottare e
animarsi di vita propria.
Immagino allora che dentro quell’enorme recipiente si formino correnti
sottomarine e gorghi mostruosi, messi in movimento dal calore della stufa, i
quali trascinano con sé cipolle e sedani, e fanno girar la testa alle carote.
Il bollore si fa tale che la Pignatta vibra sulla piastra rovente e così facendo
si sposta in modo impercettibile.
Ecco la “Pignatta che cammina”: è il segnale per buttare i primi tagli di manzo.
La zia Adelina immerge il Tenerone, la Scaramella e il muscolo di coscia. Per
ultima la coda, uno dei sette “ammennicoli”.
Con i suoi gesti lenti e misurati, la zia Adelina mi pare una sacerdotessa
dedita a un rituale arcano, i cui segreti si tengono gelosamente custoditi tra
le pareti di questa cucina.
Con altrettanta solennità, la zia Pina prepara due pentole più piccole dedicate
ad altri due ammennicoli: la lingua e la testina. Devono cuocere a parte, ognuna
per conto suo.
Siccome di questo le zie non mi hanno dato spiegazione, penso che lingua e
testina siano acerrime nemiche e in nessun caso possano venire a contatto, pena
un gran maremoto dentro la Pignatta, dove invece Tenerone, Scaramella e muscolo
di coscia vanno d’amore e d’accordo.
Questa felice unione è confermata dall’odorino che comincia a sprigionarsi tra
il vapore acqueo.
Questi profumi mi fanno pensare che là dentro, nell’inferno bollente della
Pignatta, si sta compiendo una trasformazione alchemica che ha del miracoloso: i
tranci di carne sanguinolenta (che io, bambino schizzinoso e anche un po’
viziato, non avrei toccato neppure con la punta delle scarpe) diventano
bocconcini succulenti, degni della tavola dei Re.
L’enorme Pignatta in ebollizione pian piano riempie la cucina di un soffuso
vapore, che in parte si condensa sui vetri della finestra. Una nebbiolina
leggera vaga per la stanza, ne smussa i contorni, ne attenua i colori. Pare
quasi che il tempo si sia fermato: ora vedo le zie muoversi lente, con gesti
infusi della sapienza di sempre ma più pacati, come se il cerimoniale sacro ora
abbisognasse di una pausa di raccoglimento e muta adorazione.
La cucina è pregna del sentore ubriacante e un poco acidulo di carne e verdure,
mentre nella Pignatta il livello del liquido sta calando in modo pericoloso.
Le due sacerdotesse s’intendono con sguardi e gesti impercettibili: non vogliono
rompere il silenzio estatico che ormai si è impossessato della cucina e di me
stesso, seduto sullo sgabello chissà da quanto tempo eppure sempre vigile e
curioso dei minimi dettagli.
La zia Adelina versa nella Pignatta parecchi mestoli di brodo ottenuto dagli
ammennicoli; la zia Pina butta gli altri quattro tagli di carne: Muscoletto,
Spalla, Fiocco di punta e Cappello del prete.
Esattamente in questo ordine, perché così dicono le Sacre Ricette.
Nemmeno una virgola viene tralasciata dalle due vestali della Pignatta, perché
il Gran Bollito è una filosofia di vita, un credo, il perpetuarsi di tradizioni
antiche con le radici affondate nei primordi della civiltà.
A tre quarti della cottura, le Madri Badesse della cucina preparano altri due
ammennicoli: il cappone e il cotechino, anche questi in pentole separate e
insaporiti con una punta di rosmarino il primo e una foglia di salvia il
secondo.
Con tutte le pentole in ebollizione, la cucina si trasforma in una landa
vulcanica densa di fumaioli, mentre il vapore condensato sui vetri impedisce la
visione esterna.
è questo il momento che preferisco, quando si sa che ormai è quasi tutto pronto
e i profumi hanno scavato un buco nello stomaco e la salivazione bagna in
anticipo la lingua.
«Che fai, dormi?».
La voce imperiosa di Giulietta mi strappa dai ricordi proprio sul più bello.
Guardo l’orologio: sono trascorse due ore e non me ne sono accorto.
Lei mi lancia uno sguardo di commiserevole riprovazione e se ne ritorna in
cucina.
Le mie povere zie (entrambe zitelle) avevano cercato di farmi diventare uno
chef, insegnandomi fin da piccolo i segreti di quella preparazione mistica alla
quale si dà volgarmente il nome di “Gran Bollito”, ma che meriterebbe un ben più
consono appellativo.
Invece ho tradito pure loro. Non solo non sono diventato chef ma ora sono pure
vegetariano. Si rivolteranno nella tomba, poverette.
«Il passato di verdure è pronto tra un attimo».
La voce petulante di Giulietta è un’altra vergata sanguinosa sul mio animo già
martoriato da troppe privazioni.
Solo ora mi accorgo che la finestra è ancora aperta e il salotto è una
ghiacciaia. Sto per richiuderla quando mi giunge in faccia un alito sapidissimo
di manzo e vitello ormai cotti a puntino. Credo di riconoscere persino
l’impercettibile aroma dei tre chiodi di garofano, proprio come usavano le zie.
Ho voglia di piangere.
«Sbrigati, è pronto».
Giulietta ha pronunciato la sentenza quotidiana e mi rendo conto, seppur solo in
modo vago, cosa dovette provare Luigi XVI mentre veniva condotto al patibolo.
Con la differenza che lui, la pena capitale, l’ha subìta una volta sola; a me
tocca tutti i giorni.
