In questo anno per voi molto particolare, mi avete invitato
affinché vi parli di me e del mio tempo; questo m’intimidisce, mi pare insolito.
È molto raro che avvenga.
Sono nata povera e semianalfabeta ed ho sempre posseduto soltanto la veste che
indossavo e un paio di scarpe, quando le avevo. E un cavallo, certo, perché se
di qualcosa posso vantarmi è di essere stata sempre una buona amazzone,
superiore a molti uomini.
Ora voi mi chiedete di quegli anni appassionanti e drammatici che ho vissuto con
il mio Josè, l’uomo della mia vita. Ben altri uomini e donne potrebbero
parlarvene, ma giacché è me che avete invitato questa sera, ci proverò. Qui non
ho più problemi con la vostra lingua, come con nessun’altra lingua. Qui tutto è
più chiaro e molte domande hanno finalmente risposta.
Mi chiamo Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva e dalla mia ho sempre avuto la
bellezza e l’agilità. Josè mi chiamava la sua gazzella scura e ammirava il mio
grande coraggio. Quello che mi consentì di cavalcargli a fianco nelle battaglie
di Laguna, Santa Vittoria, San Antonio e molte altre. Cavalcare… sì andare a
cavallo lui lo faceva, nel senso che stava in sella, ma per me cavalcare era
un’altra cosa. Glielo insegnai poco a poco, sera dopo sera, durante le nostre
galoppate lungo la spiaggia, dove restavamo per ore a far l’amore abbracciati
sotto la luna. La prima volta che lo vidi fu in chiesa, con alcuni comandanti di
quella disperata impresa che fu chiamata “repubblica giuliana”. Per non
deluderlo però, gli feci sempre credere che mi avesse visto lui per primo, col
binocolo e dalla tolda del suo lancione. Era una calda e sfolgorante giornata di
luglio, che dalle nostre parti non è molto comune in quella stagione; il cielo
era terso e la brezza portava l’odore del mare, quello da cui lui proveniva. Fu
il destino che lo condusse dentro casa, anche se l’invito a entrare per un caffè
era di mio marito; a volte la vita è così, ci fa credere che siamo noi a
costruire la nostra rovina. Nell’istante in cui lui ed io ci guardammo, restammo
entrambi pietrificati. Come se «cercassimo nei nostri lineamenti, un tratto che
ci ricordasse una reminescenza, un sogno. Come se non ci vedessimo per la prima
volta».
Portava in capo un cappellaccio malridotto, che nascondeva a malapena i lunghi
capelli biondi. Più tardi quelli che l’odiavano scrissero che portava i capelli
lunghi per nascondere un orecchio in parte mozzato, ma non riuscirono nemmeno a
mettersi d’accordo sul motivo. Chi l’attribuiva ad una punizione come ladro di
cavalli, chi come violentatore di donne. È falso, perché dalle mie parti i ladri
li impiccano ed i violentatori li castrano. E lui non lo era, ve lo assicuro.
Gli agiografi invece, scrissero dei suoi occhi di un azzurro tendente al viola,
del suo corpo ben costruito, con larghe spalle e petto quadrato. In realtà
soffriva d’insopportabili reumatismi, era alquanto basso ed i suoi occhi erano
castani. Ma a me piacque subito, dal momento in cui posò su di me il suo primo
sguardo; aveva qualcosa di magnetico, d’irresistibile. Fu così sfrontato da
dirmi «Tu devi essere mia» davanti a mio marito, ma non conosceva la nostra
lingua e lo disse nella sua, per fortuna. Io però lo compresi e lo fui sua, da
subito. Lasciai mio marito e la vita da schiava che con lui conducevo, dall’età
di sedici anni. Da quel giorno fui per Josè compagna, amica, amante e infine
moglie, per tutta la mia breve vita. Gli diedi quattro figli e l’amore che
nessun’altra, né prima, né dopo, seppe dargli.
Aveva attraversato gli oceani per anni, aveva visto luoghi meravigliosi e infine
il destino lo aveva portato sino a me. Io gli mostrai la bandiera verde, bianco
e giallo oro della repubblica giuliana, quella che mi aveva regalato mio zio
Antonio, quando era entrato con i rivoluzionari a Laguna. Josè mi sorrise,
perché era anche lui un rivoluzionario. Aveva occhi intensi, acuti, che sapevano
incitare gli uomini alla battaglia e nel contempo rivolgersi a me con tenerezza.
