I
Davanti a quei fogli, Marta non riusciva a capacitarsi. Le
ronzavano le orecchie, aveva la testa pesante, le gambe molli.
Il medico parlava con tono pacato, spiegandole i dettagli, ma lei non ascoltava.
Sentiva solo un bla bla confuso di cui non distingueva una sola parola.
Si chiedeva come suo marito avrebbe accolto la notizia. Chiamò per dirle che lo
avevano trattenuto in teatro, «Tarderò un quarto d’ora».
Ma il tempo le appariva dilatato e aveva perso importanza.
Le sembrava che il medico venisse da un’altra dimensione, lo vedeva muovere le
labbra con lentezza irreale, la sua voce era lontana. Si guardò intorno, le
parve di trovarsi in un luogo sconosciuto e ostile, come quando sei dentro a un
incubo, vuoi fuggire ma hai le gambe bloccate, vuoi gridare ma apri la bocca e
non esce un suono.
L’aria si fece di piombo, si sentiva mancare.
L’infermiera se ne accorse: «Signora Ansaldi, vuole un bicchiere d’acqua?»,
chiese, mettendole una mano sulla spalla.
Marta si riscosse, come risvegliata da un lungo sonno. «Scusi, non mi sento
bene. Sì, un bicchier d’acqua, grazie. E... per favore, può aprire la finestra?
Ho bisogno d’aria».
L’infermiera spalancò i vetri, un brivido attraversò Marta dalla testa ai piedi
come un elettroshock. Sul tavolo di fronte a lei, comparve dal nulla un
bicchiere azzurro pieno d’acqua fresca. Marta cercò di prenderlo, ma la sua mano
tremava talmente che ne versò metà per terra.
«Chiedo scusa, io...».
L’infermiera si chinò subito a pulire. «Stia tranquilla, non è niente».
La porta si aprì ed entrò Giorgio. «Permesso? Scusate il ritardo. Ciao, tesoro»,
la salutò, appoggiandole un bacio lieve sulla guancia. «Buongiorno, dottore».
Il medico lo invitò a sedersi. Poi gli porse la cartella con le analisi. Giorgio
la prese e guardò il medico con aria interrogativa e ansiosa.
«L’amniocentesi non lascia dubbi. Vostra figlia è affetta da sindrome di Down».
Marta, al risentire la frase, ebbe un sussulto e dovette bere di nuovo.
Respirava affannosamente, era sicura che da un momento all’altro la testa
sarebbe esplosa, sparando brandelli del suo cervello per tutta la stanza.
Cercando di mantenersi calmo, Giorgio domandò spiegazioni: «Ma è sicuro? Com’è
successo?».
Il ginecologo si schiarì la voce e iniziò: «Vede, il fatto è...». Marta gli parò
una mano davanti, non voleva sentire il perché e il percome. Si sentiva come
sulle pendici di un vulcano in fase di eruzione, sull’orlo di un abisso pronta a
inghiottirla, ma lei avrebbe lottato per non caderci dentro.
Raccogliendo la poca forza che le restava, disse piano: «Non sono importanti i
motivi, ma sapere a cosa andiamo incontro».
Giorgio scuoteva la testa, come un bambino che non capisce.
Smarrito, deluso, confuso, incredulo.
Down. Dalla memoria emerse un’immagine vaga di un allievo down in una classe di
musica, ma non ricordava altro che le sue difficoltà a star dietro alle
spiegazioni, la madre che, contravvenendo alle ferree regole da lui stabilite,
doveva assistere alle lezioni, perché il ragazzo aveva bisogno del fazzoletto o
chiedeva di andare in bagno o chissà quali altre diavolerie che interrompevano
la lezione, irritandolo tremendamente. Alla fine perse la pazienza e chiese a
quella madre di portare suo figlio altrove.
Gli allievi non aprirono bocca né si mossero di un millimetro, con il maestro
Ansaldi non si scherzava. Ma una di loro si alzò, ripose il violino nella
custodia, poi, fulminandolo con lo sguardo, se ne andò senza dire una parola.
