Luigi De Rosa

 

TERZO CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE
Poeti e Scrittori Uniti in Beneficenza
 

4° PREMIO EX AEQUO
Luigi De Rosa di Piano di Sorrento (NA)
 
Opera premiata:
LA PIANTA DI MORO

D’inverno mi piace passeggiare lungo la riva, schivare la spuma del mare che si arrampica fra i ciottoli, lasciare così che l’anima si acquieti. Quando il mare è calmo, raggiungo la fine della grossa scogliera frangiflutti e siedo su un grosso scoglio, sempre lo stesso, quadrato e grigio, uno spuntone solitario dal quale mi riesce a vedere tutto il golfo, quello di Sorrento, il mio paese. Spesso, quando il cielo è terso, avvisto sulla linea dell’orizzonte le grosse navi che lasciano il porto di Napoli. Quelle linee scure mi mettono malinconia: fumaioli, antenne, poppe e prue sembrano in lontananza i denti scheggiati di coltelli arrugginiti, s’insinuano nella mia memoria e spaccano i lucchetti delle casse dei ricordi più dolorosi. È in questi momenti che affiora prepotente dall’oscurità dell’oblio il suo viso pulito di ragazzo felice. Mi piace immaginarlo seduto dietro la sua batteria, mi piace pensare che anche quella notte avesse appoggiato le bacchette sulla gran cassa, e come faceva sempre, diede un’occhiata intensa e lunga al charleston. So che era il suo modo di pregare prima di dare tutto se stesso in ciò che amava di più: la musica.
Già, io so che prima di pregare Dio bisogna pacificarsi con Lui, solo così la tua anima sarà totalmente presa dal suo mistero. Me l’ha insegnato un prete di strada che ogni santo giorno tiene a bada il diavolo nei vicoli di Napoli. Giuseppe lo faceva col piatto della sua batteria, quello alla sua sinistra, quello solitario chiamato charleston, quello che gli ricordava il cono puntuto del tetto di casa sua ad Alberobello. Lo accarezzava per un attimo infinito e si quietava, ne seguiva con lo sguardo la lucentezza che, sono sicuro, sotto i riflettori accesi sul piccolo palco quella sera, gli ricordarono i riflessi luccicanti delle increspature del mare all’uscita della nave dal porto di Civitavecchia. Giuseppe era uno di quegli uomini che colgono la poesia nelle piccole cose ma Dio lo festeggiano con lo squasso roboante di un rullo di tamburi, come il tuono dopo l’incanto muto del fulmine, Dio è gioia fragorosa, va condiviso con tutti.
La carezza al charleston era il suo modo di darsi forza, era come se con le bacchette sul piatto per un attimo realizzasse un ponte di emozioni con casa sua, scambiasse un’ultima carezza con i suoi cari, poi attaccava la sua musica trascinandosi dietro il basso e il vocalist.
Quella sera fu uno dei pochi a non scomporsi per niente quando la nave si scosse come una balena ferita, fece vibrare il suo ventre di acciaio, un altro animale innocente assassinato dall’idiozia di Achab, e s’inclinò per sempre sugli scogli dell’isola. Le luci tremarono prima di spegnersi, come le candele morenti sotto le statue dei santi. La festa della vita era finita. La gente urlò e pianse. Molti erano convinti, e lo sono ancora oggi che tutto si è ridotto a inchiostro in mille immensi faldoni di giudici sempre più disincantati, che certe cose potevano accadere solo nei film d’azione.
Non credevano che un destino assurdo e beffardo avesse appena deciso di bussare alle porte delle loro cabine. Erano tutti presi dalla loro vacanza, dalle loro cene imbandite, dai giochi di luce in piscina, dal chiacchiericcio petulante e dalle conversazioni senza senso intessute di battute e commenti salaci nei riguardi di qualche vicino di cabina troppo esuberante o di qualche parente rimasto a casa a covare invidia. Le quotidiane maldicenze, lo sappiamo bene, non vanno mai in vacanza, ce le portiamo in valigia e neanche ce ne accorgiamo, ci diciamo sicuri di aver staccato la spina da tutto: pura illusione della nostra disarmante mediocrità non ci liberiamo mai, ne sa qualcosa chi era in plancia quella sera.
Io immagino che in quella sala buia molti si scoprirono vigliacchi, altri semplicemente deboli, altri ancora inutili che forse è la condizione peggiore; sentire dentro di voler fare e non potere nulla perché vecchi, malfermi nelle gambe o nello spirito o semplicemente prigionieri delle proprie zavorre mentali.
Dove andare? cosa fare? Sono le domande che ci facciamo nei momenti terribili che la vita ci apparecchia all’improvviso. Per chi come noi è abituato a seguire le indicazioni prestabilite, ritrovarsi all’improvviso di fronte alla nostra fragilità e dover decidere da soli e in fretta è terribile. Io però voglio credere, anzi ne sono sicuro che alcuni in quel buio caotico e salato riscoprirono che cos’è un uomo.
Giuseppe Girolamo è stato un uomo. In quel momento orribile fece la sua scelta magnifica. San Luca ha scritto: “Se voi aveste tanta fede quanto un granello di senape, potreste dire a questa pianta di moro: Sradicati e trapiantati in mare, ed essa vi ubbidirebbe”. Giuseppe Girolamo quella notte scelse di cedere il suo posto nella scialuppa a un bambino. Giuseppe Girolamo ha piantato per sempre la sua pianta di moro nel mare dell’Isola del Giglio. Noi che non credevamo ora sappiamo che in mare si possono piantare semi di speranza.

SINOSSI - Il Racconto “La pianta di moro” è liberamente ispirato alla tragica fine del batterista Giuseppe Girolamo nel naufragio della Costa Concordia, a lui che cedette il posto sulla scialuppa a un bambino e pagò con la vita questa scelta, la nostra eterna riconoscenza.

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