TERZO
PREMIO - SEZIONE RACCONTI
VANES FERLINI (Imola - BO)
TRENTATRÉ ANNI
La giustizia è un’invenzione degli uomini per mettersi al
riparo dalla propria coscienza.
Per me la giustizia è solo quella che stringo in pugno, la mia Sig Sauer calibro
9. Solo quella.
Però non l’ho mai rivelato a nessuno. Dietro questa maschera un po’ grigia da
impiegato di banca, ho coltivato odio per trentatré anni.
Trentatré, come quelli di Cristo è durata la mia passione… e ancora non è
finita.
Ho coltivato l’odio un giorno dopo l’altro come si annaffia e concima una
pianticella. Ora è cresciuta, è diventata un albero malsano che ha messo radici
a fondo nella mia vita e ha preso a succhiarla in modo inesorabile. Ormai è
tardi, non posso più farci niente, ho rinunciato a tutto per quest’odio amaro e
dolce, lungo trentatré anni di vita.
È una sensazione sottile, perversa e anche un po’ diabolica. Scorrere il
calendario con uno scopo solo inchiodato nella testa, plasmare la vita con un
odio calmo e fermissimo.
Tutti pensano che io sia un tipo introverso che ha bisogno del poligono di tiro
per scaricare lo stress del lavoro… e ogni anno una vacanza di due settimane in
Brasile.
Poveri idioti, non hanno capito nulla, sprecano la vita inutilmente attorno alle
loro occupazioni meschine. Invece io uno scopo ce l’ho, coltivato con il giusto
odio.
Trentatré anni, da uno sparo all’altro. Il tempo annullato dall’odio, dolce
veleno della mia vita.
Avverto un tocco sulla spalla. Tolgo le cuffie.
«Che ti prende oggi? – mi fa l’istruttore –. Se continui così, te lo scordi, il
campionato nazionale».
Ha ragione, devo rimanere concentrato. Niente divagazioni, al diavolo le
fantasie. Devo tenere la mente fissa sullo scopo, che non è comunque il
campionato nazionale. Ho un bersaglio ben più grosso in vista.
Nell’ultima sessione ho messo in sagoma solo due colpi, alla spalla e al fianco.
Organi non vitali.
Al prossimo giro devo beccarlo in fronte, il bastardo. È quello che si merita,
lo dicono tutti quelli che ancora ricordano. I più però hanno dimenticato, il
tempo è come una patina d’olio denso che si deposita sul dolore e tutto scivola
sopra… tranne il mio odio, quello mi sta sempre al fianco, un compagno fedele
che mi porta a braccetto. Non potrei più vivere senza.
* * *
La nostra associazione ha una doppia maschera: da un lato il volto ufficiale,
pubblico, che partecipa alle commemorazioni e rilascia interviste sperando che
l’opinione pubblica non dimentichi. Anch’io partecipavo, all’inizio, credevo
fosse un mio dovere, poi però ho capito che erano tutte cazzate. La gente
dimentica, del resto ognuno ha i suoi problemi, non si può pretendere che si
ricordino ancora di uno sconosciuto morto trentatré anni prima. Le
commemorazioni, poi, le detesto: cerimonie vacue fatte con discorsi ormai triti.
Anche all’onorevole che sta parlando al microfono non gliene fotte più niente.
Legge il discorsino che qualcun altro gli ha scritto giusto per svolgere il
compitino. Se si tro-vasse all’inaugurazione di un nuovo svincolo autostradale,
userebbe lo stesso tono.
Non ascolto più, penso solo che se avessi in tasca la mia Sig Sauer potrei fare
il tiro al bersaglio con tutti quei puzzoni che stanno seduti al tavolo, mentre
io solo avrei per davvero il diritto di parlare.
Franco, seduto accanto a me, mi dà una leggera gomitata. Deve essersi accorto
che mi stavo estraniando, negli ultimi tempi mi accade sempre più spesso.
