SEZIONE B: RACCONTI - FIABE - NOVELLE
PRIMO
PREMIO
FABRIZIO BIANCHINI di Pollenza (MC)
NEL BUIO
Il buio.
Per qualcuno è una parola. O un’idea. O solo la notte.
Per noi è la parete di roccia a cui siamo appoggiati. I trecento metri che ci
separano dalla luce del sole. Il sudore appiccicato alla pelle. L’acqua che non
c’è. Il terrore che la squadra di emergenza non riesca a tirarci fuori. L’aria
viziata. Il silenzio rotto di tanto in tanto dai singhiozzi sempre più flebili
di Lorenzo e dalle mie parole per rincuorarlo. Il fango in cui siamo seduti.
Il buio sospende tutto.
È il nulla. Assoluto. Putrido. Osceno.
Siamo nel buio della miniera Nordest da quando si sono spente le lampade a
carburo. Ore, o forse mille anni fa. Dentro questo sacco nero il tempo non
passa, piuttosto è un unico istante che si srotola sempre uguale a sé.
Io e Lorenzo avevamo appena terminato di scaricare la pirite da un vagone,
quando un tuono ha devastato l’aria dietro di noi e una nuvola bianca ha invaso
i nostri occhi e i polmoni.
Sono entrato in miniera nove anni fa, appena finita la guerra, e questa è la
prima volta che rimango prigioniero di un crollo. Ne avevo solo sentito parlare:
frasi smozzicate di qualcuno e sguardi di assenso degli altri, occhiate profonde
che spiegavano più di un milione di parole.
A Lorenzo non è andata così bene, il ragazzino è qui da nemmeno un mese. Sono il
suo minatore, colui che deve insegnargli i segreti della miniera, che deve
trasmettergli l’amore per un lavoro in cui il pericolo, il pane e l’amicizia
sono assicurati. Qui la nera signora può prenderti per mano dietro ogni angolo,
o mentre scendi o sali con l’ascensore, o quando stai mangiando. Una frana come
questa, il gas vigliacco, una caduta, il grisù, e allora la Corna suona fuori
orario e lei ti avvolge con il suo mantello e ti porta con sé.
Ma la miniera è anche vita, è il futuro dei figli, la solidarietà e l’affetto
degli altri e delle loro famiglie. Un minatore non è mai solo. Adesso i ragazzi
della squadra di emergenza staranno scavando con la rabbia e con il cuore. Mi
sembra di vederli: Neri, Perotti, Brogi, Lovaglio, il minuscolo lucano dal
coraggio di un leone, Vinciarelli, che prendono a picconate la roccia, che la
artigliano fra preghiere a Santa Barbara e bestemmie, che promettono di offrire
birra fino a scoppiare all’osteria a chi darà il colpo di piccone della nostra
salvezza.
Ma ora ci sono il buio e l’attesa.
E il silenzio.
Lorenzo deve essersi appisolato, sfinito dall’angoscia e dalla tensione. Meglio
così. Sento il ginocchio premere contro il mio, il ragazzino ha bisogno di
mantenere un contatto fisico con il suo minatore. Lui si fida di me, della mia
apparente tranquillità, e io non posso deluderlo.
Adesso immagino la mente come una casa con tre finestre. Una deve rimanere
chiusa, è quella che permetterebbe al vento impetuoso della paura di entrare e
spazzare via tutto.
Allora apro la seconda e mi affaccio su Gavorrano: vedo la Pieve di San Giuliano
con il maestoso campanile in blocchi di pietra squadrata. Sono lì, salgo i
gradini con il cuore in gola per recarmi alla Messa. È domenica e finalmente
potrò incontrare Pia, la ragazza che corteggio da un mese. Una volta entrato,
percorro la navata di sinistra e mi siedo all’altezza dell’altare laterale,
accanto al padre di Pia che bisbiglia un buongiorno signor Brasildo con
cauta confidenza. Il saluto non passa inosservato alla mamma, che le dà di
gomito; allora lei fa capolino e sorride in quel modo dolce che la rende unica.