Sognai di vivere con lui in una piccola casa affacciata sul porto, in modo che
non gli mancasse la vista di quel mare che amava tanto, ma non fu possibile.
Dopo le notti sulla spiaggia piene di passione, ci avvisarono che la flotta
governativa si era riorganizzata e voleva riprendere la città. Da quel momento
fu un turbinare di azioni, nelle quali io stessa faticavo a riconoscermi.
Quell’amazzone che impugnando la pistola, incitava gli uomini a far fuoco,
ancora più fuoco, quella donna che sparava il primo colpo di cannone contro la
flotta imperiale, ero proprio io? Oppure era la presenza di lui, del mio Josè,
che m’infondeva quell’ardore, che non mi faceva nemmeno sentire il dolore delle
ferite quando, assordata dall’esplosione, emersi da un mucchio di cadaveri? Lui
mi guardava stupito e per togliermi dal pericolo mi ordinò di mandare un
portaordini a chiedere rinforzi; stavamo subendo la preponderanza della flotta
governativa. Non c’era tempo e saltai a cavallo, percorrendo a rotta di collo la
baia, sotto il fuoco nemico. Più tardi nel letto, mentre mi prendeva, mi chiamò
«figlia del fuoco, spirito del fuoco, addensamento del sangue, vapore rosso…».
In seguito fummo costretti ad affondare le nostre navi e continuare a combattere
a cavallo, patendo la sete, la fame e la fatica; ci nutrivamo di ciò che
trovavamo, persino bacche e radici. Esausti, affamati e distrutti dal tormento,
in 500 riuscimmo comunque a sconfiggere 2000 governativi. Poi non potemmo far
altro che ritirarci ed io restai indietro, il mio cavallo fu abbattuto e fui
fatta prigioniera. Incinta di sette mesi ero come pazza, credevo che me
l’avessero ucciso, che non l’avrei più rivisto. Il comandante nemico, vedendomi
in quello stato, mi diede due uomini di scorta e mi lasciò cercare il suo
cadavere. Fu terribile aggirarmi tra tutti quei volti sfigurati, che parevano
rivolgere una muta protesta contro il destino che li aveva colpiti. Per fortuna
lui non c’era e la speranza tornò a farsi sentire, a spingermi a liberarmi delle
due guardie e a fuggire guadando un fiume in piena, afferrata alla coda del
cavallo.
Dopo quattro giorni lo ritrovai e quando me lo vidi davanti scoppiai in lacrime;
pochi giorni dopo nacque il nostro primo figlio. Quando lo prese in braccio si
spaventò, perché aveva un’ammaccatura sulla testa, dovuta ad una mia caduta da
cavallo. Ci rifugiammo in una fattoria abbandonata e priva di tutto e per
procurarci il cibo, lui decise di andare in un paese che distava un centinaio di
chilometri. Mi lasciava sola per la prima volta da quando ci conoscevamo e avevo
il petto oppresso da un presentimento. Temevo per lui e invece era per me e per
il mio figlio di dodici giorni che dovevo temere. Prima di sera il podere venne
circondato dai governativi ed io, per non farmi catturare, dovetti montare a
cavallo senza sella, seminuda e con il figlio in braccio. Furono giorni
terribili. Rifugiata in un bosco, avevo solo i rami e le foglie per ripararci
dal freddo e bacche e frutti selvatici per nutrirmi. Per fortuna non persi il
latte ed il piccolo poté essere nu-trito.
Il destino volle ancora che ci ritrovassimo, stremati, abbrutiti dalla fatica,
ma insieme. Intorno a noi gli uomini fuggivano, senza alcuna speranza e voglia
di battersi. Josè fu costretto a sopprimere i nostri amati cavalli per sfamarci.
La rivoluzione era finita, ma prima di spegnere ogni resistenza, i governativi
impiegarono altri quattro anni. Quella fu la prima delle tante delusioni che
patimmo nei dieci anni che ci videro insieme. Nello sfacelo generale, scoprii
ciò che più volte accadde anche in seguito. Josè ed io avevamo il potere di
raccogliere intorno a noi uomini meravigliosi, che si mantenevano fedeli sino
all’ultimo istante. Una quarantina di questi ci seguirono nello stato vicino, ma
ormai non c’era più scopo a stare insieme e per giunta era pericoloso.
