A chi sceglie ogni giorno
di vivere in modo onesto.
Nella piazza si accendono i lampioni. È settembre e la luce
non si attarda più fino a sera. Adams ha quasi terminato di lavorare. Nel
negozio c’è ancora un uomo. Uno che non conosce, su per giù della sua stessa
età. Uno dei tanti ragazzi di colore che circolano per le vie intorno alla
stazione.
Adams ha ventotto anni. In Italia è arrivato nel duemiladue. Fuggito dalla
Liberia, si è sistemato a Napoli. Ha un regolare permesso di soggiorno per
motivi umanitari e un lavoro. Fa l’aiutante barbiere in una bottega della
ferrovia. Taglia i capelli alla sua gente, gli immigrati, quelli che sono
scappati da casa in cerca di un po’ di pace e di una vita normale. Quelli che
non hanno parenti, ma solo amici e conoscenti. Quelli costretti a vivere nelle
crepe delle città, dove il sole arriva di rado. Adams è uno di loro. Anche se la
sua vita adesso va meglio. Trascorre la giornata a Piazza Garibaldi, poi la sera
torna a casa dalla moglie. Vivono a Castelvolturno, in provincia. Lì c’è una
grande comunità di africani. Bambini non ne hanno, ma le cose cambieranno
presto. Adams sta mettendo da parte i soldi. Ogni giorno un po’.
L’ultimo cliente se ne va. Il titolare si avvicina e gli consegna lo stipendio.
Oggi è il quindici del mese. Adams si volta di spalle, afferra il denaro e se lo
infila in un calzino. Poi, senza dire una parola, inizia a spazzare. Il titolare
della bottega, intanto, fuma appoggiato alla saracinesca.
«Adams – dice l’uomo – fa ambress, stasera è ’na brutta serata. Voglio andare a
casa!».
Adams non risponde, né domanda perché si tratti di una brutta serata. Non è
abituato a parlare molto con la gente di qua, con gli italiani. Così termina il
suo lavoro e saluta.
«A domani» ricambia l’uomo.
Adams s’incammina verso la stazione e si guarda intorno. Non è proprio un bel
posto questo per passeggiare con quattrocento euro addosso. Non sembra nemmeno
di stare in Italia. Ma tanto nessuno lo infastidirà. Nessuno può mai immaginare
che un povero nero se ne vada in giro con tanti soldi. Incontra un paio di
amici, gente che lavora nei mercati dietro la ferrovia, si trattiene un po’ a
parlare con loro, quindi saluta e si avvia a passo svelto verso i binari.
Stasera deve tornare un po’ prima, così da inviare i soldi alla famiglia.
Sul treno ci sono solo extracomunitari. Ma nessun suo amico. Si siede vicino al
finestrino, poggia la fronte sul vetro e si dedica al paesaggio. Ormai conosce a
memoria il tragitto, ogni singolo palazzo che si affaccia sulle rotaie. La città
è così densa che il treno sembra quasi un bisturi che si apre piano una via per
raggiungere le viscere. Poi, col passare dei minuti, gli edifici diradano e
inizia la campagna. La città lascia spazio alla provincia. I vicoli si
trasformano in grossi stradoni che tagliano in due paesi senza anima e colori.
Il grigio qui la fa da padrone. Adams si addormenta. Quando riapre gli occhi è
arrivato. Scende e fila dritto a casa, dove c’è la moglie ad attenderlo. Le dà
un bacio, poi afferra una scatola da sotto il letto ed estrae i soldi. Li conta:
novecento euro. Si sfila il calzino e recupera lo stipendio, quindi aggiunge ai
risparmi un’altra banconota da cento. Spedirà mille euro alla famiglia.
«Torno presto» dice prima di sgusciare fuori.
Cammina con la testa bassa e le mani in tasca. Non si guarda intorno. È pieno di
neri. Sono addirittura più degli italiani. Ma lo stesso contano poco. Qui a
comandare sono i Casalesi. Il territorio è loro. Gli immigrati sono solo ospiti.
Anche se, in realtà, non è esattamente così. Adams sa benissimo che anche gli
africani hanno i loro affari, si sono ritagliati un po’ di spazio. Non è
difficile qui venire in contatto con la cosiddetta "Mafia nigeriana". Prima o
poi arrivi al loro giro. Ad Adams è capitato l’anno precedente. Tramite qualche
amicizia sbagliata si è trovato dove non si sarebbe dovuto e voluto trovare. Con
gente del suo stesso colore ma con la quale nulla ha in comune. I nigeriani qui
controllano alcune piazze di spaccio e la prostituzione. Ma se lo fanno è perché
i Casalesi glielo permettono. Tutti sanno di chi è questa terra scura
dimenticata da Dio.