Poi vedo la fine della funzione. Ci siamo appena alzati in piedi e io chiedo il
permesso di accompagnare Pia a casa. Mentre ci incamminiamo dietro ai suoi
genitori, non posso fare a meno di pensare, ancora una volta, a quanto sia
bella: alta quasi quanto me, con la vita stretta e i fianchi larghi, ha i
capelli neri come la notte e un ovale del viso che rasenta la perfezione; gli
occhi, dello stesso colore dei capelli, sono due pozzi di cui non si riesce a
scorgere il fondo. Ha venti anni, otto meno di me.
Ora stiamo calpestando le pietre squadrate di via Terranova, fra case di
centinaia di anni fa, quindi svoltiamo in un vicolo costellato di archi di cui
non ricordo mai il nome, e saliamo una breve scalinata fino a immetterci in
un’altra viuzza. Fra poco sarà arrivata. Mi invita a prendere un caffè da lei
nel pomeriggio, e intanto mi sfiora una mano con la sua. Non ci siamo ancora
baciati, è la cosa che vorrei di più al mondo, ma non riusciamo mai a restare
soli. Domenica prossima lo farò, a qualsiasi costo.
Con un sospiro, chiudo la finestra e apro la terza, quella dei ricordi: è il
primo giorno qui in miniera e io sono un ragazzo biondo e magro come un chiodo
rimasto orfano per la guerra, che arriva da Grosseto. Il mio minatore si chiama
Cremo Landi, è un uomo grande e grosso di una quarantina d’anni, ha i capelli
rossi e un vocione che rimbomba. Mi mette una mano callosa sulla spalla e mi
accompagna all’ascensore a gabbia.
«Quanto andremo sotto?» voglio sapere, con un filo di voce, mentre l’ascensore
comincia a scendere.
«Oggi ci fermeremo a circa duecento metri, però il pozzo arriva a quasi
quattrocento».
«Sono tanti…».
Mi aggrappo al suo braccio. Tremo come una foglia. Mi vergogno e vorrei
smettere, ma non ci riesco. Ho passato due anni fra i monti come un fuggiasco
per sfuggire al reclutamento dei nazisti, un ragazzino divenuto uomo troppo in
fretta per la morte dei genitori e la paura di finire davanti a un plotone, ma è
nulla in confronto alla sensazione di venire inghiottiti dalla terra. Ogni
volta, finché non ti abitui, temi che sia per sempre.
«Stai tranquillo, ci sono io. L’essenziale è che non ti allontani da me».
«Non c’è motivo, tu sei quello che mi deve insegnare il mestiere».
«Bravo. Qua sotto è un labirinto di gallerie. È facile perdersi, se non si
conosce la miniera».
«Ci vuole tanto a imparare?».
Cremo sorride e mi spettina i capelli con la sua mano callosa. «Il tempo che ci
vuole».
Quando arriviamo, gli altri minatori si fermano e ci si fanno intorno. Stanno
tutti a torso nudo, il torace e la schiena sono lucidi per il sudore e pieni di
tagli e cicatrici. Mi scrutano con una sorta di solenne curiosità.
«Spogliati» dice Cremo.
«Cosa? Perché?».
«Spogliati».
«Tutto?».
«Tutto».
Rimango a fissarlo per qualche istante, imbarazzato. Ma so che del mio minatore
posso fidarmi. Così obbedisco.
Allora Cremo si riempie le mani di fango e me lo spalma addosso, attento a
coprire ogni centimetro. «Questa è la tua iniziazione – spiega, serio, quando ha
finito –. Adesso sei un minatore».
Gli altri annuiscono convinti, mi lanciano un’occhiata di approvazione, poi
ritornano al lavoro.
Un mese fa ho ripetuto il rituale con Lorenzo. Aveva il mio stesso sguardo di
allora, e l’identica fiducia nel suo minatore.
Avrei desiderato che Cremo mi vedesse, che fosse contento di me, ma se n’era già
andato da un paio d’anni. Aveva voluto entrare nella squadra della morte. Per
qualche lira in più, certo, ma soprattutto per l’orgoglio di sentirsi ancora più
importante, indispensabile. Un masso l’ha travolto a settanta metri di altezza e
la Corna ha suonato.
Richiudo anche questa finestra. Fuori della prima, il vento della paura continua
a soffiare rabbioso al punto da far tremare i vetri. Vorrei avere dei chiodi, un
martello e un asse di legno per puntellarla e sentirmi più sicuro.