Ci dicemmo arrivederci sotto un cielo illuminato da un tiepido sole d’aprile,
già un anticipo di calda primavera, e partimmo per raggiungere il comando
repubblicano. In cambio di tutte le battaglie vinte, delle città conquistate,
insomma di tutto quanto avevamo fatto per la repubblica, non ricevemmo in paga
né oro, né denaro, ma solo 900 capi di bestiame. Una paga ridicola, che per
poterne ricavare di che vivere ci costringeva a trasformarci ancora una volta.
Con la perdita delle navi avevamo dovuto trasformarci da corsari in guerriglieri
ed ora dovevamo trasformarci in mandriani. Quando giungemmo finalmente a
destinazione non ci restavano che le pelli di 200 animali, con le quali Josè mi
comprò un vestito a fiori. C’era di che scoraggiarsi e disperare, ma né lui né
io eravamo persone da farlo. Josè, guardandomi negli occhi mi disse: «Io marcio
a cavallo con la donna del mio cuore, che tutto il mondo m’invidia e ammira. Che
m’importa di non avere altro che quello che indosso e di servire una povera
repubblica che non può nemmeno pagarci? Ho la sciabola, la carabina ed una donna
che è un tesoro, che condivide il mio ideale».
Era davvero così, condividevo davvero il suo ideale? Più volte me lo chiesi nei
giorni e negli anni che seguirono, ma non seppi darmi risposta. Non riuscii mai
a capire come potesse battersi per il riscatto di popoli che nemmeno conosceva,
come riuscisse addirittura ad amarli senza chiedere nulla per sé e per noi, che
eravamo la sua famiglia. Nelle notti in cui stavamo a parlare per ore, dopo aver
fatto l’amore, mi diceva che l’incontro con un filosofo francese gli aveva
cambiato la vita. Gli aveva fatto scoprire che chi va ad offrire la sua spada ed
il suo sangue a ogni popolo che lotta contro la tirannia, è un eroe più che un
soldato. E lui voleva essere un eroe. Potevo capire la lotta per la libertà, ma
questo non lo comprendevo, come non capivo altre cose, troppo grandi per me. I
suoi incontri segreti con un gruppo di massoni – di cui faceva parte – e quelli
con il console inglese, in cui si parlava del destino di popoli di cui non avevo
mai sentito e che non sapevo nemmeno dove vivessero. Forse la mia ignoranza
m’impediva di comprenderlo, ma non m’impedì mai di amarlo fino in fondo, fino
all’ultimo istante. Perché era lui il mio ideale, il mio uomo. Perché quando mi
baciava, quando passava le mani sul mio corpo, sentivo di essere sua, ancor
prima che entrasse in me. «In piena notte, quando scendi dal letto, la tua
camicia di luna è un lungo strascico azzurro» mi disse in un attimo pieno di
passione.
Di quegli anni il ricordo si è offuscato. I giorni passavano lenti e monotoni,
lui a cercar di guadagnare qualcosa come ambulante e poi come insegnante, io a
fare la lavandaia. Vita dura, mancava tutto, ma non l’amore, che ci regalò una
figlia e portò Josè a sposarmi in una chiesa che aveva il nome di un grande
santo del suo paese. Io non ci tenevo, mi bastava averlo accanto, ma lui lo fece
per i nostri figli, perché avessero un padre riconosciuto dalla legge. Io ero
felice, il mio sogno si stava avverando e le privazioni non mi pesavano, perché
avevano sempre fatto parte della mia vita. In alcuni momenti però, scorgevo in
lui segni d’irrequietezza, un gesto nervoso, uno scatto d’insofferenza verso il
figlio, che pure amava tanto. Il corsaro, il condottiero, l’aspirante eroe,
tutti i personaggi che aveva impersonato e che ora erano riposti in qualche
angolo del suo animo, reclamavano forse di riprendere la scena, di tornare a
vivere? Non ho mai avuto rivali tra le donne, anche se di molte sono stata
gelosa, pazzamente gelosa. Un giorno, sospettando di una inglese, lo costrinsi a
tagliarsi barba e capelli per farlo diventare meno affascinante. Poi dato che
non bastava, andai da lui con due pistole cariche e gli dissi; una è per te e
l’altra è per lei, decidi tu.