Ecco il lato opposto della maschera: Giorgio, Eros, Franco e Nadia, tutti
accomunati da uno sparo. Nadia è la più cattiva, ne ha tutte le ragioni
beninteso, a volte mi fa persino paura. Giorgio invece è il rassegnato del
gruppo, per lui le cose andranno sempre male e non potranno mai cambiare, mi fa
sempre incazzare quando ne parliamo.
In realtà non abbiamo nulla in comune, noi cinque, a parte l’odio… ma è più che
sufficiente anzi, è meglio di un cemento a presa rapida che ci ha saldato e ci
terrà uniti fino in fondo.
L’onorevole continua a parlare. Mi sudano le mani.
* * *
Il piano è di una semplicità mostruosa, persino troppo facile, e questo mi
spaventa. M’immagino che sorgano sempre nuove difficoltà o inconvenienti
dell’ultimo minuto, e quel menagramo di Giorgio non fa che versare benzina sul
fuoco. Per fortuna c’è Eros: ha la mentalità dell’organizzatore, lo si è visto
da subito, sa programmare con lucida freddezza, come fosse solo lui a
determinare le circostanze e non potesse accadere nulla che non abbia già
previsto.
Franco invece setaccia la rassegna stampa, segue le mosse dell’obiettivo, cerca
di scovare notizie utili negli interstizi della rete internet. Si è messo
persino a studiare il portoghese per entrare in contatto con un nucleo di
estrema sinistra attivo nel sud del Brasile.
Di Nadia farei volentieri a meno ma purtroppo si è messa in testa di farmi da
trainer, dato che lavora come psicoterapeuta e compiango i disgraziati che
capitano sotto le sue grinfie.
Secondo lei avrei dovuto acquisire calma, sicurezza e lucidità, tutti fattori
determinanti per portare a termine la missione. Per questo mi ha consigliato di
iscrivermi al poligono di tiro:
«Quando sarà il momento, devi vederlo semplicemente come una sagoma, nulla di
più. Una sagoma inanimata, un bersaglio di cartone, perché se ti fai prendere
dall’emozione o dal rancore la tua mano sbaglierà e andrà tutto a puttane».
Non so se i concetti di cui Nadia mi ha riempito la testa negli ultimi mesi
funzioneranno. Però mi accorgo che, all’approssimarsi della data fatidica, quel
6 giugno che ha scavato un abisso nella mia vita, la mia mano si è fatta meno
sicura al poligono di tiro.
Giorgio è l’ultimo arrivato nel gruppo, si è aggregato tre anni fa per simpatia…
anzi, per odio. Negli ultimi tempi, però, ha cominciato a fare discorsi strani.
«Ormai è passato tanto tempo – mi ha detto l’altro giorno – mi chiedo che senso
abbia quello che stiamo facendo… e come ci giudicheranno in prospettiva
storico-sociale. Forse dovremmo superare l’ostacolo, guardare oltre, perché
indietro comunque non si può tornare».
«Ma che dici? – ho ribattuto –. Stai parlando proprio come lui, te ne rendi
conto?».
«Penso solo che sarebbe meglio ricominciare a vivere, tutti quanti noi, nascere
una seconda volta per realizzare uno scopo veramente costruttivo, o almeno
provarci».
«Tutte quelle riviste intellettuali che leggi ti hanno rammollito, non dicevi
così all’inizio».
«Senti, sono passati trentatré anni per te e poco meno per me…».
In un lampo mi è tornata in mente la scena cui avevo assistito dalla finestra
della cucina, quando avevo quattordici anni e mia madre stava preparando le
orecchiette con il pesto.
«Per me è successo ieri» gli rispondo, brusco.
Giorgio deve aver notato il lampo maligno nel mio sguardo e non ha avuto il
coraggio di replicare.
Forse ha ragione lui ma l’odio è più forte di tutto, anche di me.
* * *
L’atterraggio all’aeroporto di Rio de Janeiro è stato puntuale, i controlli alla
dogana veloci, il transito al visto passaporti senza problemi. Sembra tutto
troppo facile, mi ha messo addosso una inquietudine che mi serpeggia ruvida
sotto pelle.