Il negozio da cui inviare i soldi è alla fine del vialone. Adams cammina a passo
svelto. Sa che nessuno lo toccherà, ma non si fida lo stesso. Passa dinanzi alla
sartoria, il luogo di ritrovo dei suoi amici, gli extracomunitari onesti, quelli
che lavorano e si fanno i fatti loro. Gente che non ha accettato la corte dei
nigeriani e ha replicato con un "no, grazie". Gente come lui, che non vuole
essere immischiata in loschi affari, desidera solo essere lasciata in pace. Come
il suo amico Awanga, per esempio. Anche lui liberiano. Lavora qui alla sartoria,
ma prima faceva il saldatore. Quest’estate, invece, è andato a Foggia a
raccogliere i pomodori. Adams lo saluta con un cenno del capo, Awanga gli
strizza l’occhio. Più in là ci sono anche Francis che fa il piastrellista e vive
con altre sei persone nella camerata sopra la sartoria, ed Eric. Quest’ultimo
Adams non lo conosce granché, però ha sentito la sua storia. Si dice che si sia
scontrato con un imprenditore di Casal di Principe che gli voleva far firmare le
dimissioni in bianco e sia dovuto scappare. Adesso fa il carrozziere qui a
Castelvolturno. Nessuno di loro arriva a trent’anni.
Adams decide di fermarsi a fumare una sigaretta. Si appoggia allo stipite della
saracinesca e osserva gli altri rammendare. Il rumore delle macchine da cucito è
continuo. I ragazzi alzano di rado gli occhi dal tessuto. Adams fuma e rimane in
silenzio. A volte basta solo stare insieme, guardarsi, sorridersi.
«Ehi, Adams, quando mi tagli i capelli?».
È Ababa a parlare. Un togolese piccolo piccolo e con i capelli rasta. È lui che
gestisce la sartoria.
«Quando vuoi» ribatte Adams cacciando il fumo.
Adams, infatti, arrotonda lo stipendio tagliando i capelli in zona, la sera,
quando torna da Piazza Garibaldi. Molte volte si è fermato in sartoria per
acconciare le capigliature degli amici. In genere chiede cinque euro. Ma ad
Ababa spesso li taglia gratis. Lui è un amico, uno che ti ritrovi sempre vicino
nei momenti di difficoltà.
Si sta facendo tardi. È ora di proseguire. Ha promesso alla moglie che non
avrebbe fatto tardi.
Sta per salutare gli amici quando arriva un’auto a folle velocità. Vorrei poter
dire che Adams capisca cosa accade, che tutte le persone all’interno della
sartoria si rendano conto dell’aggressione e riescano a fuggire. Ma così non è.
Adams e i suoi amici sono ragazzi perbene, non abituati a guardarsi le spalle.
Non possono immaginare che qualcuno desideri la loro morte. Così Adams riesce
appena a udire lo stridio delle gomme sull’asfalto. Si gira d’istinto, con
ancora la sigaretta in bocca, e una pioggia di proiettili lo investe in pieno.
Adams cade a terra in una pozza di sangue, la sigaretta fumante un po’ più in là
e i risparmi ancora nel calzino. Gli amici lo seguono a ruota. Nella sartoria
cala il silenzio, interrotto solo dal rumore metallico del ventilatore che
prosegue a roteare le sue grandi pale, come se lì sotto vi fosse ancora qualcuno
da rinfrescare.
Un’auto, cinque uomini, tre pistole automatiche, un mitra e un kalashnikov. Così
la camorra ha deciso di farla pagare alla mafia nigeriana. Uccidendo la sua
gente, per ricordargli chi è qui a comandare. Peccato che Adams e i suoi amici
nulla c’entrassero con la mafia nigeriana.
Trenta secondi. Tanto è durata la spedizione punitiva. Trenta secondi di follia.
Trenta secondi che hanno spazzato via le vite di sei ragazzi venuti in Italia
per scappare dalla furia omicida della loro guerra e morti per la furia omicida
di una guerra che non era neanche la loro.