Gli altri esseri della mia specie, quando sono stanchi e
sull’autobus pieno si libera un solo posto in mezzo a due persone, si
precipitano a sedersi. Io no.
Gli altri esseri del mio genere, quando si innamorano, comprano vestiti
attillati, vistosi e sperano di essere notati. Io no.
Gli altri esseri della mia età, quando viene l’estate, non vedono l’ora di
mettersi il costume e andare al mare. Io no.
Ho 18 anni, sono una ragazza molto normale, molto intelligente e sono obesa.
Gli altri pensano che essere obesi significhi essere dei mangioni. Io, in
genere, mangio molto meno della maggior parte dei miei conoscenti.
Gli altri pensano che gli obesi siano grassi perché non hanno abbastanza forza
di volontà. Io ho fatto, fin da bambina, mille diete da fame, senza mai
sgarrare, guardando le mie amiche magre che si abbuffavano di pizze e merendine
al cioccolato.
Gli altri pensano che gli obesi siano allegri, simpatici e abbiano un buon
carattere. Io sono introversa, orgogliosa e abbastanza insopportabile, quando mi
ci metto.
Quindi, ormai l’avrete capito, voi degli obesi non sapete un cazzo. Voi non
sapete un cazzo di me.
Provo dunque a raccontarvi qualche cosa della mia vita.
Ho un blog fantastico. Ho un gatto persiano bellissimo. Ho una pagella più che
dignitosa. Ho alcuni amici normali. Ho dei genitori sopportabili. Non ho un
ragazzo.
Ho avuto tre storie d’amore, o giù di lì. Il primo si chiamava Giacomo e non ha
mai voluto nemmeno baciarmi. Mai uscire insieme. Si vergognava troppo a farsi
vedere insieme a me, la palla di lardo. Poi magari mi telefonava, quando aveva
problemi e voleva parlare. Si faceva aiutare a fare i compiti di matematica, che
lui non capiva neppure di striscio. Io lo aiutavo, ascoltavo le sue confidenze,
facevo l’amica. E accettavo di essere messa da parte tutte le volte che
compariva la strafiga di turno, che se lo portava via per un po’. Fino al
successivo compito di matematica. E fino a che non mi sono stufata io, e sono
riuscita a mandarlo a quel paese. Verso la fine dell’anno scolastico, tanto per
divertirmi un po’ a vedere la sua media naufragare definitivamente e senza
appello. Mi sono detta: «Uno così, mai più».
Infatti il secondo si chiamava Luca e la matematica la capiva benissimo. Però
dovevo aiutarlo a fare i compiti di italiano: scriveva da cani e non ci si
capiva mai niente, nei suoi temi, finché non ci mettevo mano io. Per il resto,
stessa storia. Uguale, identica, precisa, fotocopiata. Ma questa volta non sono
riuscita a mandarlo a quel paese, perché mi ci ha mandato lui per primo: si era
innamorato di una magrissima, e io gli facevo all’improvviso proprio venire i
nervi, attaccava lite su qualsiasi cosa io gli dicessi, o non gli dicessi. Alla
fine non ha voluto più parlarmi e le ultime cose che mi ha detto sono state di
andare affanculo, cicciona di merda.
Adesso sono innamorata di nuovo, lui si chiama Francesco, è uno della mia
scuola. È bellissimo, ha i capelli neri e un po’ ricci, gli occhi scuri, la
bocca da baciare. Ci conosciamo già, ci siamo già parlati: lui mi saluta
gentilmente quando ci incrociamo in corridoio o nell’atrio, ma ovviamente non
sembra avere la minima intenzione di approfondire. Potrei inseguirlo,
appostarmi, aspettare l’occasione giusta per fare con lui un discorso più serio,
più profondo, per ascoltarlo quando nessuno lo ascolta. Così diventeremmo amici,
ci frequenteremmo per un po’, e poi, dopo un tempo medio di tre/quattro mesi,
verrei scaricata perché lui si è innamorato o si è fidanzato con qualche ragazza
cosiddetta normale. Ma questa volta non deve andare come al solito, non andrà
come al solito. Io sono sempre grassa uguale, malgrado le ultime dieci diete,
però mi è venuta un’idea che farà la differenza.