Intanto Lorenzo si è svegliato. Lo sento muoversi.
«Che ora sarà?» vuole sapere, con la voce impastata dalla sete e dall’angoscia.
«Non lo so. Stai tranquillo, è passato poco tempo» mento.
«Almeno ci fosse un po’ di luce. Questo buio rischia di farmi impazzire».
Come gli occhi di Pia, è nero come i suoi occhi, ma lì smarrirsi è sublime.
«Vedrai che sarà ancora per poco».
«Brasildo, sei sicuro che si sono accorti che nella medagliera mancano i nostri
dischetti?».
Gli appoggio una mano sul ginocchio. «Fidati, la squadra di emergenza sarà
all’opera da un bel po’».
«Ho fatto un sogno strano. Devo capire se sia bello o brutto».
«Racconta».
Parlare fa bene, allenta la tensione e spegne il silenzio.
«Fa un caldo terribile. Quanti gradi saranno? Quaranta?».
«Forse. – Passo la lingua sulle labbra riarse. È come accarezzare un foglio di
carta abrasiva. Se non sono cinquanta gradi, poco ci manca. – Tu non ci pensare
e dimmi del sogno».
«Ho aggiustato la luna».
Mio malgrado, mi sfugge un sorriso. Lorenzo non può vederlo, in ogni caso
saprebbe che non è di scherno. Piuttosto riflette simpatia e tenerezza per un
ragazzino di sedici anni.
«Come hai fatto?».
Lorenzo esita per alcuni istanti. Lo immagino cercare il fiato tra le secche
della gola, tentare di unire i frammenti di quel qualcosa di così labile che può
essere un sogno.
«Ero bambino, avrò avuto sette, otto anni. Correvo per i campi attorno a casa,
di notte, sotto la luna piena. Il grano era più alto di me, lo sentivo
sussurrare, mi diceva di stare attento a non inciampare…».
«E poi?».
«All’improvviso ho sentito le gambe come di gomma e sono caduto. C’era un grosso
sasso, l’ho visto bene mentre perdevo l’equilibrio, e ci sono piombato sopra a
testa in giù».
Il ragazzino ha un fremito, lo avverto attraverso il contatto del ginocchio, è
come se stesse rivivendo il momento dell’impatto. Quindi mi poggia il capo sulla
spalla.
«Scusami – dice. – Così sto più comodo».
Il buio continua ad avvolgerci in una cappa di angoscia. Tendo l’orecchio. Oltre
la frana, nessun suono. Pia, cosa starai facendo? Avrai saputo? Il vento della
paura ulula attraverso gli stipiti della finestra, sempre più furibondo. Ne
sento addosso gli spifferi gelidi. Temo che i vetri possano andare in pezzi da
un momento all’altro.
Vorrei deglutire, ma non ho più saliva. «Continua».
«Credo di essere svenuto, nel sogno. Quando ho ripreso conoscenza, mi sono
subito alzato in piedi e ho guardato su. Le stelle si muovevano, correvano in
direzioni diverse, e la luna vacillava: aveva perso qualche centimetro, o forse
erano metri o chilometri, non lo so. Sembrava si dovesse staccare dalla volta
del cielo da un momento all’altro. Dietro di essa, dove era posizionata prima di
vacillare, c’era come uno strappo bianco delle sue dimensioni. Allora ho capito
che dovevo rimetterla al suo posto. Così mi sono concentrato e sono diventato
molto alto per raggiungerla. Da lassù vedevo le cose come Dio, o almeno
immagino… Ho una sete terribile».
Gli arruffo i capelli con un sospiro. Non so se farlo andare avanti oppure no.
Ogni parola aumenterà la sua arsura, però servirà a distrarlo e a non pensare al
buio che ci opprime, a non farlo assordare dal silenzio. «Voglio sapere come va
a finire» dico.
«Ho visto Gavorrano addormentata, le vie illuminate: era minuscolo. E poi la
miniera, e il Monte Calvo… ogni cosa… quando sono tornato a concentrarmi sulla
luna, nello strappo è apparso Cremo, il tuo minatore».
«Cremo? – Sono dita gelide quelle che mi accarezzano la schiena indugiando su
ogni osso della spina dorsale. – Ma se non l’hai conosciuto!».
