20° Premio Trofeo Penna d'Autore: 1° premio - Francesca Ardesi

 

SEZIONE C: RACCONTI  - FIABE  - NOVELLE
PRIMO PREMIO
 

Francesca Ardesi di Brandizzo (TO)
 
per il racconto
LA DONNA CHE NON SI ALZÒ

«Arrivò da me quella sera con la faccia tumefatta e cominciò a raccontare: “Non stavo bene da alcuni giorni, volevo fare un controllo al nostro ospedale, eppure dovevo restarci lì dagli Smith a lavorare, o non avrei ricevuto pietà dalla signora per almeno due mesi successivi, pronta a farmi fare tutti i lavori più sporchi e gravosi per vendicarsi della mia ingiustificata assenza. Non giustificata assenza, secondo lei, poiché la signora Smith diceva sempre che noi negri siamo forti, abbiamo la pellaccia dura, e che Dio ci ha fatti apposta grandi e forti per resistere alle malattie e alle pigrizie, e scuri per restare zitti negli angoli bui; che non ci poteva sopportare, ma che io ero una ragazza carina per essere una negra, e per giunta ero anche educata, forse un po’ sfaticata per pulire e tenere davvero in ordine la sua casa, ma in fondo ero solo una ragazzina ancora da educare bene; tuttavia mi disse che lei non aveva mai sentito un negro lamentarsi per uno stupido raffreddore.
“Cominciai dunque a lavare le scale esterne che davano sul viale d’ingresso: non possedevo che un vestitino di cotone a fiori e una stola leggera per le spalle poiché mai, lo sai, ho avuto una vera giacca per l’inverno, e mi sentivo la pelle staccarsi dalla carne per il freddo, mi si gelavano le gocce dal naso, avevo i brividi. A un certo punto non ne potei più e tremando forte entrai in casa per scaldarmi qualche minuto. L’acqua sui gradini ghiacciava non appena toccava la pietra: pensavo fosse un’inutile e sadica operazione, giacché l’esterno era stato tutto pulito a fondo solo la settimana precedente. Mi sentivo le orecchie fischiare, la testa grande come un pallone, la mia fronte pareva percorsa da fulmini di gelo: stetti lì dietro la porta ferma immobile per qualche minuto finché anche quel forte bruciore allo stomaco cessò. Stavo per tornare fuori a finire, quando svenni. Non ho idea di quanto tempo sia stata lì a terra sdraiata davanti alla porta d’ingresso, so solamente che quando la signora Smith mi vide mi diede un calcio sul fianco per svegliarmi e farmi rialzare: io, però, non ci riuscivo. Dovevo avere la febbre molto alta poiché ricordo, credo, di averle risposto male. Mi tirò su prendendomi dal braccio debole, mi strattonò come aveva fatto altre mille volte, mi disse che la casa doveva essere perfetta per il ricevimento di quella sera e dato che non proferii parola (ancora non potevo), mi lanciò uno schiaffo così forte e carico di disprezzo che mi ritrovai di nuovo per terra: in seguito avrei ripulito piangendo il sangue che mi cadde dal labbro. Questa è l’ultima volta, mi dissi. Odiavo quella donna: rideva come una gallina quando aveva ospiti, e quando entrava o usciva dalle stanze lasciava oceaniche scie di quel suo profumo troppo dolce e troppo invadente. La trovavo una donna volgare”.
