Racconto di Fosca Andraghetti
Finalista al Gran Premio Letterario
Europeo Penna d'Autore 2003
Pagine: 67
Prezzo: 7,00 euro
E-mail:
ve14316@iperbole.bologna.it
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PREFAZIONE
È la storia di una vita, quella che l’autrice rievoca nel tempo della maturità,
quando i ricordi stimolano riflessioni talvolta amare e rimpianti irrevocabili.
L’io narrante percorre il racconto con sottile e puntuale indagine psicologica,
che investe personaggi e comportamenti ed illumina tutti i risvolti del
carattere di Giulia, la protagonista assoluta della storia.
È un carattere forte e dolce insieme, in perenne ricerca di equilibrio interiore
e quindi di continue spiegazioni che giustifichino e chiariscano i tanti
accadimenti del vivere.
I toni più alti e commossi si rivelano nella lunga descrizione del dramma della
madre, intorno alla quale si intrecciano dolore, ribellione, ma anche gelosia e
superficialità, tutti sentimenti così intensamente espressi da trasformare una
vicenda personale in una storia di più ampio respiro.
La scrittura è asciutta ed essenziale, del tutto rispondente alla personalità
forte, tormentata e generosa della protagonista, la quale è guidata comunque
sempre dall’amore, anche quando delusioni e ribellioni la investono da più
parti.
Al centro del racconto c’è dunque una figura femminile intensa e profondamente
vera, che ci coinvolge nel suo percorso fino all’ariosa pagina conclusiva, densa
di speranze e di voglia di vivere.
Laura Colombari
BAMBOLE 1
Quest’anno l’estate è particolarmente calda. Agosto è agli
sgoccioli e le temperature, da quasi quattro mesi, continuano ad oscillare tra i
trenta e i quaranta gradi. Qualche volta i meteorologi prevedono pioggia; quando
ci azzeccano, si tratta in genere di temporali che non hanno una via di mezzo: o
distruggono quanto incontrano al loro passaggio o durano talmente poco che le
crepe nel terreno restano invariate.
Ho incominciato a trascorrere qualche ora ai giardini. Dentro mi sembra di
essere come certi vecchi, io che vecchia non sono.
Leggo, scrivo, mi guardo in giro e penso a tante cose meno una: il vuoto. Quello
che mi hanno lasciato le persone che ho amato e che se ne sono andate. Un vuoto
che, un giorno o l’altro, dovrò affrontare e colmare.
In certi momenti ho l’impressione di camminare senza riuscire ad appoggiare i
piedi per terra.
Due anni fa ero capace di ironie che ora non sembrano più appartenermi. Due anni
fa la mia vita ruotava intorno ad un’eredità divisa fra le mie figlie e il mio
ex marito, un’eredità intrigante, inizialmente apparsa misteriosa. Di vitale
importanza era anche il rapporto con mia sorella Sara, pieno di nostalgia per
gli anni della nostra infanzia, che si era andato disperdendo nel corso degli
anni. Poi altri fatti ebbero il sopravvento e tutto questo scomparve dalla mia
mente, fu spazzato via, dimenticato.
Federico, quando morì mia madre, mi scrisse una bellissima lettera alla quale
non ho mai risposto. A lui, dolcissimo ragazzo figlio di mia sorella, feci
solamente un’asciutta telefonata di ringraziamento. Il fatto è che, quando siamo
arrabbiati con qualcuno, finiamo per coinvolgere i parenti di questo qualcuno.
Io ero adirata con Sara e mio cognato che non parla mai e, quando lo fa, di
solito è a sproposito. Ero arrabbiata con Sara, per mia madre che non c’era più
e per le certezze del mio mondo improvvisamente sparite. Ecco, proprio come se
il paracadute, che mi aveva sostenuto fino a quel momento, si fosse staccato dal
corpo che continuava a fluttuare nell’aria senza alcuna direzione.
Mio padre sta riemergendo poco per volta, si è costruito un suo spazio dove vive
con le proprie piccole cose. Rock, il suo cane, l’altro giorno mi ha teso la
zampa. Non aveva smesso di ringhiarmi contro dal giorno in cui mia madre era
caduta. Continuava a guardarmi con un misto di diffidenza e voglia di carezze.
