20° Premio Trofeo Penna d'Autore: 3° premio - Piero Malagoli

 

SEZIONE C: RACCONTI - FIABE - NOVELLE
TERZO
PREMIO
 

Piero Malagoli di Modena
 
per il racconto
L'INVESTIMENTO

Ambroise Mondory sedeva a uno dei tavolini di ferro sulla veranda del Caffè De La Rotonde e guardava il via vai brulicante del Boulevard du Montparnasse a quell’ora del pomeriggio inoltrato. L’inverno del 1909 non era stato particolarmente rigido, ma si era protratto oltre il solito, con giornate grigie e mattinate nebbiose che parevano nascondere la primavera imminente.
Dall’inizio di maggio, però, tutto era cambiato. Pareva che una luce nuova fosse scesa su Parigi e il sole che perdurava ormai da un paio di settimane, rendeva la sua solita passeggiata, dopo l’uscita dal lavoro, il momento migliore della giornata. Da Rue Vavin, dove lasciava l’ufficio del notaio Thévenet, da cui svolgeva praticantato, sbucava su Boulevard Raspail e dopo pochi metri, sull’angolo con Boulevard du Montpanasse, trovava il suo Caffè ad accoglierlo come ogni sera, prima di tornare a casa e ritrovare la sua giovane moglie Bastienne e il piccolo Tanguy.
Aveva sfogliato tutto "Le Figaro" che ora giaceva ripiegato sulla sedia vuota accanto alla sua e stava pensando di trasferirsi all’interno del locale per farsi un buon cognac e attendere ancora un quarto d’ora per vedere se gli riusciva di incontrare quell’italiano.
Appoggiato al bancone, col bicchiere in mano che gli trasmetteva quasi un calore fisico, ripensò all’investimento che aveva in animo di fare, utilizzando i soldi che suo padre Lazare gli aveva fatto trasferire da Troyes, suo paese natale, dove aveva liquidato la sua attività di artigiano, per godersi una meritata pensione dopo una tranquilla vita da medio borghese.
Né lui, né suo fratello Horace, avevano voluto proseguire l’attività paterna, così il vecchio Lazare Mondory si era risolto di vendere a terzi la sua bottega, elargendo la metà del ricavato ai suoi figli, dividendolo equamente, perché potessero destinarlo ad avviare una carriera propria.
Per suo fratello minore Horace, rimasto al paese, quella somma era una vera manna dal cielo, che gli permetteva di tirare avanti per alcuni anni la sua condizione di scapolo, decidendo cosa fare della sua vita, ma per lui, trasferitosi a Parigi con la moglie, con cui stava rapidamente allargando la famiglia, quei soldi andavano attentamente amministrati, perché non svanissero in pochi mesi come neve al sole.
Il padre continuava a mandargli mensilmente una piccola rendita, per rimpinguare il misero stipendio da praticante che il notaio Thévenet gli passava, ma le prospettive parevano buone, per il suo futuro, che Ambroise, con i suoi ventisette anni di età, vedeva immancabilmente roseo.
Cercava di trarre i migliori insegnamenti possibili dal notaio e da tutta una serie di funzionari pubblici e privati, avvocati e finanzieri che frequentavano lo studio di Rue Vavin. Molti di loro lo avevano preso a ben volere, grazie anche alla sua gentilezza ed educazione impeccabili, tanto da accettarlo nelle loro conversazioni e all’interno dei loro club esclusivi, anche se soltanto come ospite per una serata. Alcuni gli avevano dato buoni consigli sulla casa da affittare e sulla balia a cui affidare suo figlio Tanguy, mentre sua moglie cercava di fare la sua parte in società, frequentando i circoli più in vista, al seguito delle figlie maggiori di quegli stessi personaggi.