Cerco di tranquillizzarmi pensando che nessuno può sospettare nulla, in questi
anni ci siamo mossi come fantasmi dietro la nostra facciata di rispettabilità
assoluta.
È il quinto anno consecutivo che vengo a Rio, le prime due settimane di giugno…
sempre quelle. Lo stesso volo, lo stesso albergo, la stessa spiaggia a
Copacabana. Sono un turista in mezzo a milioni di altri ma in realtà non mi
frega nulla di questo paese. Potrei essere in Siberia o in Sudafrica, sarebbe la
stessa cosa.
Le tre del pomeriggio, ora locale. Scendo al decimo piano dove si trova il
casinò dell’albergo, il ristorante e un piano-bar già gremito di vacanzieri
dediti ai super-alcoolici. Sento parlare in italiano. Mi sudano le mani. Con
indifferenza scivolo tra i tavolini. Vedo qualcuno sbracciarsi. Raggiungo Eros,
ci salutiamo e ci abbracciamo come vecchi amici che non si vedono da anni. Mi
sembra una commedia ridicola ma Eros ci tiene ai dettagli, dice che sono proprio
quelli che fanno la differenza.
Assolti i convenevoli, mi mette in mano un pacchetto rosso con un fiocco
vistoso:
«Buon compleanno!».
Rimango perplesso e lui aggiunge:
«Lo so, il tuo compleanno è tra più di un mese ma ho pensato di anticipare il
regalo».
Faccio per sciogliere il nastro ma mi blocca la mano:
«è meglio che lo apri quando sei in camera, da solo», mi strizza l’occhio. Gli
faccio cenno che ho capito. Prosegue:
«Il sei giugno parteciperà a un convegno organizzato da un movimento della
destra brasiliana. Bella coincidenza, eh? Proprio il sei giugno… dentro il
pacchetto troverai un biglietto con luogo ed ora esatti: imparali a memoria e
distruggilo. Ho fatto un buon lavoro, che ne dici?», mi lancia un sorrisetto di
autocompiacimento.
«Sì, buon lavoro» rispondo a pappagallo, mentre il pensiero comincia già a
viaggiare verso quell’ora e quel luogo.
«Mancano solo tre giorni – mi sussurra protendendosi verso di me – e in questo
periodo non ci sentiremo più, salvo casi di assoluta emergenza, quindi… buona
vacanza!». Mi dà una pacca sulla spalla, si alza e si avvia all’ascensore senza
voltarsi più indietro.
Adesso dipende tutto da me, solo da me. Dovrei essere contento, solo tre giorni
e poi tutto sarà finito, poi… no, meglio non pensare al futuro, la mia vita è
stata un continuo presente imbevuto d’odio e questi tre giorni saranno uguali
agli altri, con una sola piccola differenza.
Ritorno in camera e apro il pacchetto. La Sig Sauer calibro 9 mi fa
l’occhiolino, avvolta in una pelle di camoscio.
La prendo in mano, la soppeso, la stringo e rilascio: è uguale alla mia ma non
perfettamente identica. Quando si usa un’arma per molto tempo, essa diviene
parte del corpo e la si può riconoscere con facilità tra mille altre dello
stesso modello. Comunque può andare. Credo che Eros se la sia procurata grazie
ai contatti intrecciati da Franco via internet.
Nel pacco c’è anche il biglietto, è tutto facile da ricordare. Lo strappo e
getto i coriandoli di carta nel WC.
Riponendo la pistola trovo anche un tesserino di accredito per il convegno.
Ufficialmente sono un giornalista di un importante quotidiano italiano.
Ora non devo fare altro che aspettare. Tre giorni che valgono trentatré anni…
oppure nulla.
* * *
Il taxi è rimasto incastrato per oltre mezz’ora nel traffico, scivolando a
fatica tra lamiere roventi e gas di scarico puzzolenti. Mi sono avviato in
anticipo, è una mia vecchia abitudine arrivare sempre in anticipo agli
appuntamenti e questo non lo posso certo mancare.
