«Pronto dottoressa, sono Iannuzzi».
«Iannuzzi?».
«Appuntato Iannuzzi, dottoressa Forti, della questura».
«Ma che ore sono?» chiese Giulia cercando la sveglia sul comodino.
«Le tre, dottoressa».
«Le tre! E mi chiamate a quest’ora?».
«E quando se no? Abbiamo un caso per lei. Il maresciallo qui è già in difficoltà
coll’inglese, figuriamoci se conosce una parola di francese…» disse l’appuntato.
Giulia sentì qualcuno soffocare una risata all’altro capo del telefono.
«Ho capito, datemi il tempo di vestirmi e arrivo, ok?».
«Sì dottoressa, ma non deve venire qui in questura…».
«Iannuzzi che fa mi prende in giro?», disse Giulia stizzita.
«Assolutamente no dottoressa, sul mio onore – rispose l’appuntato – deve recarsi
al pronto soccorso dell’ospedale».
«Al pronto soccorso?» ribatté Giulia.
«Il maresciallo mi ha detto di riferirle così, non so altro».
«D’accordo Iannuzzi, tra un quarto d’ora al massimo sarò all’ospedale».
Giulia sospirò e si stirò nel letto. Aveva dormito si e no tre ore. Andò in
bagno e si guardò allo specchio. Gli occhi cerchiati erano sempre lì ad
aspettarla, implacabili. A ricordarle ciò che non riusciva a dimenticare.
Accese il motore e percorse il tratto che la separava dall’ospedale in pochi
minuti. La città dormiva. Non era la prima volta, pensò, che la svegliavano nel
cuore della notte. Spesso si trattava di marocchini arrestati per piccoli furti,
algerini e tunisini rissosi che finivano dentro, prostitute africane che
litigavano tra loro o coi protettori. Cose che si risolvevano in poche ore,
raramente in pochi giorni. Era un lavoro che le andava bene, le consentiva di
avere tanto tempo libero e le storie che le capitava di incrociare nelle stanze
del commissariato non la toccavano più di tanto, le rimuoveva appena fuori dalla
caserma.
Ma non deve venire qui in questura, aveva detto l’appuntato.
Strano, pensò mentre varcava l’ingresso dell’ospedale, non
era mai successo.
Giulia entrò nell’infermeria del pronto soccorso e rimase immobile sulla porta.
Sul lettino una ragazzina in camice bianco.
«Salve, ho fatto più in fretta che ho potuto».
«Ah, lei dev’essere l’interprete della questura – disse il medico voltandosi
verso la porta – non si preoccupi, non c’è fretta. Si accomodi».
L’odore di alcool era forte e Giulia si fece forza mentre avanzava verso l’unica
sedia libera della sala. Le pareti bianche e vuote riflettevano il bagliore
delle luci sul soffitto. Il medico era intento a scrivere il referto medico.
Giulia lo osservò, chino sul tavolo. Carnagione chiara, capelli brizzolati che
un tempo erano stati biondi, camice bianco sbottonato, totalmente a proprio agio
in quell’ambiente asettico.
«Di cosa si tratta?» chiese Giulia nel modo più distaccato possibile. Mai
lasciarsi coinvolgere le aveva suggerito il questore.
«La ragazza è stata violentata, ripetutamente, presumo da soggetti diversi data
la quantità di materiale organico che abbiamo rilevato durante la visita».
Giulia sentì come un pugno allo stomaco e si fece forza per trattenere il senso
di nausea che le saliva in gola. La ragazza fissava un punto imprecisato della
parete di fronte e teneva le mani giunte sul grembo. Le gambe, ricoperte di
lividi bluastri, penzolavano inerti sotto il lettino.
«Ma è poco più di una bambina! – esclamò con rabbia –. Avrà si e no quattordici
anni!».
«Forse anche meno», disse il medico.
«E come sta?».
«Ora abbastanza bene ma… è stato necessario suturarla. L’abbiamo sedata, data la
gravità del caso».
La gravità. Giulia sentiva di non essere più in grado di resistere, la nausea le
impediva di deglutire mentre ondate di brividi le scuotevano il corpo.