L’ho fatto. Sono diventata sua amica su Facebook, con un
nuovo profilo e una falsa foto, che si vede e non si vede. Poi abbiamo
cominciato a chattare e a scambiarci dei messaggi. L’ho colpito, moltissimo. Ha
cominciato a chiedermi di vederci. No, aspetta… Poi ho iniziato a far finta di
starci, a dargli delle speranze, a fargli credere che forse sì, prima o poi
potremo incontrarci anche nella vita reale. Ho raccolto informazioni: so quasi
tutto di lui. Sono, senza parere, riuscita a farmi dire tutte le cose che
contano: quello che gli piace in una donna, cosa vuole fare da grande, come
passa il tempo ora, che tipo di amici ha, che musica ascolta. Così recito la
parte giusta, dico sempre quello che lui vorrebbe io dicessi e faccio sempre
proprio le cose che lui spera io faccia. Intanto continuo a incrociarlo in
corridoio a scuola, a dirgli a stento ciao e a sentirmi morire. Ma devo
resistere.
Lui non mi vedrà, mai. Conoscerà solo la mia anima. Si innamorerà di questa
grandissima, straordinaria, fascinosissima ragazza misteriosa. Si tormenterà per
conoscerla. Ma io fuggirò, mi negherò, dirò e non dirò. Lo farò impazzire
d’amore e di desiderio, e poi lo pianterò in asso: mi sposerò con uno
pseudo-fidanzato, andrò a fare l’artista a New York, o quello che mi verrà in
mente. Non potrà mai, mai dimenticarmi. Penserà a me con qualsiasi ragazza lui
si metta. Mi amerà, per sempre.
Questa cosa continua da mesi, ormai, e io non ne posso più.
Sarebbe anche tollerabile se non lo conoscessi, se abitassimo in due città
diverse, ma così no. Mi scrive cose dolcissime, poi lo incontro e gli dico ciao,
e lui dice ciao senza neppure vedermi davvero, con gli occhi vuoti. E io vado a
casa e mangio. Mangio tantissimo. Quando rientro i miei non ci sono, sono al
lavoro fino a sera. Io, senza neppure togliermi lo zaino, vado diretta in
cucina, apro prima il frigorifero, poi il cassettone delle provviste, poi anche
il pensile della colazione: tiro fuori quello che c’è, senza scegliere, e mangio
tutto. Non mi accorgo nemmeno bene di quello che mando giù: comincio magari dal
gelato, poi il formaggio, il salame col pane, ancora gelato, la torta, qualche
merendina, gli avanzi di risotto e così vado avanti finché c’è ancora qualcosa
da ingurgitare, finché non è finito tutto. Alla fine lo stomaco è così pieno che
mi fa male, però io sono stordita a puntino e non sento più la disperazione,
l’impotenza e la rabbia, se non come si sente ancora qualche tuono in lontananza
dopo che il temporale è passato.
La sera poi sono ancora disgustata da me e dal cibo, e a tavola per cena neppure
mi siedo. Mia mamma vede il frigorifero vuoto, vede la mia faccia, e non sa cosa
dire; infatti non dice niente, non mi guarda nemmeno per l’imbarazzo. Io mi
sento in colpa, mi faccio schifo, ma il giorno dopo ricomincio e faccio lo
stesso.
Ovviamente è questo il vero motivo per cui, tra una dieta e l’altra, continuo a
essere grassa. Ma nessuno lo sa e immagino nessuno lo capisca. Non mangio per
fame, e la volontà non c’entra: non si può dire a me di smettere di abbuffarmi
usando semplicemente la volontà, come non si può ragionevolmente pensare che un
serial killer possa diventare innocuo solo perché qualcuno gli chiede di
imparare a controllarsi. Così tra un mese tornerò dal dottore, mi peserà, vedrà
che sono ancora ingrassata e mi chiederà, come al solito: «Ma cosa hai
mangiato?». Io, come al solito, dirò: «Niente, dottore, qualche gelato di troppo
quando esco con gli amici».