Dagli ambienti che frequentava, aveva capito velocemente che qualsiasi somma in denaro, grande o piccola che fosse, andava investita e fatta fruttare, calcolando attentamente i rischi, correndone alcuni ragionevoli, ma senza lasciarsi tentare dalle sirene dei facili guadagni, che portavano quasi sempre a disastrose conseguenze. Tanto più che aveva deciso di destinare i soldi inviati dal padre alla creazione di un capitale che sarebbe servito per gli studi dei suoi figli, che al momento erano quasi due (visto che Bastienne portava avanti la seconda gravidanza da oltre sei mesi), ma che, vista la loro giovane età, promettevano di crescere ulteriormente di numero. Un investimento a lungo termine, quindi, che avrebbe dovuto dare i suoi migliori frutti di lì a vent’anni, quando i ragazzi avrebbero dovuto decidere del loro futuro una volta terminate le scuole primarie.
Per questo si stava trattenendo al caffè oltre il suo solito orario sperando di incontrare quell’italiano con cui aveva già avuto alcuni incontri nei giorni precedenti.
Guardandosi intorno per l’ennesima volta, notò invece una sagoma familiare assisa a uno dei tavolini della sala da biliardo. Si avvicinò con fare sicuro, col cappello e il bastone da passeggio nella mano destra.
«Buonasera signor Pothier…!» esclamò sorridendo, ma con grande creanza, e accennando un inchino verso la persona che aveva riconosciuto e l’uomo che stava con lui al tavolo.
«Ambroise…! Buonasera ragazzo mio…!» rispose gioviale l’altro torcendo il grasso collo verso di lui e svelando una faccia rotonda dalle guance rubizze e due baffi impomatati che incorniciavano un sorriso benevolo. Subito l’uomo scostò l’unica sedia libera dal tavolino, perché il ragazzo si potesse accomodare, non mancando di presentargli prima l’uomo che già sedeva con lui.
«… Questo è l’avvocato Guimard… Non credo vi siate mai incontrati prima…»
L’altro, un omino piccolo, con la testa tonda, radi capelli neri pettinati da una parte e due occhialetti dalla montatura in metallo, si alzò leggermente dalla sedia e porse la mano ad Ambroise.
«… Edmond Guimard… piacere… Bérard mi ha parlato spesso di lei. Le è molto affezionato… complimenti, lei ha già un gran bell’amico, nel mondo della finanza... Potrà farle comodo, alla sua età…»
Bérard Pothier, infatti, aveva grande stima per quel ragazzo ammodo ma intraprendente che gli ricordava sé stesso, con trenta anni e trenta chili di meno. Anche lui, prima di diventare direttore della filiale principale della Banque Commerciale de Paris, aveva dovuto passare anni incerti lontano di casa, nella metropoli tentacolare, finché Parigi non era diventata la sua città, e ora era tra le poche persone che la tenevano praticamente in pugno. Negli occhi di quel ragazzo vedeva la stessa luce che aveva brillato un giorno nei suoi.
«Posso offrirti un altro giro…?» domandò subito Bérard al ragazzo che stava appoggiando il bicchiere vuoto al tavolo.
«No… la ringrazio ma ora devo andare… Ero passato per cercare di concludere un certo affare… Le ho parlato, vero, della somma che intenderei investire…?!»
«Sì, Ambroise, me ne hai accennato la settimana scorsa, quando sono passato allo studio… Pensi di aver trovato quello che fa per te…?»
«Credo di sì… Signor Pothier… anche se potrebbe sembrare un tantino… azzardato… Anzi se potessi accennarvene…» A quelle parole l’avvocato Guimard fece per alzarsi e lasciarli soli, ma fu proprio Ambroise a insistere perché rimanesse, ritenendo che due pareri autorevoli fossero meglio di uno.
«Bene… avete presente quell’artista italiano che bazzica spesso qui alla Rotonde e negli altri locali del boulevard… Amedeo… Amedeo Modigliani…»
L’avvocato Guimard fece un leggero movimento di assenso con la testa, dando segno di capire di chi stava parlando, mentre Pothier rimase una sfinge, limitandosi a lisciare la punta dei baffi con le dita.