«Ho visto la foto sopra il mobile della cucina a casa tua, ricordi? Mi è apparso
proprio così. Solo che la foto non era rettangolare ma tonda come lo strappo».
«Ti ha parlato?».
«Sì. Ha detto "Ce la farai" con quel vocione di cui mi raccontavi e poi è
scomparso. Allora ho afferrato la luna con entrambe le mani, l’ho raddrizzata e
l’ho rimessa al suo posto. Subito dopo le stelle hanno smesso di fuggire e io mi
sono svegliato. Pensi che significhi qualcosa?».
Mi stringo nelle spalle. «Non lo so. Magari che tutto si aggiusterà e presto
saremo fuori. Forse Cremo è voluto venire a rassicurarti, perché sa che ho per
te l’affetto che lui nutriva nei miei confronti».
«Tu ci credi in queste cose?».
Sorrido amaro, nascosto dall’oscurità. «No, altrimenti Cremo sarebbe venuto da
me».
«Io…», Lorenzo emette una specie di sbuffo e rimane in silenzio.
Sto con i sensi all’erta, pronto a captare un qualsiasi rumore, un qualche
segnale che possa farmi capire che i soccorsi stanno arrivando. Ma tutto tace,
attorno a noi. Mi sembra di galleggiare nel nulla, e le palpebre iniziano ad
appesantirsi ogni istante di più.
No! Devo reagire. Il ragazzino ha bisogno di me.
«Hai una fidanzata?» chiedo.
«Cosa?».
«Sei fidanzato?».
«Scusami – biascica. – Stavo per addormentarmi di nuovo».
«Mi dispiace. Non parlo più. Prova a dormire, il tempo passerà più in fretta».
«No, ho bisogno di sentire la tua voce. Mi dà tranquillità… comunque non c’è
nessuna, al momento. E tu?».
Mi rendo conto che desideravo questa domanda. È piacevole, e rasserenante,
raccontare di Pia. «Parlo con una ragazza bellissima da circa un mese».
«Come l’hai conosciuta?».
«Una domenica pomeriggio stavo a passeggio in centro con il Bruschi…».
«Quello piccolino e pelato che racconta sempre barzellette».
«Sì, proprio lui. Passavamo davanti alla pasticceria, quando vedo uscire questa
ragazza con un cannolo in mano. Mi sono bloccato di colpo e ho cominciato a
fissarla a bocca spalancata. Lei se ne è accorta ed è diventata rossa, però ha
sorriso. Allora, non so con quale coraggio, mi sono avvicinato e le ho chiesto
se potevo avere il piacere di fare la sua conoscenza. Il tempo di presentarci e
dalla pasticceria sono usciti i genitori. Lei mi ha salutato e sottovoce mi ha
detto che l’avrei trovata alla Messa, la domenica successiva. Così, io che non
entravo in una chiesa da anni…».
Un lieve russare mi interrompe. Per un istante mi sento uno stupido, non mi ero
accorto che il ragazzino dormiva e continuavo a parlare, preso dalla foga del
ricordo. Poi decido che farmi vincere dal sonno è un modo per impedire al vento
della paura di frantumare i vetri…
… Cremo arrivò subito. C’era un campo di grano che si estendeva fino
all’orizzonte, forse lo stesso del sogno di Lorenzo, e il sole picchiava forte.
Camminavamo fra le spighe appena mosse da una lieve brezza, l’uno accanto
all’altro, in silenzio. Lui mi teneva una mano sulla spalla. Era più giovane di
come lo ricordassi, e più bello; indossava una camicia a scacchi rossi e neri e
dei pantaloni grigi. Quando mi parlò, il vocione rimbombò come un tuono:
"Così non ci credevi, eh?" disse, e scoppiò a ridere. Io chinai il capo e
rimasi in silenzio, mortificato. Lui allora continuò: "Sono il tuo minatore,
non avrei mai potuto abbandonarti. Adesso però le nostre strade si
divideranno di nuovo, io devo arrivare alla fine di questo campo di grano.
Ho un mucchio di strada da fare e non posso perdere altro tempo". Non
sapevo cosa dire. Ogni parola mi sembrava inutile. Così feci per tornare
indietro, ma lui mi afferrò per un braccio: "Aspetta! Vedi di sposarla quella
ragazza, chiaro?". Volevo rispondergli che sì, certo, volevo sposarla, ma
Cremo stringeva sempre più forte…».