Erica, la signora Smith, era sempre stata viziata; io, signor commissario, la conoscevo dai tempi della scuola, anche se andava in un istituto diverso, abbiamo la stessa età. Lei mi ha sempre guardata dall’alto della sua pelle bianca, ed io so che è sempre stata viziata, prima dai genitori, e ora dal marito: un bamboccione senza cervello né fegato che gestisce senza fantasia l’azienda creata dal padre ormai defunto. Per la felicità di Erica, alla morte del suocero, il signor Smith Senior (che fu trovato stecchito in un motel di pessima categoria ancora con i calzoni calati), mancò anche la di lui moglie (dalla vergogna), con la benedizione della nuora che ora può disporre di un patrimonio ancora più grande di quello del marito, poiché questo ereditò d’un colpo diversi appartamenti in città e qualche terreno poco distante dall’abitato, oltre all’intera fabbrica di scarpe e alla villa in cui abitano, “e dove a me avevano riservato un angolo del sottotetto: una specie di cella senza finestre con una porta di legno pesante che non potevo nemmeno chiudere a chiave”, come mi raccontò la mia piccola Evelyn».
Il commissario, un uomo dagli occhi verdi e dall’aria intelligente, si accese una sigaretta, lento, e ne offrì una anche a me. Ma io non fumo, non ho mai trovato piacevole l’odore del tabacco bruciato. Il mio bisnonno materno lavorava come schiavo nelle piantagioni, giù al sud.
«La “signora” Smith, al secolo Erica Larson, veniva da una famiglia benestante, ma che in seguito ad alcuni affari andati male, dovette vendere tutto ciò che possedeva quando lei aveva circa quindici anni, e forse assaggiare la povertà la fece crescere invidiosa, avida e opportunista, tanto da farsi mettere incinta al primo appuntamento da quel cretino di Billy Smith, che aveva molto denaro e l’alito che puzzava. Ah, signor commissario, si abituò presto a coprire l’alitosi del marito col profumo dei soldi che puntualmente lui le faceva trovare all’inizio della settimana.
Eve, seduta nella mia cucina, continuò a raccontare, con una specie di sorriso amaro sulle sue labbra carnose: “Guarda caso, circa ogni dieci giorni, i piselli, la frutta e la carne di manzo aumentavano precipitosamente i prezzi, tanto da dover chiedere sempre più soldi al marito verso la fine di ogni settimana: andavo io a fare la spesa, ma lei a me dava sempre gli stessi spiccioli, e mentre io a piedi andavo e tornavo dal negozio del signor Boomer, lei correva in auto dalla parrucchiera e nel negozio di sartoria in fondo al viale a scegliere abiti che poi raccontava al marito essere stati comprati usati ma tenuti bene, al mercatino del paese vicino. Lui non si accorgeva mai di niente, sia perché stava tutto il giorno dentro l’ufficio della fabbrica, sia perché era davvero un tipo non troppo svelto. A me sembrava che vivesse la sua vita come se non fosse la sua. Viveva ma non esisteva. Non mi chiese mai perché a volte avevo la faccia gonfia o qualche graffio sulle braccia. Non mi rivolgeva mai la parola, come se nemmeno esistessi”.
Così terminò il racconto di Evelyn, quella ragazzina che ogni tanto veniva a trovarmi a casa durante il suo unico mezzo pomeriggio libero: veniva a sfogarsi, signor commissario, perché sapeva che in me trovava sempre un’alleata e una seconda madre, ché la sua l’aveva perduta quando era ancora molto piccina. E ora che aveva perso anche il lavoro si sentiva disperata. Tutto questo, commissario, succedeva circa due anni fa».
Il commissario continuava a guardarmi tranquillo, senza fare domande: forse aspettava che arrivassi al dunque, ma io quella sera decisi che me la sarei presa comoda: nel suo ufficio c’era un bel calduccio e non avevo assolutamente voglia di tornare di nuovo verso casa percorrendo gelide strade. Non ancora.
Dunque ripresi: «Io oggi ho 42 anni, faccio la sarta in un’azienda privata, e so che lo stipendio non è affatto congruo né con il monte ore né con la difficoltà di confezionare complicati abiti d’alta moda (che sicuramente venivano acquistati anche dalla signora Smith, a tradimento, coi soldi del marito), e so che le mie colleghe prendono molto più di me.
