D’inverno mi piace passeggiare lungo la riva, schivare la
spuma del mare che si arrampica fra i ciottoli, lasciare così che l’anima si
acquieti. Quando il mare è calmo, raggiungo la fine della grossa scogliera
frangiflutti e siedo su un grosso scoglio, sempre lo stesso, quadrato e grigio,
uno spuntone solitario dal quale mi riesce a vedere tutto il golfo, quello di
Sorrento, il mio paese. Spesso, quando il cielo è terso, avvisto sulla linea
dell’orizzonte le grosse navi che lasciano il porto di Napoli. Quelle linee
scure mi mettono malinconia: fumaioli, antenne, poppe e prue sembrano in
lontananza i denti scheggiati di coltelli arrugginiti, s’insinuano nella mia
memoria e spaccano i lucchetti delle casse dei ricordi più dolorosi. È in questi
momenti che affiora prepotente dall’oscurità dell’oblio il suo viso pulito di
ragazzo felice. Mi piace immaginarlo seduto dietro la sua batteria, mi piace
pensare che anche quella notte avesse appoggiato le bacchette sulla gran cassa,
e come faceva sempre, diede un’occhiata intensa e lunga al charleston. So che
era il suo modo di pregare prima di dare tutto se stesso in ciò che amava di
più: la musica.
Già, io so che prima di pregare Dio bisogna pacificarsi con Lui, solo così la
tua anima sarà totalmente presa dal suo mistero. Me l’ha insegnato un prete di
strada che ogni santo giorno tiene a bada il diavolo nei vicoli di Napoli.
Giuseppe lo faceva col piatto della sua batteria, quello alla sua sinistra,
quello solitario chiamato charleston, quello che gli ricordava il cono puntuto
del tetto di casa sua ad Alberobello. Lo accarezzava per un attimo infinito e si
quietava, ne seguiva con lo sguardo la lucentezza che, sono sicuro, sotto i
riflettori accesi sul piccolo palco quella sera, gli ricordarono i riflessi
luccicanti delle increspature del mare all’uscita della nave dal porto di
Civitavecchia. Giuseppe era uno di quegli uomini che colgono la poesia nelle
piccole cose ma Dio lo festeggiano con lo squasso roboante di un rullo di
tamburi, come il tuono dopo l’incanto muto del fulmine, Dio è gioia fragorosa,
va condiviso con tutti.
La carezza al charleston era il suo modo di darsi forza, era come se con le
bacchette sul piatto per un attimo realizzasse un ponte di emozioni con casa
sua, scambiasse un’ultima carezza con i suoi cari, poi attaccava la sua musica
trascinandosi dietro il basso e il vocalist.
Quella sera fu uno dei pochi a non scomporsi per niente quando la nave si scosse
come una balena ferita, fece vibrare il suo ventre di acciaio, un altro animale
innocente assassinato dall’idiozia di Achab, e s’inclinò per sempre sugli scogli
dell’isola. Le luci tremarono prima di spegnersi, come le candele morenti sotto
le statue dei santi. La festa della vita era finita. La gente urlò e pianse.
Molti erano convinti, e lo sono ancora oggi che tutto si è ridotto a inchiostro
in mille immensi faldoni di giudici sempre più disincantati, che certe cose
potevano accadere solo nei film d’azione.
Non credevano che un destino assurdo e beffardo avesse appena deciso di bussare
alle porte delle loro cabine. Erano tutti presi dalla loro vacanza, dalle loro
cene imbandite, dai giochi di luce in piscina, dal chiacchiericcio petulante e
dalle conversazioni senza senso intessute di battute e commenti salaci nei
riguardi di qualche vicino di cabina troppo esuberante o di qualche parente
rimasto a casa a covare invidia. Le quotidiane maldicenze, lo sappiamo bene, non
vanno mai in vacanza, ce le portiamo in valigia e neanche ce ne accorgiamo, ci
diciamo sicuri di aver staccato la spina da tutto: pura illusione della nostra
disarmante mediocrità non ci liberiamo mai, ne sa qualcosa chi era in plancia
quella sera.
Io immagino che in quella sala buia molti si scoprirono vigliacchi, altri
semplicemente deboli, altri ancora inutili che forse è la condizione peggiore;
sentire dentro di voler fare e non potere nulla perché vecchi, malfermi nelle
gambe o nello spirito o semplicemente prigionieri delle proprie zavorre mentali.
Dove andare? cosa fare? Sono le domande che ci facciamo nei momenti terribili
che la vita ci apparecchia all’improvviso. Per chi come noi è abituato a seguire
le indicazioni prestabilite, ritrovarsi all’improvviso di fronte alla nostra
fragilità e dover decidere da soli e in fretta è terribile. Io però voglio
credere, anzi ne sono sicuro che alcuni in quel buio caotico e salato
riscoprirono che cos’è un uomo.
Giuseppe Girolamo è stato un uomo. In quel momento orribile fece la sua scelta
magnifica. San Luca ha scritto: “Se voi aveste tanta fede quanto un granello di
senape, potreste dire a questa pianta di moro: Sradicati e trapiantati in mare,
ed essa vi ubbidirebbe”. Giuseppe Girolamo quella notte scelse di cedere il suo
posto nella scialuppa a un bambino. Giuseppe Girolamo ha piantato per sempre la
sua pianta di moro nel mare dell’Isola del Giglio. Noi che non credevamo ora
sappiamo che in mare si possono piantare semi di speranza.
SINOSSI - Il Racconto “La pianta di moro” è liberamente
ispirato alla tragica fine del batterista Giuseppe Girolamo nel naufragio della
Costa Concordia, a lui che cedette il posto sulla scialuppa a un bambino e pagò
con la vita questa scelta, la nostra eterna riconoscenza.