PROFILO DELL'AUTORE
Roberto Barbari, nato a Ponte della Priula (TV) l'11 settembre 1967.
Dopo aver conseguito nel 1987 il Diploma in Elettronica Industriale, segue una
pausa lavorativa di alcuni anni di lavoro; poi riprende gli studi all'Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano e nel 1999 si laurea in Filosofia e Scienze
Umane.
La sua intera produzione letteraria è in gran parte ancora inedita e solamente
sei raccolte poetiche sono state pubblicate: «Dai quattro angoli del cielo»
(Edizioni Il Filo, 2008), «Il Flauto di Pan» (Il Convivio, 2009), «Carezze di
luna» (Il Convivio, 2010), «Eco di vento» (Aletti, 2010), «Ad Oriente in Eden»
(Il Convivio) e «Frammenti di stelle» (A.L.I. Penna d’Autore, 2010). Ha
pubblicato inoltre per la narrativa il romanzo «La figlia di Penìa» (A.L.I.
Penna d’Autore, 2010). La silloge «Dai quattro angoli del cielo» ha ottenuto i
maggiori riconoscimenti: è risultata finalista al concorso «Insieme nel Mondo»,
si è classificata al terzo posto al concorso «Giovanni Gronchi» (2009 e 2010) e
al sesto posto al concorso «Franco Bargagna 2010», e ricevuto un diploma di
merito al concorso «Albderoandronico 2009». Altri riconoscimenti le ha
conseguiti con le composizioni poetiche «Manto di delizie», che è stata inserita
nell'Audio Libro di Penna d'Autore, «Come un giglio tra le spine», premiata al
concorso Città Cava de' Tirreni, «Chiudere gli occhi», pubblicata nell'antologia
«Habere Artem» e «La conchiglia più preziosa» pubblicata nell’antologia del
Premio Giovanni Gronchi.
WHY
Nella regione del nord chiamata Saffo per onorare la grande
poetessa greca, subito dopo la fine della grande guerra civile, sono nato io, in
un piccolo sobborgo di campagna, da genitori semplici, ma onesti, intelligenti e
dal cuore grande. La data di quando ho visto la luce non la sa nessuno con
precisione, non era infatti usanza ricordare o registrare con la puntigliosità
di oggigiorno, so solo che era autunno, c’era la luna piena, ed un forte
temporale mi precedette di poche ore.
La nostra casa, situata in un appezzamento molto arido di circa dieci ettari di
terreno era grande e fredda, soprattutto nei rigidi inverni tipici di quelle
zone.
Mia madre però era molto attenta ai miei bisogni e non mi faceva mancare nulla
di quello che mi necessitava, compatibilmente col modesto tenore di vita che
tutti potevamo permetterci e ricoprendomi di quel calore materno umano che a
nessun bambino dovrebbe mancare mai.
Mio padre era un uomo molto alto e forte e, nell’intento di liberarmi dalla
schiavitù dell’ignoranza mi volle al suo fianco fin dalla più tenera età, nei
mille lavori agricoli che accompagnavano la sua giornata. Con lui io mi
divertivo moltissimo ed imparavo i mestieri, ma più di tutto imparavo a vivere.
La vita mica si impara sulle parole dei libri di scuola! La vita si impara
vivendola, anche se non sempre riesce bella e gradita.
In casa con noi c’era poi mio zio, fratello di mia madre che, non avendo trovato
la donna giusta, non si era mai sposato e viveva con noi e per me era una specie
di fratello maggiore. Mio zio era una persona affettuosissima e se avesse messo
su famiglia sono sicuro che sarebbe certamente stato un buon marito ed un ottimo
padre.
Per vivere mio padre e mio zio facevano gli agricoltori mentre mia madre, oltre
ad occuparsi della casa, svolgeva qualche servizio di pulizia presso una
famiglia di ricchi. A mia madre non è mai pesato svolgere un qualsiasi lavoro,
purché onesto, ma spesso la vedevo scontenta della scarsa sensibilità con la
quale era trattata da quella famiglia. Forse i ricchi pensano che i poveri non
sono esseri umani a pieno titolo, ma bestioline da soma al loro servizio, e
questo non sempre è facile da subire.
Il lavoro agricolo a me piaceva molto perché ero a contatto con la vita che
nasce, cresce e poi si conclude. Ricordo ancora di quei primi anni un passerotto
che un forte temporale aveva strappato al suo nido. Mio padre provò con tutti i
mezzi a nutrirlo, a riconsegnarlo alla vita, ma non ci fu nulla da fare. Forse
anche lui voleva la sua mamma che però nessuno poteva restituirgli più.
Non ringrazierò mai abbastanza i miei genitori e lo stesso destino per l’affetto
e per le lezioni di vita ricevute in quei primi anni di vita, anche se a volte
mi sembravano crudeli ed ingiustamente tollerate da quel dio che dicono ami
tutti.
Di religione cattolica i miei genitori erano anche discreti praticanti, anche se
più tardi mi resi conto che la pratica religiosa non era molto accompagnata da
una fede adeguata, matura, profonda, e da una coscienza autentica. Non è che si
trattasse di mero formalismo esteriore ed ipocrita, ma certamente ritenevano più
importante fare che comprendere. In fondo era questo quello che insegnavano i
preti, atteggiamento che ebbi sempre in odio e non tollerai mai dato che ho
sempre ritenuto che fosse la coscienza e fare l’uomo tale.