Non saprò mai cosa avesse voluto dirmi con il suo ringhiare. Non saprò mai
perché era tanto arrabbiato con me, ma quella sua zampa tesa è un segno di pace.
Anche gli animali hanno un loro linguaggio.
Accanto a me c’è Saverio. Lo avevo conosciuto al mare, l’ultima estate in cui
andai con mia madre. Dopo erano rimaste solo rare e, almeno da parte mia,
impacciate telefonate. Lui è arrivato tardi nella mia vita, non sa niente delle
mie radici, di quei piccoli episodi che fanno parte del nostro quotidiano e
costituiscono la nostra storia.
Lo avevo rivisto un mattino, seduto sul molo, dove ero andata per confondere le
mie lacrime con quelle del mare. Per ore avevo guidato senza meta, con dentro il
bisogno impellente di raccontare, anche agli sconosciuti, il mio dolore fresco.
Saverio è rientrato così, con quelle parole in più che vorremmo udire in simili
circostanze e una lettera di condoglianze. È entrato nella mia vita in punta di
piedi, mi sfiora la punta delle dita, so che un giorno gli tenderò la mano.
Talvolta mi coinvolge nella vita della sua famiglia, quella che gli è rimasta
dopo aver perso la sua compagna per sempre.
Sono occasioni minime e tenere.
Loro si comportano con me come fossi convalescente da una malattia con qualche
difficoltà nella scelta e nell’uso dei medicinali. A sprazzi mi viene voglia di
riprendere il mio cammino, di colmare i vuoti, di smettere di stare seduta sui
talloni a rimuginare sulle mie ferite.
Oggi mi ha portato una bambola di pezza. È cucita con maggiore ricercatezza
rispetto a quella che mi fece mia madre, ma sua figlia l’ha confezionata
appositamente per me e suo nipote mi ha mandato un piccolo cuore di plastica
rosa. Dice che sono innamorata di suo nonno.
Non so se sia così perché ho l’impressione di avere consumato i miei sentimenti,
di non essere più capace di provare batticuore se non quando ho paura, ma i
piccoli doni ricevuti da persone che conosco appena e dai sentimenti puri, sono
un segno che la vita continua e che comunque bisogna andare avanti facendo del
nostro meglio.
Un giorno, forse, anche mia figlia Barbara tornerà da sua madre. Nel tempo che
mi è stata lontana, non ho goduto dei suoi abbracci, né di quelli di Mattia, ma
l’importante è che torni.
Alessandra non si è mai allontanata da me ma, proprio per quell’eredità, che
sembrava misteriosa e invece le ha cambiato la vita, ha intrapreso una nuova
attività che la porta spesso in giro per il mondo. E poi lei non è mai stata una
mammona!
Nel parco una bambina trascina la sua bambola stanca. Sua madre la sgrida. Lei
butta la bambola per terra.
«Ho la pipì!» urla poi con quanto fiato ha in gola.
«Finiscila o ti mollo due sberle!» dice sua madre.
Nessuno le dà ascolto e lei si china al lato del vialetto calando le mutandine
senza pudore. Arrivano le due sberle e anche le sue lacrime.
La bambola è rimasta per terra, le braccia spalancate e gli occhi che guardano
il cielo.
Ricevetti la mia prima bambola da mia madre. Un giorno, al ritorno dal
catechismo, annunciai che tutti i miei compagni avrebbero ricevuto un regalo il
giorno della Cresima. Cioè il giorno dopo. Lei, che andava sempre di fretta, si
era fermata a guardarmi e, con la mano destra, aveva fatto un gesto di
insofferenza. Poi era ritornata alle sue faccende. Io ai miei compiti, dopo aver
inghiottito la delusione.
Dopo cena mia madre aveva posato sul tavolo la scatola di latta contenente
l’occorrente per il cucito. Era l’inizio del mio regalo, ma ancora non lo
sapevo. Con le forbici aveva incominciato a tagliare un rettangolo di stoffa,
rosa sbiadito mi pare, avanzo di una sottoveste. Seduta all’altro capo della
tavola, fingevo di ripassare i compiti. In realtà, guardavo crescere quella che
sembrava dovesse diventare una bambola senza nemmeno tirare il fiato. Il corpo
aveva preso forma con un’imbottitura di lana cardata. Due bottoncini neri,
sottratti ai polsini di una vecchia giacca di mio padre, erano diventati gli
occhi e i capelli erano il risultato di alcune gugliate di lana marrone tagliata
a pezzi. Mi sto chiedendo come fossero il naso e la bocca. Annaspo un poco in
questi dettagli che sembrano sparire nel momento stesso in cui mi sforzo di
tradurli in parole.
