Farò il presepe. Prenderò alla terra
– alla terra dei fuochi avvelenati –
un umile germoglio, il bianco muschio
per tracciare il sentiero, un po’ di paglia
per il varco alla culla. S’erge candido
di cenere ogni colle, il fumo avvolge
rabbioso i tetti delle case in plastica,
il giorno sveglia gli alberi sgomenti
che bevono il liquame incandescente
dovunque sparso.
Così anche quest’anno
farò il presepe. E tu dovresti nascere
tra l’amianto e il nichelio, o mio Signore,
tu che vorresti farti carne d’uomo
nel calice di un’alba profumata,
nel tralcio d’una vigna ebbra di vita?
E vorresti ammirare da un’altura,
come noi, un tramonto, ed ascoltare
il suono della pioggia sulle foglie
e respirare il cielo?
Il mio presepe
ha tamburi di guerra in lontananza,
ha taverne di mare per naufragi,
ha zolle di colline sradicate.
Reclina il capo al caldo della culla,
non guardare, Signore. Ah, questa voglia
d’allestire la grotta, di sentire
la voce dei viandanti e dei pastori!
Sia ancora luce al nascere del giorno,
sia luce all’innocenza del Bambino.