Malgrado tutti gli sforzi e i buoni propositi, non sono
riuscita ad andare fino in fondo. Mi sono sciaguratamente detta: alla fine cosa
me ne faccio di un ragazzo che forse mi ama, ma che non sa neppure chi sono? E
così ho stupidamente deciso che potevo rischiare e rivelarmi. Tanto nei messaggi
che ci mandiamo c’è già tutto di noi, e se lui non fosse carino com’è, in fondo
per me andrebbe bene lo stesso, perché conosco la sua anima e lo amo; magari per
lui è la stessa cosa. Sì, magari.
Dopo essermi convinta di tutte queste emerite cavolate, ho preparato, con una
cura degna di migliori obiettivi, l’atmosfera adatta per la mia rovina. Prima di
tutto gli ho comprato una stella: sapete, su quel sito web dove, pagando una più
o meno modica cifra, poi ti mandano un certificato in cui c’è scritto che la tal
stella si chiama col nome del tuo fidanzato o della tua fidanzata. Una cosa
disgustosamente romantica, giusto per dargli il colpo di grazia sentimentale
prima della mazzata che stavo per infliggergli.
Poi mi sono parata a festa, cercando di non dare troppo peso alla fastidiosa ma
irrecuperabile realtà della mia mole: taglio figo dal parrucchiere, sandali
ingioiellati, smalto rosso scuro, trucco come si deve. Vestito… eh, vestito come
al solito un po’ troppo stile cinquantenne, ma comunque il meglio che sono
riuscita a trovare in giro della mia taglia. Mi sono guardata (poco) allo
specchio, cercando invano di convincermi che quello che vedevo era, in fondo,
passabile; ho fatto un respiro profondo e sono uscita, incontro al mio crudele e
meritato destino.
Non sto qui a dilungarmi, tanto lo sapete anche voi come andrà a finire questa
storia. Lui ci ha messo un bel po’ anche solo a capire di che cosa stavo
parlando: evidentemente le sue eteree fantasie sulla ragazza che gli piaceva
tanto non riuscivano proprio a conciliarsi con la presenza ingombrante di quella
specie di balena col vestito nuovo di fronte a lui, che gli ripeteva parole
prive di senso: «Quella di facebook in realtà sono io…».
Poi, finalmente o purtroppo, ha capito; dopo qualche minuto e qualche domanda
ancora, ci ha creduto; infine ha manifestato il suo dolore. Il suo dolore, sì,
ed è stato tremendo per me vedere la sua delusione, la sua sofferenza, le sue
lacrime; lì, davanti a me, si è messo a piangere il suo amore perduto. Io lo
guardavo e l’unica cosa che riuscivo a pensare era la mangiata che mi sarei
fatta appena tornata a casa; passo dal supermercato a comprarmi la cioccolata,
mi ripetevo, mentre lui a poco a poco smetteva di piangere e mi guardava un po’
triste e un po’ colpevole, come se improvvisamente si fosse reso conto che anche
per me quella faccenda non doveva essere una passeggiata.
«Scusa, scusa… – ha mormorato allora scuotendo la testa –. Io… io non posso,
capisci… Scusami». E questo è tutto quello che è riuscito a dirmi. Comunque è
andata meglio delle altre volte, a ben vedere.
Adesso sono qui, a casa, seduta davanti a un barattolo grande
di cioccolata, che ho appena svuotato in un lampo e persa in mezzo a un mare di
briciole. Però stavolta sono abbastanza lucida, tutto sommato: forse perché la
botta è stata troppo forte e non può essere attutita solo da una abbuffata di
pane e cioccolato. Sento ancora il dolore, sento ancora la rabbia.
Metto via il barattolo, spazzo via le briciole: mi serve un po’ di pulizia,
adesso. Capisco che devo fare qualcosa. Voglio guarire: non so da che cosa, non
so che razza di malattia ho di preciso, ma voglio guarire. Forse ci vorrà un
altro medico, forse un chirurgo, forse uno psichiatra. Forse ci vorranno i miei
genitori, i miei amici veri, il mio gatto, il mio blog. Forse io, ci vorrò:
questa volta voglio stare tutta dalla mia parte, senza altri sabotaggi, che non
mi merito.
Adesso davvero non so cosa posso fare, ma ho diciotto anni soli, e prima o poi
lo capirò. Sono una tosta, io, e non morirò, neppure questa volta, se mi
impegno.