Quello che rammento è il confronto con la bambola che mia nonna mi regalò il
giorno successivo. Di celluloide, piccola con un abitino a quadretti bianchi e
azzurri e le trecce nere. Se la sdraiavo, chiudeva gli occhi con un leggero
ticchettio. L’avevo chiamata Tatiana e mia madre mi permetteva di giocarci
soltanto di domenica per non sciuparla. Non ricordo il nome della bambola di
pezza; quello che rammento con certezza è che la portavo ovunque: nella
cartella, fra i libri di scuola, in tasca quando andavo a rintanarmi nella
cascina per leggere in pace.
So che le parlavo. Per mia madre è stato un dono importante. Per me è stata
un’amicizia. Un giorno mi accorsi che le mancava un occhio. Molto probabilmente
il bottone, facente funzione, era servito a mia madre, ma io, che per un
problema visivo ero costretta a portare una benda in un occhio, l’amai ancora di
più. Era come me: bruttina e guercia, dunque non ero più sola nel mio essere
diversa.
Persi Tatiana durante un trasloco. Al ritorno dal collegio non trovai più
l’altra. Capii che la mia infanzia a brandelli era definitivamente finita. Avevo
undici anni.
Non ho mai dimenticato entrambe, ma soprattutto non ho dimenticato il dono di
mia madre. Non ho dimenticato quel suo stare china alla luce di un lume a
petrolio, stanca di fatica e di pensieri, perché potessi almeno una volta non
sentirmi diversa dai miei compagni di scuola nella mia infanzia senza giochi.
Alle mie figlie di giocattoli ne abbiamo regalati tanti e io ho molto giocato
con loro. Ciò che non sono riuscita a fare, è “tenere in piedi una famiglia”,
come si suole dire, e certamente ne hanno sofferto.
Ci sono momenti come questo in cui si fanno bilanci, ma i bilanci, si sa, non
pagano mai. E allora me ne sto qui a guardare i vecchi e i bambini. Ho bisogno
di quiete e ho bisogno di ricostruire le mie memorie che si rincorrono alla
rinfusa nella mente.
Così ho scritto una storia. Sta nel fascicolo posato sulle mie ginocchia.
Saverio, “l’uomo della spiaggia”, colui che ho incontrato un giorno al mare e
che in questi ultimi mesi mi ha dato tanto, l’ha letta. Ha limato, censurato,
aggiunto, cambiato e spostato cose. Ora se ne sta due metri più in là e aspetta.
Gli sono grata perché esiste, perché mi sopporta e contesta allegramente i miei
sbalzi di umore, perché un giorno mi ha scritto una bellissima lettera:
«…credo che perdere un genitore ci faccia sentire come fossimo diventati
improvvisamente zoppi. Come se avessimo la disponibilità di una gamba sola.
Bisogna quindi imparare a camminare con quanto è rimasto, ma non ci sono gli
ortopedici con le loro tecniche riabilitative ad aiutarci, ad indicarci la
strada da percorrere. Per quanti affetti, piccoli o grandi che siano, possiamo
avere intorno, ci si sente un po’ soli a fare i conti con quella parte della
nostra vita che se ne è andata, a fare i conti con quella parte della nostra
vita che ci resta davanti.
Lo so che non ti sto dicendo parole di conforto, ma sembri uno di quei gabbiani
che sono finiti nella pozza di petrolio persa da una petroliera assassina. Così
a questo gabbiano Giulia posso solo dire: tieni alte le ali e la testa, muovi le
gambe, anche se ti fanno male, perché intorno hai tante persone con le mani
pronte a cercare di toglierti di dosso il tuo petrolio…»
Le persone che se ne sono andate, e che abbiamo amato, lasciano sempre un’acuta
nostalgia e sentimenti contrastanti.
Saverio mi ha suggerito di mettere sulla carta i miei pensieri, i miei ricordi,
le mie emozioni. Ho scoperto che non è solamente una terapia per le mie lacrime
sospese, ma un riappropriarmi delle mie radici e del mio mondo che va
scomparendo.
continua |