«… Brasildo! Brasildo! Sveglia».
Apro gli occhi a fatica e mi ritrovo nelle tenebre della miniera. La voce è
quella di Lorenzo, e sua è la mano che mi artiglia il braccio.
«Che c’è?» farfuglio.
«Rumori. Li senti?».
Da oltre il muro di pietra arriva una specie di picchiettare, sembra addirittura
che ci siano delle voci, in lontananza. Il cuore fa una capriola in petto. Lo
sento rimbalzare sul pomo d’Adamo e ritornare al suo posto. «È vero. Stanno
arrivando».
«Ehiii! – urla Lorenzo, a squarciagola. – Siamo qui. Ehiii! Ehiii!».
Dall’altra parte si odono delle grida, in risposta.
Mentre il ragazzino continua a strillare, il picchiettio aumenta di intensità
fino a diventare il suono familiare dei picconi che frantumano la pietra. Ogni
colpo è accompagnato da un urlo, fra il rabbioso e l’euforico, dei ragazzi della
squadra di emergenza.
Lorenzo mi sta stritolando il braccio, strilla nel mio orecchio, e io non riesco
a pensare più a niente, solo al vento che fuori della prima finestra ha smesso
di ululare.
Poi, all’improvviso, dal frastuono emerge una lama di luce. È quella fioca delle
lampade a carburo, ma su di noi ha un effetto accecante, come se fossimo stati a
fissare il sole per chissà quanto tempo.
Adesso è tutto un vociare euforico. La lama diventa in breve un buco dalla forma
vagamente circolare, e mentre mi abituo alla luce che piano piano diventa un
gradevole chiarore, è lì che si materializza il viso barbuto di Lovascio, con
quelle sopracciglia folte come spazzole che si uniscono sul naso fino a
ricoprirne la parte superiore.
«Tempu ngi vo, diss’u suriciu a la nuci, ma ti pirtusu» proclama, con
entusiasmo.
Il ragazzino, che ancora non si decide a mollare la presa e piange a dirotto per
la felicità, chiede: «Cosa ha detto?».
«Ci vuole tempo, disse il topo alla noce, ma alla fine ti buco… o qualcosa del
genere».
Ci alziamo in piedi, di scatto, mentre il foro si allarga sempre più e appaiono
altri volti. Le gambe tremano, faticano a reggermi, non so se per l’emozione o
per il troppo tempo passato a sedere.
Poi entrano, e allora corriamo verso di loro, in una gara a chi grida più forte.
Mi trovo non so come fra le braccia di Brogi, che mi strizza come un panno da
bucato, mi accarezza, mi bacia sulle guance e sulla fronte.
Intanto il ragazzino mi ha lasciato, investito dall’impeto di Lovascio che si
alza in punta di piedi, gli afferra la nuca con entrambe le mani, gli scrolla la
testa con forza e poi inizia a picchiare la fronte contro la sua.
Ora sono avvinghiato a Neri.
«Quanto siamo stati qui?» voglio sapere.
«Quasi quattordici ore. Temevamo di non farcela. Ho pregato Santa Barbara per
tutto il tempo». Sento la sua barba ispida inumidita dalle lacrime.
«Stasera birra per tutti», riesco a dire, prima di cominciare a piangere.
All’inizio è una cosa lieve, poi esplodo in singhiozzi accorati.
Allora chiudo gli occhi, salgo di corsa i gradini della mente e corro ad aprire
la prima finestra, quella che avevo lasciato serrata. Mi affaccio e vedo Cremo,
che sorride bonario e mi saluta dal campo di grano. Quindi appare Pia: la prendo
per mano e la bacio. Le sue labbra sono morbide, calde e profumate. Promettono
un paradiso di serenità, bambini che mi aspettano insieme a lei sulla porta di
casa dopo la giornata di lavoro in miniera, passeggiate in piazza la domenica
pomeriggio e notti d’amore.
Appoggio la fronte sulla spalla di Neri con un sospiro e serro le palpebre.
Voglio restare così.
Il buio può anche essere bello, a volte.
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