Invece di dirigermi in cucina, scivolo lungo il corridoio, m’infilo il soprabito
al volo, apro la porta, la richiudo da fuori usando la chiave per non far rumore
con il battente.
La porta dell’ascensore è chiusa. Non ho tempo di aspettarlo; del resto, quattro
piani di scale sono niente per uno che si porta dentro la fame arretrata di
mesi.
I gradini scivolano veloci sotto i miei piedi e io mi sento leggero, una
farfallina carnivora.
Esco all’aperto, con tre balzi attraverso la strada. Un tassista mi lancia
dietro improperi assortiti.
Di getto spalanco la porta della trattoria, come Gary Cooper in “Mezzogiorno di
fuoco”.
I tavoli sono quasi tutti occupati. Riconosco molti amici “ante-Giulietta”.
Loro mi guardano con le forchette sospese a mezz’aria.
In sala c’è pure Agostino, con il suo eterno grembiule che una volta forse era
bianco.
Con movenze signorili e aria beffarda, mi siedo a un tavolo. Punto il dito in
direzione di Agostino e ordino:
«Gran Bollito, per favore».
Tutti mi fissano, nella sala non vola una mosca. Sui visi scorgo espressioni
variegate: curiosità, sospetto, incredulità.
Per dimostrare che non scherzo, aggiungo:
«E per favore aggiungi una coscia di cappone e mezzo cotechino».
Nella sala esplode un boato. Chi mi stringe la mano, chi mi abbraccia, qualcuno
che non conosco mi bacia persino.
Adesso posso immaginare l’accoglienza che ricevette Lazzaro resuscitato.
Come un fulmine, Agostino si precipita in cucina e ritorna con un piatto di
portata caldissimo e i tagli di carne disposti ad arte. Una visione commovente.
Ci versa sopra un mestolo di brodo bollente e allora penso che Dio deve per
forza esistere.
Il coltello affonda dolcemente nella carne tenera e sugosa. Mi viene in mente
quando, da ragazzo, ho fatto l’amore per la prima volta e l’ansia, l’attesa, la
trepidazione erano le medesime.
Sto per assaggiare il primo boccone quando una visione terrifica mi coglie di
sor-presa.
Dietro il nugolo di amici che mi attorniano, desiderosi di assistere al grande
evento in prima fila, spunta la figura snella e inviperita di Giulietta.
Ha stampata in faccia una espressione disgustata come non gliel’ho mai vista
prima, tranne una volta quando andammo a trovare i miei in campagna e lei vide
una biscia d’acqua che stava ingoiando un rospo.
Lo sguardo di Giulietta si sposta da me al piatto che ho davanti, quindi di
nuovo a me. Probabilmente non riesce a decidere se le faccio più schifo io o la
carne che sto mangiando.
Con la voce rotta dall’emozione e dalla rabbia, cercando tuttavia di mantenere
il suo contegno signorile, Giulietta mi apostrofa in questo modo:
«Avrei preferito mille volte che tu mi avessi tradito con un’altra donna».
Averlo saputo prima, l’avrei accontentata.
Poi aggiunge:
«Alzati subito e vieni a casa».
Gli amici attorno mi guardano. So che fanno il tifo per me, ma non possono
intervenire, è una questione privata tra Giulietta e me.
Nella sala si respira un clima da “Sfida all’OK Corrall”.
Sto per aprire bocca e dirle tutto ciò che si merita, quando mi viene un’altra
idea.
Afferro la forchetta che avevo lasciato cadere nel piatto, con il pezzo di manzo
ancora bello caldo.
Alzo la forchetta in modo plateale, perché tutti possano vedere il boccone
fumante. Quindi me lo metto in bocca e dentro di me si scatenano tutte le
sinfonie di Beethoven.
Giulietta è sul punto di svenire, deve aggrapparsi allo schienale di una sedia.
Agostino sorride e mi fa il segno del pollice eretto; gli amici prima mi
sommergono di abbracci, poi mi strappano dalla sedia e mi portano in trionfo per
la sala.
Ora so anche come dovette sentirsi Giulio Cesare al ritorno dalla campagna di
Gallia.
* * *
Sono trascorsi alcuni mesi dal mio ritorno alla vita e alle
abitudini carnivore. Da non credersi, ma non sono ingrassato di un etto.
Non ho più rivisto Giulietta, anche perché mi sono trasferito sopra la
trattoria, dove Agostino disponeva di un mini-appartamento libero.
Ci siamo messi in società, perché lui è un gran cuoco ma di affari proprio non
se ne intende: ha bisogno di qualcuno per tenere l’amministrazione.
E poi, da quando ci sono io, il Gran Bollito è diventato il piatto fisso del
giovedì e il locale è sempre pieno come un uovo di struzzo.
Il Gran Bollito di Agostino è una squisitezza, eppure non è proprio come quello
che preparavano zia Pina e zia Adelina quando ero piccolo. Loro aggiungevano un
ingrediente speciale, qualcosa di nuovo e impensabile che dava il tocco magico
alla composizione finale.
Per mesi mi sono scervellato cercando di ricordare, finché l’altra notte le zie
mi sono comparse in sogno.
Erano vestite con l’abito candido delle monache e attorno a loro danzavano
mucche, vitelli e maialini come sul palcoscenico del Moulin Rouge di Parigi.
Le zie mi hanno rivelato l’ingrediente speciale, vale a dire…
No, non posso dirvelo, è un segreto del mestiere.
Però posso farvelo assaggiare, se passate in trattoria da noi.