Potevo competere con qualsiasi donna ma non con la sua amante preferita, quella
che non riusciva a dimenticare: la guerra. «Josè – gli dissi un giorno – ora io
non sono più una guerrigliera, ora sono sposa e madre. Con due figli ed un altro
in arrivo, non potrei seguirti se tu tornassi a combattere». Purtroppo non servì
a molto e attraverso il consolato inglese riuscì ad avere il grado di colonnello
e il comando di quattro navi malandate, ciò che restava della flotta. In quella
guerra c’era tutto quel che ci voleva per attirarlo; un dittatore da abbattere
ed un assedio da spezzare. Il suo insigne avversario scrisse più tardi che la
fama di Josè come uomo retto e coraggioso, era fondata e che il vederlo al posto
di comando sulla poppa della sua nave, gli aveva dato l’impressione che uomini e
navi obbedissero solo alla sua volontà. Si era persuaso che fosse un vero eroe
in carne e ossa destinato a grandi cose. Ed ecco ancora quella parola, "eroe",
pronunciata addirittura dal nemico. Mentre gli altri nemici meno importanti e la
stampa conservatrice del suo paese lo descrivevano come pirata, ladro, bandito.
Combatté per due anni mentre io badavo ai bambini e tentavo in tutti i modi di
allevarli senza troppe privazioni; purtroppo non potevo prevedere l’epidemia di
scarlattina che colpì la città e uccise la mia piccola.
Sarei stata capace di sopportare tutto, sacrifici, sofferenze fisiche e
delusioni, ma quel dolore sconfinato, che bruciava nel petto come fuoco, no,
quello non potei accettarlo e impazzii, letteralmente. Lui lasciò la nave, venne
da me e mi trovò che deliravo, chiamando disperatamente la mia piccola. Mi prese
con sé e mi portò sul campo di battaglia. Il dolore dei feriti che curavo come
infermiera, lentamente lenì il mio e Josè poté tornare alle sue imprese eroiche,
sbaragliando con 190 uomini, 1200 regolari nemici.
Il Presidente della Repubblica, riconoscente, ci offrì un grande appezzamento di
terra con case e mandrie di bestiame; poteva essere la nostra occasione, visto
che la famiglia nel frattempo era cresciuta. In lui però ardeva sempre quella
fiamma, che qualcuno chiamerebbe demone e altri sacro fuoco. Avrei voluto che
accettasse, l’avrei voluto con tutto il cuore, ma io e le nostre creature
eravamo una sola cosa con lui. Eravamo «amore, spiga, fuoco, e un solo sangue ci
scorreva nelle vene ed era come un fiume». Volle tornare nel suo paese, dove era
in corso una rivoluzione, facendoci partire prima di lui e accompagnati da un
suo luogotenente. L’incontro con sua madre, religiosa e bigotta, fu carico di
tensione, perché mi vedeva più come una donna divorziata, che vedova. Stavo
quasi per tornare indietro quando lui arrivò. Appena il tempo di salutarci e
ripartì, rapito da quella mia rivale, più potente di qualunque fascino io
potessi avere. Questa volta però parve che fosse quella buona, che la
rivoluzione andasse a buon fine. Nella capitale si era instaurata una repubblica
e quando lui vi giunse con i suoi, che a molti parvero più banditi che soldati,
non ebbe rivali. Tuttavia venni a sapere d’improvviso che stava male, i
reumatismi lo stavano uccidendo ed era costretto a farsi issare a cavallo da due
uomini.
Combattuta tra l’amore di madre e quello per il mio uomo, ancora una volta corsi
da lui. Lo curai, gli ridiedi la fiducia in se stesso e la memoria del mio
corpo, che pareva aver dimenticato. Quando seppe che ero ancora una volta
incinta, m’impose di ritornare ai miei figli e di riposare, pensando al nuovo
essere che portavo dentro. Ora che tutto mi è chiaro, ora che il velo che copre
i vostri occhi per me non esiste più, è facile pensare a quanto potevo fare e
non ho fatto. In quei momenti invece, tutto era caotico e concitato intorno a
me, le buone notizie si alternavano a quelle tremende e intorno a noi cadevano
amici che ci avevano seguito per anni. Sembrava che la morte prediligesse i più
giovani e più belli, quasi fosse una vecchia bagascia assetata di gioventù.