«Magari sarebbe stato più appropriato se la questura l’avesse fatta venire in
mattinata… la ragazza non è in grado di parlare… è ancora sotto shock e i
sedativi che le abbiamo somministrato...».
«L’appuntato mi ha detto che c’erano dei problemi con la lingua, non sapevo…».
«Mi dispiace che le abbiano fatto fare una levataccia ma sa avevamo problemi con
la registrazione del caso e dato che è intervenuta la questura… mi rendo conto
che non sia uno spettacolo gradevole», concluse il medico indicando la ragazza.
Non lo era, pensò Giulia, non per lei.
«Allora tornerò più tardi», riuscì a dire, raccogliendo le forze.
***
Giulia bussò piano e attese qualche istante prima di entrare.
La ragazza, rannicchiata sul letto con le braccia intorno alle ginocchia, non si
voltò nemmeno. Teneva lo sguardo rivolto alla finestra. Giulia la salutò,
sistemò un mazzolino di fresie dentro un vasetto e le si sedette accanto.
«Come stai?» le chiese in francese.
La giovane non rispose e si strinse ancora di più alle ginocchia.
«Che stupidaggine, eh? Chiederti come va, come ti senti… io… volevo dirti che
non posso più continuare a venire… le indagini sono a un punto morto, vogliono
chiudere il caso, archiviarlo, si dice così qui da noi. Senza testimoni non ci
sarà nessun caso e nessun colpevole, e tu sarai una delle tante… troppe». Giulia
deglutì e fissò la giovane. «Lo so benissimo come ti senti – continuò – e so
anche che per me varcare quella porta ogni giorno è come varcare la soglia
dell’inferno».
La ragazza sollevò il viso e per la prima volta la guardò dritto negli occhi.
«Ma che ne sai tu dell’inferno?».
Ci fu un silenzio. E un lungo sguardo carico di tensione.
«Mio padre mi ha venduto quando avevo undici anni. Quand’ero più piccola non
capivo come mai le mie sorelle maggiori scomparivano nel cuore della notte. Mia
madre taceva e dopo qualche tempo, non si parlava più di loro. E nascevano altre
sorelle… “Alzati”, mi ha detto una notte. Mio padre aspettava fuori dalla casa
di mattoni crudi insieme ad un uomo. “Hai ragione – ha detto l’uomo vedendomi
arrivare – vale bene questo cammello”. Si sono stretti la mano, mia madre mi ha
consegnato all’uomo, senza dire una parola. Ho pianto, ho gridato che non volevo
andare. Ho supplicato mia madre che mi tenesse con sé… “Non sei più mia figlia,
ora sei sua”, mi ha detto accennando col capo verso l’uomo che mi caricava sul
furgone. Era estate, c’era la luna piena che illuminava la strada. Si è fermato
dopo pochi minuti e mi ha fatto male lì, sul furgone… e ancora, fino all’estate
successiva. Poi un giorno è arrivato un uomo, dalla città, in abito elegante, e
hanno parlato. Youssef mi ha detto di raccogliere le mie cose e l’uomo della
città mi ha portato via. Così ho cambiato di nuovo casa e padrone…».
La ragazza parlava velocemente con lo sguardo fisso, rivolto alla finestra.
«C’erano parecchie ragazze della mia età nella casa della città, stavamo insieme
solo per mangiare, si doveva mangiare in fretta e in silenzio… quelle che
parlavano venivano portate via e picchiate… si imparava in fretta… tutto era
veloce… entravano e ti guardavano appena, quasi mai ti rivolgevano la parola… a
mala pena si sbottonavano…».
Giulia la lasciò parlare, stupita dalla sua loquacità dopo tutti quei giorni di
assoluto silenzio.
«Un giorno è arrivato un dottore e mi ha visitato, ha detto all’uomo della città
che ero molto malata e dovevo prendere delle medicine e si sono stretti la mano.
Ho sentito l’uomo parlare con qualcuno al telefono… Dopo qualche giorno è
tornato il dottore, stavo meglio, ha detto, ma nessuno mi doveva toccare ancora.