«Io questa figlia non la voglio», disse. Marta si voltò di scatto verso di lui,
il medico ammutolì. Persino l’infermiera smise di sistemare l’archivio e lo
guardò a bocca aperta.
«Giorgio, che dici, sei impazzito?» Marta gli prese una mano, ma lui si
divincolò con un gesto brusco.
«Sono sanissimo, tu fai quello che ritieni giusto, ma sappi che non mi avrai
dalla tua parte. Mi scusi, dottore. Arrivederci». E lasciò lo studio.
Attonita e imbarazzata, Marta fu travolta da un uragano di emozioni, l’annuncio
che l’aveva colpita come una pugnalata alla schiena, l’ansia, la durezza di
Giorgio, tutto era decisamente troppo per lei, e scoppiò in lacrime.
L’infermiera le andò vicino. Il ginecologo abbassò la testa.
«Signora, è una reazione normale, succede. I padri fanno fatica ad accettare,
gli dia tempo. Adesso è sconvolto, ma capirà. Vada a casa, parlate. Insieme
riuscirete ad affrontare questa cosa».
Poi aggiunse: «Irene è disposta ad accompagnarla nella scuola dove va sua
figlia, così può vedere con i suoi occhi come vive una bambina down». Marta
guardò l’infermiera e capì perché si era dimostrata così comprensiva.
Irene sorrise, e Marta credette di vedere tristezza in quel sorriso. Ma si
sbagliava.
II
L’appuntamento era davanti a scuola. Irene la portò in
classe, dove la maestra, avvisata per tempo, le permise di rimanere per le
lezioni della mattinata.
Marta era perplessa, restia, diffidente. Rimase seduta a un banco troppo piccolo
per lei, accartocciata, con le braccia conserte e uno sguardo cupo.
Vide la piccola Giada andare alla lavagna per un’interrogazione, tornare a posto
con un sette, sentì la maestra rimproverarla perché suggeriva le risposte a un
compagno che non aveva studiato, udì la sua voce unirsi a quelle degli altri
bambini durante la recita quotidiana delle preghiere con don Gianni.
Nell’intervallo, Giada mangiò la sua merenda chiacchierando e scherzando con i
compagni, poi andò in bagno a spazzolarsi i capelli, ma siccome non riusciva a
farsi le trecce, chiese alla sua amichetta di aiutarla.
Al termine delle lezioni, corse incontro a sua madre e le abbracciò le gambe.
Irene si caricò in spalla lo zaino, poi, presa Giada per mano, si diresse verso
Marta, che sembrava non aver sentito la campanella ed era ancora seduta nel suo
banchetto, con lo sguardo fisso su una piastrella del pavimento.
“Allora, com’è andata?”, le chiese Irene.
Marta alzò gli occhi, deglutì, scosse la testa.
“Non so – rispose con voce metallica –. Forse ha ragione mio marito».
Irene posò lo zaino e si sedette in un banco accanto a Marta. In piedi dietro a
sua mamma, Giada le accarezzava i bei capelli biondi, che adorava. Aveva anche
fatto un disegno, appeso in classe accanto ad altri, dove la mamma aveva i
capelli lunghi fino a terra come Raperonzolo. Davanti a lei, c’era un grosso
gatto rosso, sotto il quale Giada aveva scritto “Il mio migliore amico”. Quando
la maestra le chiese perché lo considerasse il suo amico più caro, rispose:
“Perché lui di me non sa niente, ma mi vuole bene lo stesso”.
«Non voglio dire che sarà facile, ma neanche così difficile come pensate. Anche
per noi è stata dura all’inizio. Ma vede, se smettiamo per un attimo di pensare
che i figli devono per forza uscire tutti perfetti, come nelle pubblicità, cosa
che in realtà è solo un nostro desiderio, una nostra egoistica proiezione,
capiremo che un figlio come Giada aiuta a ridimensionarci. Quest’anno ha voluto
che la iscrivessi a danza. Quando ho capito che non diventerà l’étoile della
Scala, mi sono chiesta: desidero che diventi la prima ballerina per me o per
lei?».
Marta non capiva.
