SEZIONE C: RACCONTI - FIABE - NOVELLE
SECONDO
PREMIO
Enrico Comparotto di Verona
per il racconto
RITORNO A CASA
Quando, imboccata la via, vide stagliarsi il profilo
solitario dell’edificio, si chiese perché fosse tornato. Era l’ultima casa in
fondo a una strada senza uscita e, vent’anni dopo, era ancora lì, con il suo
piccolo giardino prospiciente la facciata austera, trasformato in discarica,
popolato da un groviglio di erbacce e cespugli, calcinacci e vecchi
elettrodomestici, che qualcuno aveva nottetempo abbandonato, un cimitero di
tecnologia casalinga obsoleta e inutile.
Mosse alcuni passi, poi si bloccò. Non sapeva nemmeno se ciò che gli impediva di
proseguire fosse il riaffiorare di un ricordo, annidato in qualche remoto
meandro del cervello, oppure la successiva consapevolezza di quanto in quella
casa era accaduto. Perché lui, la notte dell’incendio, in cui perse entrambi i
genitori, aveva solo sette anni. E i ricordi si erano arrestati prima,
cristallizzati nell’ultimo frangente felice antecedente la sciagura, nel momento
in cui, vestito del suo piccolo orgoglio di scolaretto modello, era sfilato
davanti a compagni ed insegnanti per ricevere la medaglia di miglior allievo
della scuola. Rammentava di aver riposto il trofeo sotto il cuscino, quel
prestigioso sigillo che poi era andato perduto tra le fiamme, sciolto dal
calore, probabilmente fuso e confuso assieme a metalli meno nobili: la rete del
letto, il ferro delle automobiline schierate sulla mensola.
Poi l’oblìo, un vuoto spazio-temporale che lo aveva prelevato dalle calde e
rassicuranti coltri e lo aveva ridestato tra le braccia del nonno, qualche ora
dopo, quando era uscito dallo stato di catatonia provocato dallo shock,
esplodendo in un pianto disperato e inconsolabile. In mezzo, il nulla.
Sul lato opposto della strada un ragazzino interruppe la sfida immaginaria che
stava ingaggiando con la parete di un edificio. Raccolse la palla e si mise a
osservare incuriosito quell’adulto mai visto, che camminava lento, caracollando,
come un sonnambulo.
In effetti, l’uomo avanzava a fatica, come un ubriaco che si ostina invano a
recuperare un equilibrio abbandonato nel fondo dell’ultimo bicchiere. La casa e
il passato incombevano su di lui rendendo i passi pesanti come macigni.
L’unica sensazione che tratteneva della notte di trent’anni prima era l’odore
acre del fumo. Ancora adesso credeva di sentirlo nelle narici. Il resto lo aveva
ricostruito in seguito, attraverso i racconti del nonno. Sembra che l’incendio
fosse divampato dalla cucina, probabilmente per un malfunzionamento della stufa.
Era cresciuto in silenzio, in maniera subdola aveva tagliato ogni via di fuga
agli occupanti della casa, che dormivano ignari nelle camere al primo piano. I
suoi genitori erano stati colti nel sonno. Intossicati e storditi dal fumo, si
erano a malapena trascinati fuori dalla stanza da letto. Il padre era
stramazzato subito al suolo, la madre aveva trovato la forza di trascinarsi per
qualche metro, prima di giacere, anch’ella, sul pavimento del corridoio, dove il
fuoco aveva terminato il lavoro iniziato dal monossido.
Lui invece era miracolosamente riuscito a guadagnare le scale e a uscire in
strada, indebolito e sconvolto, prima che le fiamme avviluppassero l’intero
edificio. Secondo le testimonianze raccolte dal nonno, alle prime persone che lo
avevano soccorso e gli chiedevano notizie sugli altri occupanti della casa, il
bambino, lo sguardo fisso e terrorizzato, continuava a ripetere frasi senza
senso, nelle quali ricorreva l’immagine confusa di un gigante buono, un essere
fiabesco che lo avrebbe preso in braccio e trascinato fino all’ingresso,
proteggendolo dal fuoco.
Era stata addirittura ipotizzata la presenza nella casa di uno sconosciuto,
forse un ladro, inconsapevole artefice dell’incendio, che avesse tratto in salvo
il bimbo per poi dileguarsi. Ma la polizia non aveva rinvenuto tracce di
estranei, e i vicini accorsi giuravano che nessuno sarebbe potuto uscire vivo da
quell’inferno.