“Non la voglio più in questa casa – ha detto l’uomo della città – mi rovina i
clienti. Chiama Sallah e vedi di liberartene, presto”. E così mi hanno messo su
una nave… non c’ero mai salita su una nave e ho vomitato tutto il tempo… “Ma è
pelle e ossa!”, ha detto la signora quando sono arrivata in questo paese.
“Pensaci tu – le ha risposto l’uomo che mi aveva portato – è un regalo di Hamed”.
“Bel regalo – aveva sbuffato la donna squadrandomi – mi costerai una fortuna”.
Era gentile, i primi tempi… mi lasciava riposare, mi dava da mangiare tre volte
al giorno… finché non è arrivato quell’uomo, quello alto e grosso, scuro come la
donna… hanno parlato appena, poi la donna ha detto che non potevo più stare con
lei, che dovevo lavorare… ed essere gentile coi signori che mi avrebbero pagato
bene, perché ero bella… e mi ha detto di non fare la difficile se no mi
avrebbero picchiato. E poi la settimana scorsa…».
La ragazza fece una pausa e finalmente la guardò. Giulia non aveva smesso un
attimo di fissarla, sbigottita e con gli occhi gonfi di pianto. «Allora, che ne
sai tu dell’inferno?».
Giulia spense il registratore che aveva nella borsetta. «Devi promettermi che
sarai forte e andrai fino in fondo».
«E perché dovrei?».
«Perché quei bastardi devono pagare!», esclamò Giulia.
«Lo dici come se fosse successo a te… l’inferno», disse la ragazza.
Un altro silenzio. Pesante, insopportabile, quasi assordante. Giulia si alzò e
andò verso la finestra. Guardò il via vai disordinato davanti all’ingresso
dell’ospedale. Poi si voltò. «Perché io ci sono stata», disse.
La ragazza le rivolse uno sguardo incredulo. Giulia abbassò gli occhi, intrecciò
le dita nervosamente e inspirò con forza, poi iniziò a raccontare.
«Mi piaceva il silenzio, la sensazione di pace della sera rispetto al chiasso
della mattina. Ne approfittavo per lavorare, sistemare il registro, correggere
compiti. “Arrivederci Professoressa”, ha detto la bidella sollevando la testa
dal suo lavoro a maglia. “A domani”, le ho risposto. Pensa, domani. Invece non
c’è stato un domani… L’andito era deserto, lo era sempre a quell’ora. È sbucato
fuori all’improvviso, come un ladro. “Sera prof”, mi ha salutato col suo solito
fare da bullo. “Manuel che ci fai qui?”. “La aspettavo”. “Mi devi chiedere
qualcosa?” “No prof”. “Allora se non ti dispiace io vado, ci vediamo a lezione”.
“Che fretta ha prof? – mi ha detto afferrandomi al braccio – di correre da quel
suo ganzo molliccio con la Volvo metallizzata, eh?”. “Mi fai male, lasciami
andare!”. Sono state le ultime parole che ho detto. Mi ha trascinato nel
seminterrato, da una finestra in alto sul muro entrava un po’ di luce, ma i
lampioni erano così lontani… “Che fate lì impalati”, ha detto agli altri due, ce
n’erano altri due, non erano della scuola, non li avevo mai visti, che
importanza aveva? Manuel è stato il primo, puzzava di alcool. Lo sento ancora
addosso quell’odore, unito all’odore della muffa e degli attrezzi da ginnastica
accatastati là sotto. “È mia!” ha detto con decisione. Gli altri due non
dicevano niente, si limitavano a tenermi stretta mentre il compagno si tirava
giù la zip dei pantaloni. Uno di loro mi premeva la mano sulla bocca così forte
che il contatto dei denti sulle labbra era insopportabile. “Senti un po’ qua,
prof! – ha esclamato Manuel arrogante afferrandomi la mano e portandola sulla
sua erezione –. Niente male, eh?”. Lo fissavo con occhi sgranati. Non ti
denuncerò, pensavo, ti prego lasciami andare. Ma la mano sulla bocca premeva
ancora più forte e ho sentito il sapore del mio sangue. “Tenetela ben ferma”, ha
ordinato sollevandomi la gonna. Mi ha strappato i collant e… “Mmm, pizzo bianco,
roba sofisticata”, ha detto mentre si abbassava i pantaloni. Non farlo, ho
pensato sperando che i miei occhi riuscissero a comunicare tutta l’angoscia che
provavo. Dio fa che arrivi qualcuno. Mi ha preso con forza, come un animale».
