PROFILO DELL'AUTORE
Albanese Aurelio, nasce a Torino il 29-04-1955 - È uno dei tanti amati figli
cresciuti nella Fondazione di Don Carlo Gnocchi, un poliomielitico piagato nel
corpo ma forte nello spirito, che ha trovato una insperata passione per la
letteratura. Scrive dall’età di 39 anni e conserva i suoi scritti in un diario
poetico. Questa sua passione cresce in lui di pari passo con le sue sofferenze
ed è un terreno fertile per sviluppare la naturale sensibilità incline all’auto
riflessione e alla contemplazione del mistero della vita. |
Aldilà delle chiuse imposte Quanta ironica ipocrisia, esercitiamo abilmente dietro le chiuse imposte, nei molti nostri palazzi dell’anima Cattedrali, austeri, umani severi Tribunali, in quella grigia casa mia e tua e in ogni altro antro, fin dentro a quella palesata pazzia, che impedisce al nostro cuore di diversamente agire, rispetto alle infinite paure in cui costretto e prigioniero teniamo ciò a cui aneliamo e chiamiamo «“l’Io” dell’amore». Quanta candida finzione, aggiunge alla nostra vita peso, come un’intollerabile armatura o insopportabile maschera di ferro, che costringe il nostro viso in una crudele smorfia, strappandogli il sorriso o insopportabile prigione, d’una libera anima, costretta nella finzione d’un Creatore. Nessun Sermone o moralista potrà lenire o cancellare il disonore in cui si è vissuto e nessun Salvatore ci tenderà la mano, riavvolgendo il tempo o fingendo che come viviamo altra non sia che cieca follia umana e non il disegno Divino. Quanta menzogna nelle preghiere che, come le bandiere, gridano sangue, attrice tradita e senza vergogna, che ti stringe, ti bacia e offende, non meno della crudele natura. Quanto bisogno si ha di onestà, capace di vivere una realtà vera, che ancora non abbiamo capito, che, aldilà delle chiuse imposte, esiste. E son rimasto a guardare E smarrito mi guardava disorientato senza dire una parola, con la bocca semiaperta e appena un po’ più storta e la bava che colava giù dal mento. Mi guardava e non sapevo cosa fare o come agire per potere interagire con quei suoi occhioni neri che grandi e profondi a me arrivavano sinceri e puri dritti al cuore. Non parlava che con gli occhi quell’amico, che come me malato era pure lui inchiodato li, su d’una carrozzina, in un tenero sorriso, su d’un viso puro. E quant’anche le evidenti ferite profonde, sembrava che lui non si fosse arreso alla vita o ne fosse uscito illeso da quel crudele male, che lo costringeva in convulsi gesti che non voleva fare. Avrei voluto abbracciarlo stretto e con affetto parlargli di rispetto senza essere banale, quasi certo di trovare in lui l’ideale interlocutore dell’amore che è in grado di capire. Ma silenzioso son rimasto in quel suo generoso sorriso mentre allungava il braccio, che a casaccio tentava di stringermi la mano. E ora non ho per voi un nome per quella ingiusta sofferenza ne per quegli occhi ricchi di speranza non ho un nome per voi o meglio ne ho un milione di uguali anche se in sorrisi diversi volti al mondo perlopiù sconosciuti, volti morsi e spenti dagli stessi mali. Papà c'è... È nell’indifferenza, in un totale silenzio che muore il respiro e il pudico cuore d’un papà separato. Progressivamente di lui viene cancellato ogni sguardo o sorriso faticosamente conquistato sul viso dei figli. Ed è a una quotidiana guerra senza freni o confini che son destinati primi a soffrire, dell’amore offeso, gli innocenti bambini. E non vi è più sussurro passato d’amore che non sia consegnato a carcerieri, giudici che giudicano vizio le sfumature del cuore. Papà c’è, figlio mio, nonostante l’assurdo silenzio, le foto strappate, le crudeli bugie e la rabbia dei grandi in cui è costretto il suo cuore. Papà c’è, perché neppure la morte può spezzare il forte legame d’amore che è nato dal tuo primo sguardo e nel tuo primo vagito. Papà c’è, e ti difende la notte, se hai paura e il giorno, quando la vita più dura ti offende. © Copyright by: Aurelio Albanese |