«L’altro giorno mi ha pure fatto uno schizzo…» E infilata una mano nella tasca del suo soprabito leggero ne trasse un pezzo di carta da pacchi ripiegato in due, lo aprì e lo poggiò sul tavolo, lisciandolo con la mano aperta. Il disegno rappresentava il busto di Ambroise con gli stessi abiti che portava in quel momento, cappello in testa e viso leggermente obliquo. Il volto era spigoloso, diverso, ma in qualche modo somigliante, con gli occhi asimmetrici, uno senza pupilla e l’altro riempito completamente con la matita nera. Una leggera linea verticale lo attraversava dall’attaccatura dei capelli fino al mento. La cravatta e la giacca resi con pochi tratti sommari. In basso a destra la firma "Dedo" vergata in fretta con grafia sbilenca.
I due interlocutori buttarono solo un’occhiata distratta al disegno e fissarono lui, in attesa che la sua spiegazione proseguisse.
«Gira spesso con un altro suo amico pittore avvinazzato, credo si chiami Maurice…» Anche Bérard ora accennò un "sì… sì…" con la testa.
«… È qui da oltre tre anni, non ha venduto quasi nulla… si arrabatta, ma è davvero in cattive condizioni… Vuole tornare in Italia, a Livorno, credo, e non sa se e quando tornerà a Parigi. Dovrà abbandonare il suo studio, che altro non è che un vecchio solaio fatiscente. Sono andato a visitarlo ieri e ci ho visto una ventina di tele che ho trovato meravigliose…»
Ambroise era notevolmente eccitato nel raccontare quella sua visita e i due uomini pensarono di lasciarlo finire, prima di dire la loro.
«Mi ha proposto di comprarle tutte, perché lui non saprebbe dove lasciarle. Ci sono un paio di nudi enormi, una quindicina di ritratti e tre teste scolpite in roccia calcarea, di quella che è ammassata nel cantiere giù a Rue Daguerre…»
«E… – lo interruppe Bérard senza riuscire a trattenere la sua aria di sufficienza – quanto vorrebbe il signor Modigliani per tutta questa meraviglia?»
«Tremila franchi» buttò fuori tutto di un fiato Ambroise, conscio di essersi sbilanciato troppo.
«Tremi…?!» si lasciò scappare con un sobbalzo l’avvocato Guimard prima di imporsi il silenzio.
«Ragazzo mio…» ricominciò Bérard con fare paterno, convinto che Ambroise non meritasse l’umiliazione dei loro spassionati pareri.
«Che te ne faresti di quei quadri, una volta acquisiti…?»
«Li metterei in un magazzino… aspettando gli eventi… Sono convinto che quel ragazzo abbia una classe sconfinata…»
«Siamo a Parigi… Mon Dieu! – sbottò Pothier accompagnando l’esclamazione con un ampio gesto del braccio all’intorno, come a comprendere l’intera città –. Ci sono migliaia di artisti che credono di cambiare il mondo, ma… Sei stato al Salon, ultimamente…?» La domanda era rivolta all’avvocato che rispose girando la testa di lato e mettendo le mani avanti come a volersi riparare da quelle brutture.
«Quest’arte, ragazzo, è un colossale bluff… una moda passeggera… Che direbbe tuo padre se sapesse che utilizzi così i denari che lui ha messo insieme in una vita di lavoro…!?»
Ambroise era in difficoltà, tra il sostenere la sua convinzione e il non voler contraddire una persona di cui aveva grande stima e fiducia.
«Lo vuoi un consiglio da amico, su come investire i tuoi soldi, e vederli lievitare in modo sicuro…?» Bérard ammiccò verso l’avvocato Guimard come a chiedere il permesso di rivelare un grande segreto. L’avvocato abbassò gli occhi in segno di assenso.