Erano passati appena pochi mesi e già il sogno repubblicano si stava infrangendo
contro la spietatezza della realtà, quella che lui non aveva mai saputo vedere,
accecato com’era dai sogni di eroismo e di libertà. In breve tempo la situazione
si rovesciò e la città si trovò accerchiata da truppe straniere di molto
superiori. Josè e i suoi, quelli che erano rimasti dalla guerra d’oltreoceano,
non cedettero mai, nemmeno di fronte all’artiglieria; ma tutto precipitava
irrimediabilmente. Non mi sentii più di avere notizie di lui dai giornali o dai
pochi messaggi che m’inviava. Dovevo raggiungerlo e lo feci, incinta di quattro
mesi. Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, giurai di non
lasciarlo mai più. Questa volta gli tenni testa e non accettai i suoi ordini,
non volli fuggire da sola. Mi vestii da soldato, tagliai i capelli e partii
insieme a lui. Mi pareva di essere tornata indietro nel tempo, quando cavalcavo
al suo fianco su quella spiaggia dove ci eravamo amati per la prima volta.
Tornavo ad essere la gazzella scura, la sua amazzone, nascondendo a fatica la
febbre e le sofferenze che quella fuga precipitosa e senza tregua mi causavano.
Lui che mi conosceva così bene però se ne accorse e mi chiese ancora una volta
di fermarmi in una di quelle fattorie che mi avrebbero offerto rifugio. Voleva
forse lasciarmi sola – gli chiesi - tra estranei di cui non parlavo la lingua?
Ripartimmo per strade deserte, con la febbre e la sete che mi divoravano e un
solo breve sprazzo di sollievo: il succo meraviglioso di un melone. Intorno a me
le cose apparivano offuscate e cadevo sempre più spesso nell’incoscienza.
Sentivo solo attraverso i pochi sensi rimastimi. Il lento dondolio di un
birroccio, un trasporto a braccia, le sue ne sono certa, il beccheggio di un
barcone e l’odore del pesce. Eravamo tra pescatori. D’improvviso, due colpi di
cannone ruppero il silenzio e sentii la sua voce autoritaria che ordinava ai
suoi di sbarcare per non mettere in pericolo la vita di quei poveri pescatori
che avevano tentato di salvarci. Tutto si faceva più lento e lontano, come se
stessi scivolando verso un mare di oscurità e silenzio. Anche la sua voce era
divenuta distante. «Voi non potete neppure lontanamente immaginare – lo sentii
dire a chi gli stava vicino – quali servigi mi abbia reso questa donna… la
tenerezza che nutre per me! Io ho verso di lei un immenso debito di riconoscenza
e d’amore… Lasciate che mi segua!».
In questo luogo in cui i ricordi sono l’unica forma di vita, non sono le
battaglie al suo fianco o il mio cavalcare indomito con i capelli al vento e la
sciabola sguainata che ricordo, no. Quella è l’immagine che a voi è rimasta di
me, dipinta o scolpita nell’alabastro, immota e immutabile per sempre. Io qui
vivo solamente per la memoria di tutte le parole che mi rivolse in quell’estate
indimenticabile:
«Tu splendida amazzone, i miei occhi ti scoprono nuda, tu sei il mio ideale, il
mio sogno, pensiero che si fa donna, il mondo vero, la mia vita e la mia morte».
Che m’importa ora se per lui lasciai il mio paese, la mia casa e lo seguii,
straniera in terra straniera. Che m’importa se in dieci anni provai delusioni e
privazioni. Sapevo ciò che mi aspettava. Lui l’aveva detto più volte ai suoi
uomini: «Io non offro né paga, né quattrini, né provvigioni. Offro fame, sete,
marce forzate e morte». Io le provai tutte queste cose, seguendolo anche nel suo
ultimo sogno infranto e durante la fuga tra sentieri impervi e canneti. Terre
che mi ricordavano le lagune in cui sono nata.
Che m’importa se mentre morivo, sentivo morire anche la creatura che mi portavo
dentro… Io lo rivedo come in quel momento, rivedo il suo amato volto chinarsi su
di me e mormorarmi: «Anita, anima mia, non abbandonarmi».