All’ingresso del teatro mostro il tesserino. Tengo il fiato sospeso, è più
facile vederlo fare nei film. Mi aspetto che il tizio mi chieda un documento, ho
già il passaporto pronto nella tasca della giacca. Invece mi guarda fisso in
faccia e afferra il cellulare dalla fondina in cintura. Ho un prurito terribile
alla nuca ma non oso compiere un movimento. Starà chiamando la polizia, porca
puttana, mi ha beccato subito, non ho nemmeno la faccia del giornalista. Mi
accorgo invece che il cellulare vibra, il tizio risponde con voce roca e
dall’altra parte ci dev’essere sua moglie, o forse la suocera, sento una voce
femminile concitata anche se non comprendo una parola di portoghese.
Mi restituisce il tesserino e con la mano mi fa cenno di passare.
In sala c’è ancora poca gente, un paio di tecnici sul palco provano i microfoni.
Mi siedo in quarta fila, nella prima poltrona, quella vicina al passaggio
centrale, così quando mi alzerò non dovrò disturbare nessuno e non avrò impacci.
Respiro profondamente, cerco di ricordarmi ciò che Nadia mi ha ripetuto infinite
volte: lasciare fuori i sentimenti da questa sala, pensare allo scopo finale
come il compito che uno scolaretto deve portare a termine nel modo più semplice
possibile. E soprattutto immaginare di essere al poligono di tiro, dove conta
solo realizzare il punteggio più alto.
Respiro ancora, cerco di liberare la mente da ogni pensiero, immagino di
trovarmi in riva a un oceano blu intenso… un blu riposante, rilassante.
* * *
Vorrei essere trasparente anzi, invisibile. Ho il terrore che qualcuno mi
rivolga la parola, non conosco la lingua e potrei essere smascherato in un
attimo. Un corrispondente che non conosce la lingua: impensabile e ridicolo. A
questo Eros non ha pensato. Ogni piano ha un punto debole, a volte le imprese
falliscono per un’inezia, un granello di odio che inceppa il meccanismo.
Mi faccio coraggio pensando che gli altri contano su di me, hanno avuto fiducia
per tutto questo tempo e non posso deluderli. Non è una questione mia personale,
loro ci sono dentro quanto me: sono nei miei occhi, nella mia mano, sono nel
borsello di pelle che mi penzola dalla spalla, appesantito dalla Sig Sauer.
La sala ora è gremita, parecchi fotografi gironzolano nei corridoi tra le
poltrone, ci sono anche un paio di telecamere ai lati del palco. Il brusio e
l’eccitazione della platea crescono.
Tre tizi salgono sul palco e prendono posto al tavolo. Una donna li segue poco
dopo, si siede al centro.
C’è un solo posto libero, alla destra della donna, che afferra il microfono e
comincia a parlare.
Perché lui non c’è? Mi sudano le mani. Un banale ritardo oppure un cambio di
programma? Anche questo Eros non l’aveva previsto. E Franco? Avrà ottenuto le
informazioni giuste oppure il suo contatto ha fatto il doppio gioco e la polizia
brasiliana mi sta aspettando fuori?
La donna ha terminato il discorso e passa il microfono all’uomo seduto alla
sinistra. Si leva un applauso poco convinto.
Ho l’impressione di trovarmi all’interno di una rappresentazione tragicomica, di
essere un burattino in mezzo a tanti altri… e mani invisibili a muovere i fili.
Ho immaginato così tante volte questa scena che ora mi sembra surreale. Per un
attimo mi sfiora il dubbio di quale senso abbia tutto questo ma ormai è tardi, è
il 6 giugno e oggi deve andare in scena l’ultimo atto della rappresentazione…
l’ultimo per quanto mi riguarda, almeno.
L’uomo sul palco continua a vomitare frasi incomprensibili… e lui non arriva. Mi
asciugo le mani con un fazzoletto di carta.
All’improvviso la donna strappa il microfono dalle mani del collega e grida
qualcosa. Si leva un forte brusio, i fotografi si accalcano ai margini del
palco.