Irene spiegò: «La figlia di una mia amica è una brava danzatrice, ma vuole fare
la veterinaria. Dopo la terza media, voleva andare allo scientifico. La madre,
che è una ballerina mancata, ha voluto a tutti i costi che si iscrivesse al
liceo coreutico del teatro. La ragazza piange tutti i giorni, ha smesso di
mangiare. La madre l’ha portata in studio perché non ha più le mestruazioni.
Dice che è contenta, una vera ballerina dev’essere magra. Capisce? Le sta
bruciando le ali per realizzare attraverso di lei quello che è il suo sogno
fallito. Sulla pelle di sua figlia. Che non balla per sé, ma per sua madre.
Dobbiamo smetterla di considerare i figli un nostro prolungamento, loro non
nascono per realizzare le nostre aspettative, non sono “nostri”. Ogni passo,
ogni progresso di un bambino che cresce è prezioso, ma con Giada è una conquista
enorme. Grazie a lei ho capito che cosa è davvero importante per un genitore».
Rientrando da teatro, quella sera Giorgio trovò Marta seduta in salotto, la
tavola non preparata.
«Dobbiamo parlare», disse lei.
«Non voglio parlare, se l’argomento è quello che immagino».
«Non puoi fare così, è sempre nostra figlia».
Giorgio sbattè la giacca su una poltrona. «Tua figlia, se mai».
«Questa è una vigliaccata, indegna di un uomo intelligente qual sei. Ti prego,
rifletti...».
Giorgio ebbe un gesto di stizza. «Ho già riflettuto. So quello che dico. Sarebbe
un’esistenza durissima, impossibile. Là fuori c’è il mondo, quello vero, dove
nessuno fa sconti, dove è già difficile campare decentemente se si è normali,
figuriamoci in un’altra condizione. Vedo io nel mio ambiente, ti divorano se non
sei più che bravissimo e perfetto. Si fa un bel blaterare del diverso, in realtà
la vita sarebbe feroce con lei, ed io non intendo investire anni ed energie in
un... un violino scordato! Perché questo è! E in un’orchestra un violino che
stona viene buttato fuori!».
Marta saltò su: «Ma come parli? Gli esseri umani non sono strumenti! Tu hai
paura per te stesso, non per lei! Sei tu che non sopporti l’idea di un figlio
così!».
Giorgio si sedette. «Guardami negli occhi, Marta. Sarebbe un inferno. Io mi
chiamo fuori, hai capito bene? Non contare su di me».
III
Seduta su una panchina del parco, Marta piangeva senza
ritegno, la faccia fra le mani, le spalle scosse dai singhiozzi. Si sentiva
terribilmente sola, davanti a una montagna che non aveva valichi né accessi.
Giorgio così lontano, di pietra, e contro di lei, per la prima volta nella loro
vita insieme.
D’un tratto, le venne in mente sua nonna Clementina. Era un donnone da far paura
persino agli uomini, che faceva rigar dritto sei figli più il marito a
cominciare dalla sveglia: tutti giù dal letto alle cinque del mattino, in
cortile a lavarsi con acqua fredda senza tante storie, “anche dietro alle
orecchie!”, intimava lei. “Colazione, forza!”
A tavola, era un vociare allegro e confuso, e a volte nemmeno l’ugola tonante
della nonna riusciva a sovrastare quel chiacchiericcio impertinente e lieto.
Tempo mezz’ora, tuniche e grembiule per le bambine, calzoni per i maschi, e via
a lavorare. Turni e gerarchie erano stabilite dalla nonna la sera prima e guai a
chi sgarrava: mungere le mucche, rastrellare il fieno; poi a raccogliere le uova
nel pollaio, nutrire i conigli, guardare i maiali, badare alle capre.
Nessuno mai si lamentava, anzi in quella casa regnava sempre un’atmosfera di
festa.
Marta ricordava le estati che trascorse nelle Langhe da nonna Clementina come le
più belle della sua vita. Appena arrivata, si toglieva calze e scarpe e se le
dimenticava fino a settembre, quando era ora di tornare in città.