Giulia trasse un lungo respiro e chiuse gli occhi. Rivivere, raccontare ciò che
non si dimentica, il dolore, la pelle che cede sotto le spinte. Piccole
lacerazioni inferte alla parte più intima del suo corpo. Niente in confronto a
quelle più profonde che aveva ricevuto la sua anima. Non avrebbe più consentito
a nessun uomo di amarla, di possederla.
«Manuel venne quasi subito – riprese Giulia. Dallo stomaco le salì forte il
senso di nausea al ricordo del seme del ragazzo che le scivolava lungo l’interno
delle gambe nel momento in cui Manuel si era ritratto. “Puttana, mi hai bruciato
l’uccello! – aveva esclamato sferrandomi uno schiaffo sulla guancia destra –. Ma
che soddisfazione! Sarebbe da raccontare a quei bambocci delle tue classi… sotto
a chi tocca ragazzi, ce n’è per tutti”. E si è tirato su i calzoni. Uno dei due
si è denudato velocemente la parte anteriore. Aveva un membro piccolo o forse
era solo lo sperma di Manuel a non farmi sentire quasi nulla? Si è agitato a
lungo, alitandomi sul collo il suo fetore. Anche lui aveva bevuto. E anche lui
era venuto, aggiungendo seme al seme. “È troppo bagnata, non si sente niente”,
aveva detto aggiustandosi i pantaloni. “Molto bene, ci penso io – aveva aggiunto
il terzo – Manuel, tappale la bocca e aiutami a girarla”. Ho rivolto a Manuel
uno sguardo carico di terrore. “Servizio completo prof, vedrà come le piacerà –
mi ha sussurrato all’orecchio –. Allargatela un po’, ragazzi”, ha esclamato il
terzo costringendomi a chinarmi in avanti. Mi ero sentita una bestia, un ammasso
di carne da macello. Per loro ero solo una facile preda. Avevo cercato di urlare
e il sangue delle mie labbra si era fuso alle lacrime. Fuggire, ma dove? Sparire
dalla faccia della terra, morire. “Che scopata, gente. Lì di sicuro era ancora
vergine!” aveva sghignazzato soddisfatto. “Troia, se parli giuro che te la
facciamo pagare!”, aveva minacciato Manuel estraendo un coltello dalla tasca del
giubbotto. Sono scomparsi nel buio della sera. Non lo so quanto sono rimasta
rannicchiata lì sotto, con le braccia strette intorno alle ginocchia… certo ho
pianto, devo aver gridato».
Minuti che le erano sembrati lunghi un’eternità prima che qualcuno la sentisse.
«Professoressa Forti, Dio mio!» era il bidello.
«Che senso ha dirti che è stato orribile? Che ciò che dovrebbe unire può essere
la cosa più umiliante che una donna possa provare? Lui mi ha lasciato. Ah sì, ha
cercato di spiegarmi: la sua posizione, la carriera, lo scandalo. A scuola non
sono più rientrata e ho dovuto cambiare città, perché li ho denunciati, perché
avevo paura».
Nessuno le dirà mai che sarà facile ricominciare Giulia, e nessuno le dirà mai
che si dimentica. Ma la cosa più difficile per una donna è ammettere che sia
successo, dirlo a voce alta, perché solo così si vince il proprio dolore.
Era riuscita a dirlo dopo tanti anni, cosa avrebbe pensato la psicologa?
«Mi dispiace», sussurrò la ragazza sfiorandole la spalla.
Si abbracciarono, spinte dalla forza di una tragedia comune. E piansero. Lacrime
di dolore, di rabbia e di disperazione. Poi Giulia alzò il viso e guardò la
ragazza.
«Non so neppure il tuo nome…».
«Mi chiamo Fatima», disse la ragazza.