Quando scostò il cancelletto, ormai rattrappito dagli anni e dalla pioggia, e
percorse i tre gradini che conducevano alla veranda, la luce rossastra del tardo
pomeriggio aveva già risalito la strada e si rifrangeva sulle finestre opache
della casa diffondendo riflessi scarlatti.
Nel momento stesso in cui impugnò la maniglia dell’ingresso, fu assalito da un
turbinio di fotogrammi che lo fecero indietreggiare. Il riverbero del sole al
tramonto si confondeva con l’immagine sconnessa di vampe che guizzavano alte, un
muro fiammeggiante invalicabile da cui improvvisamente emergeva una figura nera,
imponente, dai contorni sfuggenti. Un’immagine strappata da un sogno, che si
dissolse non appena ebbe oltrepassato la porta, quando alla luce violenta del
tardo pomeriggio si sostituì la penombra stantia dell’interno.
Varcò la soglia frastornato da un’angoscia sorda che gli serrava la gola e gli
mozzava il respiro, sebbene ogni traccia dell’incendio fosse stata cancellata.
Il nonno aveva, infatti, deciso di ristrutturare l’abitazione e affittarla, in
modo da garantire al nipote una modesta rendita, un esile appiglio economico,
cui il piccolo orfano avrebbe potuto aggrapparsi per resistere ai fortunali di
una vita che si annunciava in salita. Da allora, un silenzio protettivo era
sceso su quella notte, frutto di un quotidiano lavoro di rimozione e di
un’incessante ricerca di normalità. Almeno fino a quando, da poco superata la
maggiore età, era rimasto vittima di un incidente, che gli aveva procurato una
brutta ferita alla mano destra. Dopo una serie d’interventi, la mano aveva
ripreso la sua completa funzionalità. Ma quando il nonno aveva esaminato la
vistosa cicatrice che gli solcava il dorso, ne era rimasto profondamente scosso.
Come reagendo a un impulso misterioso, qualche giorno dopo gli aveva consegnato
il libretto di deposito su cui, oltre all’indennizzo assicurativo per i danni
provocati dall’incendio, mese dopo mese aveva versato l’affitto percepito.
Avrebbe potuto disporne come meglio credeva, per mantenersi gli studi, avviare
un’attività, avventurarsi in investimenti finanziari, sperperare tutto nel gioco
d’azzardo. In cambio gli aveva solamente estorto una solenne promessa: che un
giorno, un giorno qualunque, dopo dieci anni o cinquanta, un giorno inaspettato,
fuori da ogni calendario ed estraneo a ogni programmazione, sarebbe dovuto
tornare in quella casa. Anche pochi istanti prima di morire il nonno lo aveva
implorato di mantenere il giuramento.
E ora, dopo che per anni la promessa era fluttuata irrisolta, dopo aver
accampato una miriade di scuse interiori per sottrarsi all’impegno, ora un
appuntamento di lavoro l’aveva condotto nei luoghi dell’infanzia, e la
consapevolezza che, per quanti peripli si decida di percorrere, alla fine non si
sfugge al proprio destino, aveva fatto il resto.
Si era inoltrato alcuni passi nel soggiorno quando una seconda ondata d’immagini
dal passato lo investì facendolo vacillare. Di nuovo l’ambiente brulicava di
fiamme e fumo, ma questa volta la gigantesca ombra parve assumere più tangibile
consistenza. L’uomo si sentì sollevare da terra e trasportare dentro una sorta
di bozzolo che attutiva i sensi. Dentro la visione tutto assumeva dimensioni
grossolane, perché era la sua prospettiva a contrarsi, a divenire quella di un
bambino di sette anni.
Di nuovo ebbe il sopravvento la percezione del presente, il soggiorno polveroso,
i pochi arredi conservati sotto vecchie lenzuola ingiallite. Adesso, però, aveva
compreso che tutte le risposte erano a portata di mano, bisognava solo avere il
coraggio di assecondarle.
Salì a grandi balzi le scale che conducevano alla zona notte e solo quando ebbe
raggiunto il corridoio superiore, si rese conto delle fiamme che provenivano
dabbasso. Già il fumo aveva saturato l’ambiente e reso l’aria irrespirabile,
mentre il fuoco aveva così pesantemente compromesso le travi portanti del
soppalco, che tutto il piano superiore rischiava di cedere e crollare da un
momento all’altro. Vide i genitori uscire barcollando dalla loro camera. Il
padre si accasciò subito al pavimento, inerme. La madre riuscì invece a compiere
qualche passo nella sua direzione. Si precipitò verso di lei, sebbene le fiamme
stessero già ostruendo la via, ma ricorrendo alle ultime energie, la madre lo
dissuase e, con un ultimo gesto, gli indicò un punto sul lato opposto del
corridoio. Gli stava chiedendo di non preoccuparsi di loro, ma di pensare al
bambino. Tutto il terrore e la sofferenza che le riempivano gli occhi non
avevano origine nelle fiamme sul punto di ghermirla, ma nella disperazione per
le sorti del figlio, nell’impossibilità di poterlo proteggere, nel senso
d’impotenza che la soverchiava. Lui cercò lo sguardo della madre, le fece
intendere che aveva compreso, sperava di riuscire a rassicurarla. Avrebbe voluto
dirle che quel bimbo sarebbe sopravvissuto, che sarebbe divenuto un uomo,
avrebbe avuto dei figli, le avrebbe dato motivo di essere una madre orgogliosa.