È risaputo, quante cose un bambino non può comprendere, ma più di tutte una non
sapevo accettare: il dolore gratuito, il male che con quel passerotto era
entrato nella mia mente come un grosso interrogativo.
La nostra casa era situata lungo una stradina secondaria alla periferia del
paesino, un po’ rientrata rispetto alla strada stessa. Quel paese ora
costituisce una cittadina ma allora contava pochissimi abitanti, tanto che sulla
nostra via sorgevano solo due abitazioni distanti fra loro più di cinquecento
metri. Inoltre il terreno che i miei lavoravano era proprio dietro casa, fatto,
questo, che ci isolava ulteriormente dal centro abitato. Alle volte mia madre mi
portava con sé a fare le pochissime spese che ci erano proprio necessarie e non
potevamo produrre da noi stessi e che ci proiettavano all’esterno, e altre volte
la accompagnavo in quella casa di ricchi che teneva pulita, ma entrambe le cose
succedevano raramente. Era invece molto frequente che rimanessi nei campi con
mio padre e mio zio, e quando le condizioni atmosferiche lo sconsigliavano,
finivo spesso per rimanere a casa da solo. Io non amavo restare solo, avrei
preferito il freddo o la pioggia, il vento, ma i miei avevano le loro buone
ragione ed un buon senso migliore del mio.
Un momento di forte comunione fra gli uomini di tutto il paese era il mercato
dove ognuno portava quello che poteva scambiare o vendere, fosse anche soltanto
la propria persona da offrire come lavoratore. I miei genitori vendevano, un po’
di vino, qualche formaggio ed un po’ di grano, più raramente qualche uovo o
qualche salame. A circa cinque anni feci anch’io il mio primo affare: una
treccia d’aglio che confezionai con le mie mani, che mi inorgoglì ben oltre quei
pochissimi spiccioli guadagnati.
Il momento però di indiscussa comunione fra gli uomini di tutto il paese restava
la messa domenicale dove quasi nessuno sarebbe mancato, pena la scomunica o
qualcosa del genere. Non è che il fatto religioso fosse molto profondo nei cuori
dei miei paesani, ma le usanze esteriori erano molto radicate tanto che una
mancanza religiosa era condannata dai cittadini stessi prima ancora che dalle
autorità religiose. La cerimonia religiosa in quel paese non fu mai all’altezza
dell’evento che intendeva celebrare, ma nessuno era talmente libero da
accorgersene.
A circa tre anni di età entrai nell’asilo del paese dove conobbi molti bambini e
qualche amichetta. Io ero un bambino molto timido, chiuso. Ero cresciuto isolato
e non conoscevo gli uomini, forse ero anche un po’ complessato, ma amai la
compagnia degli altri bambini e volli farmeli amici tutti quanti. Non tutti però
erano ben disposti nei confronti dell’amicizia, alcuni erano disposti a
condividere la loro storia ma sui giocattoli esercitavano un potere ed un
dominio assoluto che io, cresciuto alla scuola della generosità non potevo
tollerare ed al quale mi ribellavo, ovviamente con la forza, l’unica che
conoscevo. E la cosa più strana era che i più egoisti erano proprio i più
ricchi, quelli che a casa erano ricolmi di regali e giocattoli. Pareva proprio
che ai più poveri i ricchi non volessero concedere nessun diritto di proprietà,
fin da piccini.
Ovviamente anche quando la mia ribellione raggiungeva il suo scopo, quelli
facevano le vittime, versavano fiumi di lacrime e la suora rimproverava me. Lo
sapevo da me che non si faceva così, ma a parer mio il fine giustificava il
mezzo, e quella suora andava compresa diversamente: i genitori di quel bambino
erano i maggiori azionisti della banca del paese e poco importava se prima di
avere quel bambino avevano optato per l’interruzione volontaria della gravidanza
per ben due volte, mentre io ero solo un figlio di poveri, ospitato per
elemosina, e non mancavano le occasioni per farmelo notare, rinfacciandomelo in
modo sottile ma evidente anche ad un bambino: i bambini non sono così stupidi o
si ingannano così facilmente come si può credere. Va precisato che la retta per
la frequenza dell’asilo era proporzionata al reddito familiare, quindi la mia
era semplicemente ridicola rispetto a quella del figlio di un banchiere.
Io però non potevo accettare quella situazione. I miei genitori mi avevano
insegnato la fratellanza, l’onestà, l’amore, la solidarietà che io avevo
accettato perché comprese come buone, e così continuavo a ribellarmi e ad essere
punito. Quella suora non mi ha mai picchiato come invece faceva a volte mio
padre, ma le legnate di mio padre lasciavano solo il segno sulla pelle che dopo
qualche giorno se ne andava, mentre quella suora scalfiva nel mio cuore come
sulla roccia le punizioni più umilianti ed insopportabili. La più frequente era
quella di rimanere in piedi fermo e zitto di fronte a tutti gli altri bambini
mentre la suora leggeva il responso del suo giudizio: “È un bambino cattivo”. Ed
io dovevo subire l’umiliazione anche di tutti gli altri bambini. Tacevo e
mandavo giù quei bocconi talmente amari che non si possono digerire. Non ero
certo l’unico ad essere preso di mira, ma, con un certo orgoglio, voglio
confessarvi che sbaragliavo ogni concorrenza. Quella suora non aveva argomenti
tanto validi, ma con un bambino il gioco è fin troppo facile, e proprio questo
fa del suo gesto un gesto molto più infame.