«White Star Line…!» Furono le tre parole che uscirono dalle labbra tumide del finanziere, come un sussurro d’amore. Ed anche lui calò sul tavolo un foglietto che si era tolto dalla tasca e su cui ora batteva piano le dita grassocce.
«White Star Line…?!?» Chiese interrogativamente Ambroise cercando di sbirciare le scritte coperte dalla mano dell’amico.
«Certo… White Star… e più precisamente… – mantenne la suspance Bérard, prendendo il foglietto e girandolo sul piano del tavolo – Titanic…!!!».
Ora Ambroise riconosceva la figura disegnata sul retro del volantino. Un immenso transatlantico con i suoi quattro fumaioli gialli e neri che spiccavano imponenti.
«A Belfast, la White Star Line ha cominciato un paio di mesi fa a costruire la nave più grande al mondo… – spiegava ora Pothier con la voce bassa, da cospiratore –. La società dell’avvocato Guimard tratta l’acquisto delle quote… e tu… vuoi comprare le tele di un artista squattrinato, quando puoi partecipare al più grande e remunerativo investimento al mondo…?»
«Ma… Ho letto giorni fa sull’Echos, che l’impresa è finanziata dall’armatore J.P. Morgan…» interruppe Ambroise inorgoglito dalla precisazione che poteva fare.
«Non ci sono mai abbastanza fondi per progetti del genere – tagliò corto Pothier –. 270 metri per 46.000 tonnellate… Oltre 50.000 cavalli vapore… 29 caldaie… oltre 2000 passeggeri con biglietti a prezzi allucinanti… Titanic, caro Ambroise, Titanic… Ecco il futuro! Ti basta tutto questo, per tremila franchi, ragazzo!?».
Ambroise vedeva il viso di Bèrard trasformarsi letteralmente, gli pareva di vedere il simbolo del dollaro fluttuare nelle sue pupille.
«Tu compra quei quadri e fra quindici anni avrai in mano una serie di croste buone per il rigattiere, i tuoi figli dovranno fare gli sguatteri per mantenersi agli studi e ti ritroverò qui dentro a bere assenzio. Ma se entrerai in quest’affare, fra venti, trenta anni, avrai l’orgoglio di vedere ancora il tuo investimento solcare i mari, contro ogni moda e avversità e sarai tra gli eletti che potranno raccontare di avere contribuito a realizzare un grande sogno… e ne trarrai tutti i benefici… ci puoi giurare.»
Pothier si lasciò cadere contro lo schienale della sedia, come un avvocato esausto dopo un’arringa interminabile, mentre Edmund Guimar osservava Ambroise continuando ad annuire leggermente, con un eterno sorrisino compiaciuto in volto.
Quella sera Ambroise rientrò più tardi del solito. Volle fare una passeggiata per schiarirsi le idee e dopo aver cenato e messo a letto il piccolo Tanguy, mentre sua moglie rassettava la cucina e si preparava per la notte, si sistemò sullo scrittoio del soggiorno e presi carta, penna e calamaio, si apprestò a scrivere una breve comunicazione a suo padre.
«Caro padre. Vi comunico brevemente che ho preso, alfine, la decisione sull’investimento da eseguire con i denari che mi avete magnanimamente elargito. Ho lasciato perdere il progetto bislacco di acquistare in blocco le opere di quell’artista italiano di cui vi avevo parlato (ringraziandovi tra l’altro di non aver tentato di dissuadermi dal farlo, nonostante sapessi della Vostra preoccupazione al riguardo) per dirigermi su di un progetto industriale, serio e sicuro, appoggiato e sostenuto, tra l’altro, da persone molto in vista qui a Parigi, che non mancherò di illustrarvi nel corso della prossima visita. È ora di crescere, adesso ho delle responsabilità e non è più il momento di inseguire chimere.
Sono sicuro di avere fatto la scelta giusta.
Un saluto a Horace e un bacio a mamma.
Dal vostro devoto figlio… Ambroise».

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