Perché? Perché sono negra: quanto basta per essere sfruttati, in questa città, in questo Stato. Ah, gli Stati Uniti! Di questi tempi l’America si sente il grande eroe mondiale, poiché ha liberato dai tedeschi molti paesi europei, senza però liberare sé stesso dalle diseguaglianze, senza pensare che a casa propria continua a trattare male tutti i concittadini che abbiano un colore di pelle diverso da quello degli europei, i cosiddetti caucasici, come lei commissario».
Quest’uomo mi faceva una specie di simpatia, perché aveva pazienza con me, perché non fece mai nessun commento, non mi interruppe mai, e perché non accennò mai al fatto che ero solo una donna, per giunta di colore, poiché, lo capii dal suo accento quando mi chiese di accomodarmi alla sua scrivania, non era di qui dell’Alabama, ma veniva dal nord, sicché mi sentivo a mio agio e continuai a raccontare: «La tenni in casa per qualche tempo, finché Eve stessa non decise di trasferirsi al nord da una specie di zia che viveva non lontano da New York, e che la avrebbe ospitata senza difficoltà. Il giorno che partì piangemmo insieme, le ero molto affezionata, era per me come una figlia, e mi sarebbe piaciuto rimanesse ancora con noi in famiglia, o almeno qui in città. Ci provai, ma alla fabbrica non volevano altri operai di colore, io stessa ci entrai qualche anno prima per un caso che dire fortuito sarebbe bello: visto che mio padre era un’attivista per i diritti dei negroes, fece una battaglia serrata contro il dirigente dell’azienda che all’epoca si era messo in politica per diventare sindaco, e che temeva di perdere i voti di quelle seppur poche persone che non badavano al colore della pelle dei propri concittadini. Ma quando questo capì che voti ne avrebbe presi pochi comunque, ormai aveva assunto a lavorare nella sua azienda una dozzina di operai negri, tra cui me, e non poteva più licenziarci senza un motivo più che buono. E nessuno di noi fratelli gliene diede mai uno nemmeno sufficiente.
Signor commissario, non so perché questa mattina mi è tornata in mente lei, Eve, sono più di due anni che non la vedo. So che sta bene poiché ogni tanto mi arriva una sua lettera: al nord siete distanti dalla discriminazione razziale, la segregazione non l’avete mai approvata già dai tempi della secessione, mentre qui...
Ebbene, questa sera, tornando dal lavoro, non mi sentivo bene, avevo preso troppo freddo alla fermata del bus e poi ero molto stanca, avevo bisogno di sedermi, ma nel nostro reparto tutti i posti erano occupati: tutti più stanchi e anziani di me. Decisi allora di sedermi su di un sedile riservato ai bianchi, col proposito di alzarmi non appena si fosse liberato un posto nella metà del bus riservata ai neri. Due operai sporchi di calce si alzarono dopo qualche fermata, ma la forza per spostarmi dove prima stavano loro mi mancò: avevo male alle gambe, mi doleva la schiena ed i piedi erano ingessati dal ghiaccio. Decisi dunque di trasferirmi non appena un bianco fosse venuto a reclamare gentilmente il posto a lui riservato, solo che l’uomo che si avvicinò qualche minuto dopo non fu affatto gentile, poiché mi disse in malo modo: “Signora, lei deve immediatamente alzarsi, non conosce la legge di questo Stato?”. Io ero stanca, come le ho detto, e mi irritai subito, ma non dissi nulla, mi limitai a guardarlo negli occhi. “Si dia una mossa, perdio”. Ma io niente. Lo vidi diventare rosso in viso: “Signora mi ha sentito? Si levi subito, quel posto è mio di diritto”. Mi girai allora indispettita verso il finestrino, facendo finta che non esistesse: volevo solo essere trattata con un po’ di gentilezza, mi sarei alzata subito se avesse cambiato tono, ma questi alzò di nuovo la voce: “Stronza di una negra! Ti ho detto di levare il culo da quel sedile, e subito!”. Non mi fece nessuna paura, anzi decisi in quel momento che non mi sarei alzata fino alla mia fermata, e forse nemmeno al capolinea, neanche se mi avesse preso a botte; sono una testarda io, lo so, mio marito me lo dice sempre. Fu allora che il conducente si accorse che c’era un bianco in piedi, così, come prescrive la legge, fermò il bus e mi venne vicino, intimandomi di lasciare libero il posto dei bianchi, perché la Jim Crow law diceva così, “e noi non vogliamo andare contro la legge, vero signora?”, chiese sarcastico. In quel momento mi venne da ridere signor commissario, pensavo: ma guarda questo povero bianco che si fa aiutare dall’autista poiché non è in grado di farsi rispettare da una donna. Guardai allora i due uomini con aria compassionevole e severa insieme, e me ne restai cocciutamente seduta lì. “Non sa leggere, signora? Qui c’è scritto 'White only', sa cosa significa?” Ma io mi limitai a sorridere».