Il bastardo esce da dietro le quinte a braccia levate, come una star. Sulla
faccia ha stampato il solito sorriso da deficiente, un sorriso lungo trentatré
anni con il quale si è fatto beffe della giustizia, dei parenti, della storia.
Applausi scroscianti e qualche fischio.
Il bastardo prende il microfono e parla. Lo ha imparato bene, il portoghese, si
capisce; vive quaggiù da un sacco d’anni, sotto l’ala protettrice di uno stato
che accoglie gli assassini come rifugiati politici. Lo considerano un
intellettuale, così gli pubblicano articoli, libri, interviste televisive. Lo
hanno persino invitato a tenere una conferenza all’Università di Belo Horizonte.
Se penso a quale feccia d’uomo egli sia, mi viene da vomitare. È un cancro per
la società, con quel ghigno beffardo si ritiene un super-uomo invece vale meno
di zero, non capisco perché gente così venga al mondo… gente così non merita di
vivere.
Il bastardo parla e intanto cammina sul palcoscenico, avanti e indietro, da
attore consumato. In trentatré anni non ha mai avuto un cenno di pentimento,
nemmeno una parola di scusa o quanto meno un principio di autocritica.
Gente così non merita di vivere.
Il bastardo si avvicina alla prima fila, dall’alto del palcoscenico continua a
cagare gli aborti delle sue idee storpie.
Non sento in bocca l’agrodolce della vendetta che avevo pregustato tanto a
lungo.
Ogni rumore cessa all’improvviso, non odo nemmeno più la sua voce anche se le
labbra tumide e volgari continuano a muoversi.
Mi alzo. Ho l’impressione di muovermi in uno spazio denso, come fossi immerso
nella gelatina.
Il bastardo diventa una sagoma da tiro a segno, proprio come Nadia mi ha sempre
detto.
Infilo la mano nel borsello, il metallo freddo della pistola mi procura un
brivido di piacere. La estraggo con calma, la punto sulla sagoma, il dito
accarezza il grilletto.
è una sensazione strana, è come se attorno si svolgesse tutto al rallentatore
mentre io mi muovo a velocità normale. Il tempo sembra espandersi a mio piacere,
posso persino vedere la pallottola uscire dalla Sig Sauer e perforare la fronte
del bastardo, mentre lui assume un’espressione stupefatta e ridicola.
La sagoma ondeggia, cade in avanti, si incastra tra le poltrone della prima
fila, con la testa reclinata proprio verso di me. Adesso non ride più.
Lascio cadere la Sig Sauer che non mi appartiene. è tutto finito e avverto un
gran vuoto, dentro.
Trentatré anni bruciati in un attimo… e il nulla, davanti.
Rivedo mio padre cadere sul marciapiede. Tre colpi alla schiena e il bastardo
che fugge… mentre mia madre prepara le orecchiette al pesto. Rivedo anche il
padre di Eros, il fratello di Nadia e Franco, lo zio di Giorgio… anche loro
colpiti a tradimento.
I suoni del mondo ricominciano a farsi sentire. Mi chiedo cosa ho fatto.
La sagoma viene sollevata e distesa a terra. Adesso non provo più odio, solo una
gran rabbia.
Già un attimo prima di sparare non odiavo più, eppure ho sparato. Del resto era
tutto programmato, da trentatré anni.
Avrei potuto spezzare la catena dell’odio ma non l’ho fatto. Avrei potuto
sconfiggere il destino nel quale mi sono ingabbiato ma ho scelto la via più
facile e anche la più vigliacca, perché il coraggio vero sta nel deporre le
armi.
Il bastardo è morto… ed io con lui.
Mi sento spingere, afferrare le braccia e i polsi, un frastuono insopportabile
mi esplode dentro la testa. Un colpo alla schiena mi fa piegare le ginocchia,
poi mi abbrancano di nuovo, mi sollevano.
Non oppongo resistenza, il piano non prevedeva la fuga.
La giustizia deve fare il suo corso, sempre.
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