Si limitò a urlarle che il bimbo si sarebbe salvato, cercando di sovrastare con
la voce il boato delle fiamme. Gli parve di scorgere sul volto della madre
un’espressione di sollievo, prima che il fumo denso la inghiottisse
definitivamente.
Corse allora verso il lato opposto del corridoio, proprio mentre il bimbo faceva
capolino dalla sua stanza, ancora mezzo addormentato. Lo raggiunse e
s’inginocchiò davanti a lui. Cercò di non farsi sopraffare dall’idea,
sconvolgente, di trovarsi al cospetto di un se stesso bambino. Accarezzò il
piccolo, che gli prese la mano e si mise a osservare incuriosito la vasta
cicatrice lungo il dorso. Comprese che quel dettaglio doveva essere rimasto
impresso nella mente del bimbo e trasmesso ai soccorritori, prima che il drappo
nero dell’amnesia fosse calato sui suoi ricordi. Ora capiva la reazione del
nonno e il senso della promessa, apparentemente assurda. Intuita la verità, il
nonno non si era arrovellato a cercare spiegazioni razionali. Ciò che contava
era il risultato: che lui, un giorno sarebbe riuscito a salvare se stesso. E la
sua permanenza nel mondo era la miglior garanzia che ciò, contro ogni logica
nota, sarebbe accaduto.
Baciò il bimbo sulla fronte, lo strinse al petto e lo protesse con i lembi della
giacca. Tenendolo avvinto si precipitò verso la scala, ormai avvolta dalle
fiamme e sul punto di crollare, scese alcuni scalini e colmò l’ultimo tratto in
un unico salto. Atterrando sul pavimento del soggiorno perse l’equilibrio e si
lasciò cadere sulla schiena, per preservare l’incolumità del piccolo. Liberò il
bimbo dall’abbraccio e si rialzò. Sebbene la coltre fumosa si fosse già estesa a
tutto il soggiorno, il passaggio verso l’uscita non era ostruito dal fuoco.
Tenendosi per mano, i due si avviarono. Dall’esterno filtravano le voci della
gente che già si era accalcata sulla strada. L’uomo esitò ad aprire la porta:
come avrebbe potuto spiegare chi era, cosa ci faceva lì. Quasi a volerlo
tranquillizzare, il bimbo sollevò lo sguardo verso di lui e sorrise. Lui gli
restituì il sorriso, afferrò la maniglia e spalancò la porta.
Fuori il sole era ormai quasi completamente sparito dietro la linea degli
edifici, ma nonostante la flebile luce, sull’altro lato della strada il
ragazzino non desisteva dalla sua sfida immaginaria contro il muro. Il tardo
pomeriggio languiva in un silenzio quasi assoluto, interrotto solo dal rumore
cadenzato della palla scagliata contro la parete e da un vago brusio proveniente
dalla città. Scese lentamente i tre gradini e si avviò verso il cancelletto.
Dunque, tutto si era risolto in questo? Un’allucinazione senza senso, il dolore
gratuito e lancinante provocato dal rivivere il trauma infantile. Forse il nonno
aveva pensato che rimettere piede in quella casa, dopo che il dramma si era
sedimentato, avrebbe avuto un qualche effetto terapeutico, che però lui in quel
momento proprio non riusciva a cogliere.
Era tempo di tornare a casa, la sua.
Solo allora realizzò che la mano destra era chiusa a pugno, e conteneva
qualcosa. Un oggetto metallico dai bordi arrotondati premeva contro l’interno
delle falangi. Sollevò la mano e la ruotò verso l’alto. Dischiuse lentamente le
dita, come se si accingesse ad aprire uno scrigno che poteva indifferentemente
custodire tesori o terribili segreti. E, adagiata sul palmo, riconobbe la sua
perduta medaglia di miglior allievo della scuola.
Copyright © 2013
Per tornare alla pagina precedente
HOME PAGE
|