Isa, la zia che non si era sposata, la viziava ingozzandola di torte e biscotti,
zio Lucio la portava a cavalcare a pelo su Nelly, la vecchia giumenta che, dopo
una vita di lavoro, si godeva felice la pensione giocando nei prati con i bimbi.
Zio Bepi le insegnò a nuotare, giù al Belbo, quando le acque erano ancora così
pulite che si vedevano i gamberi e i girini le passavano davanti al naso mentre
sguazzava a pancia in su, e zia Ernestina raccoglieva i fiori.
Spesso, dopo un temporale, il nonno veniva a svegliarla alle tre del mattino per
andare a funghi in certi posti che conosceva solo lui: veniva anche Bepi, che
già da ragazzo era un cercatore esperto e corteggiatissimo.
E poi c’era Giacomo.
I nonni lo avevano avuto per ultimo, non previsto, quando la nonna era già, per
l’epoca, una madre vecchia. Era un bambino che senza troppi complimenti e giri
di parole tutti in paese chiamavano “deficiente”.
Aveva sempre un’aria smarrita e trasognata. Imparò a parlare tardi, esprimendosi
con frasi elementari, e non venne mandato a scuola.
Dimostrando uno spirito pionieristico singolare per quei tempi, la nonna decise
però che anche lui doveva imparare e leggere e scrivere come tutti: gli piazzò
accanto Giovanni, il padre di Marta, perché ogni sera, di ritorno dai campi,
facesse lezione a Giacomo mentre lei cucinava, senza perderli d’occhio.
«Raddrizza la mano, la matita non è una zappa», lo correggeva la nonna.
Giovanni gli insegnò a fare le aste, poi le lettere in stampatello, e come Dio
volle alla fine della prima estate Giacomo aveva imparato a scrivere il suo
nome.
Ci volle un’altra estate perché Giacomo arrivasse a leggere almeno gli annunci
mortuari e il messalino; anche don Marco, infatti, si era offerto di aiutare il
bambino, e lo faceva venire in sacrestia nel pomeriggio per esercitarsi sulla
Bibbia.
Marta ricordava che fu zio Giacomo a insegnarle l’Angelo di Dio, la più bella
preghiera che lei avesse mai imparato e che recitava con lui tutte le sere prima
di andare a dormire.
Alla cerimonia della sua Prima Comunione, Giacomo riuscì a leggere un intero
passo di Vangelo. Lentamente, una parola per volta, ma senza fare un solo
errore. La nonna aveva le lacrime agli occhi, ma Giovanni raccontò a Marta che
quando le chiese se stava piangendo, lei gli diede uno scappellotto sulla nuca e
brontolò: «Pensa agli affari tuoi, monello! Mi dava fastidio un moscerino».
La nonna scoprì solo in età avanzata che Giacomo, oltre ad avere un grave
ritardo mentale, era dislessico. Una parola sconosciuta alla sua epoca. «Ma
anche se avessi saputo che cosa aveva, nel mio cuore non sarebbe cambiato
nulla», disse una volta a Giovanni.
A Giacomo venivano affidati compiti che fosse in grado di svolgere, ma se per
caso frignava balbettando “Non sono capace!”, nonna Clementina lo riprendeva
brusca: «Che significa non sei capace?! Provi, finché impari! Non credere che
perché sei più bellino degli altri io ti faccio dei favori, sai?». Gli
scompigliava i capelli sorridendo, la nonna, e gli altri capivano e andavano ad
aiutarlo, tutti insieme.
Accadde che Giacomo sbagliò a girare la manovella e tutte le bucce di pomodoro
finirono nel pentolone della polpa per la conserva. Era mortificato. Farfugliava
che non lo aveva fatto apposta, ma la nonna ebbe uno scatto e gli urlò in
faccia: «Ma insomma, dove hai la testa? Guarda che pasticcio, qui!». Battendo
forte una mano sulla pentola, uno schizzo di pomodoro la colpì in pieno viso, e
Giovanni, che era uno che cercava sempre di vedere il lato comico della vita,
scoppiò a ridere.