Il commissario fece una lunga pausa, mi guardava attento, forse mi studiava, ma non disse nulla, né fece domande, ed io allora continuai: «Ci fu trambusto, qualcuno dalla metà bianca protestò, chiedendosi dove andava a finire il mondo se si permetteva ad una donna negra di comportarsi così dentro un mezzo pubblico, qualcun altro si alzò e continuò la sua strada a piedi. Non mi girai nemmeno una volta, ma sentii che qualche afroamericano alle mie spalle si dileguò, evidentemente non voleva problemi, ma altri restarono lì dietro di me a osservare la scena, provando magari dentro di sé un improvviso coraggio, una forza nuova che come coglieva me doveva per riflesso cogliere anche loro, o almeno così mi piace pensare. Li sentivo vicini, in tensione: udivo il loro respiro attento. Io, signor commissario non volevo fare l’eroe, ero semplicemente stanca e arrabbiata e mi ero incaponita su una questione di principio. Non spiegai queste cose ad alta voce, non ce ne fu bisogno: i fratelli capirono tutti molto bene, e se qualche bianco non ci fosse arrivato da sé, non avrei certo sprecato fiato per farmi capire. Pensai allora a mio marito e ai miei figli, ma non mi preoccupai di loro, so che avrebbero capito e mi sarebbero stati vicini, non avevo dubbi e non ne ho ora. Pensai: lo faccio per me, per la mia famiglia, e per i miei avi, lo faccio per tutti quelli che hanno lottato prima di me, per tutti gli ammazzati dal KKK, e lo faccio anche per tutte le Evelyn del mondo. Mettevo paura signor commissario.
Da quel momento in poi nessuno si mosse, nessuno fiatò: mi resi conto di essere diventata la barricata che divide il mondo in due, quello bianco da quello nero e che il confine era stato oramai spostato in avanti: simbolo ne erano quei pochi centimetri di sedile. Non potevo tornare indietro nemmeno se lo avessi fortemente voluto. Non saremmo più tornati indietro.
Qualcuno chiamò la polizia, ecco perché ora sono qui nel suo ufficio commissario, perché me ne restai sempre lì, seduta, ferma, perché ormai non mi importava di nulla, pensavo solo che ero stufa di venire trattata da “seconda scelta”. Portatemi pure in galera, ci vado volentieri, pensai, poiché ormai il mondo doveva essere dello stesso colore per tutti. E mi venne da sorridere pensando al grigio come colore dell’unità, più giusto, in un mondo dove i colori son tutti sbagliati.
Signor commissario, l’autista capì dal mio sorriso che non ero disposta a lasciarmi intimidire, né io, né coloro che stavano fermi dietro di me. Il mio sguardo nero fissava i suoi occhi chiari. Dopo qualche attimo girò lo sguardo alla sua destra, dove stavano col fiato sospeso quelli del suo stesso colore, spostò il peso sull’altro piede, fece un cenno con la bocca e tardò finché, impacciato, riuscì a chiedere il mio nome.
Parks, risposi restando seduta. “Il mio nome, signore, è Rosa Parks”».

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