TERZO CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE
Poeti e Scrittori Uniti in
Beneficenza
2° PREMIO
Raffaele Del Re
di Albano Laziale (RM)
Opera premiata:
CERCAVA LA FELICITÀ
Lo ammetto. Fin da giovane ho cercato la felicità.
La cercavo con ansia quando, non ancora adolescente, mio padre mi picchiava
senza freno, un po’ per punirmi e un po’ semplicemente perché era ubriaco. La
cercavo quando, morta mia madre, la matrigna voltava le spalle alle mie
richieste disperate, per offrire tutti i dolci e i cibi prelibati ai due
figlioletti del suo sangue, più piccoli – è vero – ma anche assai meno
contentabili di me.
Infine credetti d’averla trovata quando conobbi Sara. Una ragazza dolce,
misericordiosa, anche se d’umore mutevole, una ragazza che m’offrì consolazione
e comprensione quando avevo ormai disimparato ad aspettarmele. Mai una sola
volta – lei che era così bella ai miei occhi – mi fece notare quanto dovevo
apparire brutto io, basso e sgraziato; mi amava così com’ero, semplicemente.
La sposai l’anno che morì mio padre: dissero che ero cinico, egoista, e io risi
delle loro chiacchiere. Quali momenti di gioia trascorsi con Sara!
Ma un brutto giorno, ancora non me lo spiego, mi tradì. La lapidarono,
ovviamente. Io guardavo le pietre che le piovevano addosso mentre lei gridava,
gridava, e pensavo dentro di me che era giusto così, che questa è la nostra
legge. Eppure quelle pietre si scagliavano invisibili anche contro il mio povero
cuore, che s’era illuso d’essere felice. Bramavo di chiederle perché, di sentire
ancora la sua voce, l’avrei persino perdonata se me l’avesse chiesto. Ma
l’avevano colta in flagrante, ecco il punto.
Quella notte non riuscii a dormire. A che serviva una legge così? Ero troppo
infelice.
Un mese più tardi mi proposero di lavorare per i Romani. Oppressori del mio
popolo. Pagani che non è lecito neppure toccare. Accettai.
Dapprima fui solo un aiutante, poi divenni vice esattore e infine esattore capo.
Mi chiamavano peccatore, pubblicano, ma non m’importava. Guadagnavo bene, e
nella ricchezza speravo di trovare finalmente la felicità.
Un esattore di un’altra città era stato assassinato per aver chiesto
l’impossibile. I romani ovviamente s’erano vendicati, ma era meglio non
rischiare. Per questo, se qualcuno davvero non poteva pagare, m’accontentavo;
per rifarmi, imparai a ritoccare i conti degli altri. Quant’era facile! Non solo
pareggiavo i conti, ma m’arricchivo rapidamente alle spalle di quegli idioti.
La ricchezza m’ha dato tanto. Una bella casa. Banchetti tutti i giorni. Ragazze
compiacenti. Vestiti di prima scelta. Gioielli. Persino l’invidia di quei
farisei che, pur disprezzandomi nel cuore, mi vengono a cercare e mi riempiono
d’ossequi.
Sì, m’ha dato tanto; ma non la felicità. Non riesco a spiegarmelo, ma più
m’arricchisco più il fossato che mi separa dalla felicità sembra allargarsi.
«Ho sete – m’è venuto di dire, così, d’istinto, ieri mattina alla serva
samaritana che mi serve la colazione – ho una gran sete di qualcosa a cui non so
dare un nome.»
Quella m’ha portato dell’acqua fresca.
«Stupida!» ho gridato, gettando il bicchiere a terra.
«Vuole del vino, padrone?»
Ho scosso la testa. Non avrei mai saputo spiegare.
«Al mio paese, in Samaria, è passato uno che l’avrebbe capita, padrone – disse
lei. – Diceva d’avere un’acqua speciale. Domani passerà anche qui a Gerico».
L’informazione m’ha messo in confusione. Sembrava una grande sciocchezza. Ma
m’ha incuriosito: i profeti non vendono acqua, solitamente.
Ho chiesto qualche informazione, qua e là. Molti lo chiamano rabbì, maestro,
asseriscono che compia miracoli, riportano le sue storielle.
M’hanno anche avvertito che non ha senso per me, benestante, cercarlo. Per loro
io sono felice: sono pieno di soldi, no? che cos’altro mi manca? Non capiscono.
Eppure il mio cuore s’è attaccato a un esile filo di speranza: che quest’uomo
capirà, che davvero abbia qualcosa da dirmi. Una speranza piccola piccola… una
speranza che tuttavia m’ha fatto ritrovare, imprevistamente, quand’ero sul punto
d’addormentarmi, parole che credevo dimenticate. «Dio – ho mormorato – Dio mio,
aiutami tu!».
Stamattina, c’è una ressa che a Gerico non s’era mai vista. Tutti sanno che sta
arrivando, tutti vogliono parlargli, portargli i loro malati, toccarlo, vederlo.
Sono tutti più alti di me e mi stringono da ogni parte.
Ma io non posso perdere quest’occasione. Proprio non posso perderla. Ecco, lì
c’è un albero ramoso e un po’ storto. La corteccia è piena d’appigli.
M’arrampicherò facilmente, anche se non sono più un adolescente, e riuscirò in
qualche modo a vederlo, a sentire almeno qualche parola. Se poi rideranno di me,
il capo esattore che s’arrampica come un ragazzino, il peccatore che pretende
d’ascoltare un profeta, il proprietario di dodici case che s’aspetta parole
buone dal difensore dei poveri, ebbene, da molto tempo oramai non m’importa
nulla delle loro convenzioni.
Mi basterà – così sostiene il mio cuore – mi basterà sentire da lui una sola
frase. Che frase, non saprei. Ma il mio cuore ci crede. Speriamo!
Dimenticavo… Non mi sono ancora presentato. Il mio nome è Zaccheo. E cerco la
felicità.
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