Gli altri, ammutoliti, si guardarono. Poi zio Lucio si fece scappare una
risatina, e zia Ernestina lo seguì, e il cugino Bepi, e insomma finì in
battaglia di pomodori, con bucce che volavano per tutto il cortile, Giacomo che
sghignazzava e la nonna che cercava invano di riportare l’ordine, ma in fondo si
divertiva anche lei.
Alla sera, ovviamente bagno extra per tutti, impose la nonna, o niente cena. Non
si parlò d’altro che della battaglia, e Giacomo ebbe razione supplementare di
polenta. Rideva come un matto, e la nonna gli disse: «Sì, sì, sei un bel
furbacchione tu, va’! Domani però pulisci bene fuori», cosa che peraltro non fu
necessaria, ci avevano già pensato capre e galline prima di essere ritirate.
L’indomani, quando la nonna aprì il pollaio, trovò dappertutto escrementi di un
bel colore magenta... Chiamò l’intera famiglia a vedere quel prodigio e tutti si
sgnanasciarono di risate. Per Marta, che era solo una bambina, si resero
necessarie spiegazioni supplementari.
Quel mattino di tanti anni dopo, Marta ricordava e le domande aumentavano.
Forse erano dei pazzi incoscienti, sempre allegri in quel modo? Cosa c’era mai
di divertente? Non sarebbe stato saggio prendere tutto più seriamente?
Decise di capirne di più. Andò da suo padre a chiedere chiarimenti.
«Vieni, ti offro un caffè», propose lui. Seduti al bar, papà le raccontò il
segreto della sua famiglia.
«Non è che non eravamo capaci di essere seri – disse – ma il dramma veniva
tenuto fuori dalla porta di casa nostra. La vita è già tragica di suo, non c’è
bisogno anche di prenderla tragicamente. La nonna diceva che Dio sa quello che
fa, siamo noi uomini a non capire».
I fratelli insegnarono a Giacomo a far di conto, a riconoscere le banconote, a
leggere gli orari dei treni e una volta la nonna lo spedì da solo fino a Cuneo e
ritorno, perché capisse come fare il biglietto senza finire a Timbuctù.
Sul letto di morte, la nonna disse a Giovanni, il maggiore: «Abbi cura di
Giacomo. Ma non troppa, lascialo anche fare da solo, o non crederà mai in se
stesso».
IV
«Se pensa di interrompere la gravidanza, deve farlo entro
questo mese, o va fuori dai termini di legge», le spiegò il ginecologo.
Marta prenotò l’intervento e cerchiò la data sul calendario. Quel giorno,
Giorgio aveva un concerto: tanto meglio.
Con largo anticipo, preparò la borsa, pigiama, sapone, asciugamano.
La notte prima, quasi non dormì. Ma si svegliò per tempo e arrivò puntuale in
ospedale. L’infermiera le indicò il lettino. «Si svesta e indossi il camice,
torno subito per farle la preanestesia».
Marta si tolse lentamente i vestiti. Avvolse i capelli in un mollettone. Infilò
il camice.
Le sette.
Alle nove, dissero, sarebbe stato tutto finito e si sarebbe risvegliata tre ore
dopo. Le spiegarono che avrebbe avuto emorragie per qualche giorno, doveva
mangiare leggero e stare a letto. Le prescrissero delle pillole, antibiotici
vari.
Dopo un anno, avrebbe potuto ritentare una gravidanza, se credeva, previo esame
e controlli sparsi.
Si voltò verso la finestra. Un pallido sole filtrava attraverso i vetri
impolverati.
Gli alberi iniziavano a perdere le foglie.
Chiuse gli occhi.
Sì, presto sarebbe finito tutto.
Quando l’infermiera tornò, il camice era sul lettino, ripiegato.
Interdetta, con la siringa in mano, corse fuori dalla stanza, appena in tempo
per vedere Marta che si avviava verso l’uscita.
«Signora! Ma dove va? L’intervento è fra mezz’ora, devo farle l’iniezione!».
Marta si voltò e si fermò un istante.
Appogiandosi una mano sul ventre, disse:
«La chiamerò Clementina, come mia nonna».
Fuori, respirò un’aria meravigliosa di vita, di promesse e speranze.