PROFILO ARTISTICO
ELENA DRAGONE PASIANOT è nata a Verona l'11-2-1943, vive e lavora a Torino. Architetto e insegnante, ha collaborato alla stesura di numerosi libri di testo scolastici. Lasciato l'insegnamento, ha lavorato come Grafica, Pittrice, Stilista e Arredatrice, realizzando pannelli, vetrate e trompe-l'oeil di grande respiro descrittivo. Nel dicembre 2000, nell'ambito delle celebrazioni del Giubileo, ha dipinto, su commissione della Comunità di San Paolo, di Torino, una grande tela raffigurante "La Conversione di San Paolo" e, nel 2003, il ritratto del Beato «Don Alberione», in grandezza naturale. Vincitrice di premi di pittura, incisione e grafica in Italia ed all'estero, di poesia in italiano e in piemontese, finalista nel Premio Jacques Prévert del 2000 con il romanzo «La storia Locarella» e, nel 2001, con «La damina di biscuit». Vincitrice nel settore Narrativa del Concorso «Scriviamo un libro insieme», nel 2003, con «Un Amore vero».
Primo racconto: LA MARATONA DEL
CIOCCOLATO
Da anni Michel inseguiva la vittoria, senza mai raggiungerla: un secondo posto, una menzione d’onore, l’aveva avute, questo sì, ma mai la coppa dorata che avrebbe sancito, davanti a tutti, che lui era il più grande scultore di cioccolato della regione. Come tutti gli altri artigiani, quando arrivava quell’anniversario, si recava sulla piazza del paese e si dava da fare per trasferire la sua fantasia in quel grande blocco scuro, untuoso al tatto, che gli veniva assegnato, ornandolo con pezzi già preparati allo scopo in laboratorio ma invariabilmente, alla fine della "Gran Giornata", come la chiamava lui, vedeva sul podio qualcun altro ricevere dalle mani del sindaco la coppa dorata.
«Ma quest’anno, ce la farò! Ho un piano e batterò tutti».
Si disse Michel, dopo aver trascorso un’altra notte insonne nel suo laboratorio dietro al negozio. Un piano molto semplice, per raggiungere la méta che inseguiva da anni: il giorno della Maratona, avrebbe scolpito nel cioccolato, sotto lo sguardo critico dei suoi compaesani, il centro storico del paese, con la chiesina gotica sul lato est della piazzetta quadrata, fronteggiata dall’Hôtel de Ville, gli edifici d’abitazione che fiancheggiavano i due monumenti e la fontana dei giardini pubblici la cui pietra consunta dai secoli aveva assunto le sfumature della cioccolata al latte, le stradine sinuose che dividevano i blocchi di case sostenute da grossi travi squadrati e il ponticello in pietra che scavalcava, con un arco aggraziato, il fiumiciattolo che sgorgava dalle colline vicine. Il campanile romanico sormontato dalla guglia svettante, gotica, era della stessa pietra, ma venata di scuro... Avrebbe mescolato abilmente la polvere di cacao scuro, nel blocco da scolpire, in modo da fargli assumere la venatura del marmo, dilavato dalle piogge torrenziali che colpivano la cittadina al sopraggiungere dell’inverno, mentre avrebbe ricavato le tegole che coprivano la navata centrale della chiesa, adoperando una sgorbia affilata, adatta a spezzettare in scaglie lucenti il blocco di cioccolato grezzo, schiarito dal burro di cacao e dalla panna.
L’ispirazione lo aveva colto all’improvviso, la prima domenica di primavera, proprio mentre stava chiacchierando con il fratello Jean, lì, davanti al grande portale della chiesa. All’interno, il coro dei bambini accompagnava le varie fasi del rito: inatteso, come una folata di vento, gli giunse un «Alleluja», subito trasportato via dalle raffiche di vento che gli sollevavano le falde del cappotto della festa, gelandolo fino al midollo. Angéline insisteva a fargli indossare quel pastrano che si era fatto confezionare per il matrimonio, tanti anni prima, anche se, ormai, gli andava così stretto da costringerlo a lasciarlo sbottonato:
«Almeno la domenica, Michel, bisogna darsi una sistemata, mettersi all’onor del mondo: fallo, per piacere, almeno per mantenerti quel po’ di clientela che ci permette di tirare avanti, se non ti viene in mente che anch’io, ogni tanto, vorrei sentirmi fiera del marito che ho...».
E, con un’occhiata fugace, da sotto le palpebre, che gli ricordava i tempi in cui non si sarebbe mai sognata di disapprovarlo, gli passava la spazzola sulla stoffa più spessa che calda, del paletot, aiutandolo poi ad infilare le braccia nella strettoia delle maniche. Non gli dava il tempo di protestare, ma la mano che gli toglieva dalle spalle l’ultimo, invisibile, granello di polvere, era come una ruvida carezza, di ringraziamento per averla accontentata. Intenerito suo malgrado, Michel si girava a porgerle il braccio, per accompagnarla alla messa; il vago senso di colpa che gli si agitava in fondo ai pensieri, non aveva nessun nesso col fatto che, attraversata la piazza, lui la lasciasse al primo scalino della scala della chiesa, per andare a raggiungere il fratello e gli altri uomini che aspettavano, lì di fronte, il compiersi del rito domenicale. Si usava così: pregare era una cosa da donne, gli uomini dovevano impegnarsi nel diventare il fulcro delle loro orazioni, scambiandosi commenti sul raccolto e sull’influire delle stagioni sul possibile ricavato e girellando oziosamente, o con un bicchiere di vino in mano, nella vicina osteria, in attesa di veder le donne riemergere all’aperto. Il primo ad uscire, nel rispetto delle tradizioni, era il sindaco (l’unico uomo che non poteva sottrarsi all’obbligo di santificare la festività) poi le donne, con i bambini per mano.
Infreddolito, forse anche un po’ annoiato dai discorsi sempre uguali di Jean, quel giorno Michel sospirava il momento in cui, rientrato a casa, avrebbe potuto disincagliarsi dalla morsa gelida del cappotto. Spiava con impazienza la comparsa di Angéline e di Laurent, chiedendosi perché mai tardassero tanto: erano già usciti tutti, quando le luci elettriche si spensero, senza che loro ricomparissero... fu allora, che dall’oscurità della navata, rotta soltanto dalle luci delle candele, all’improvviso, gli giunse quella strana sensazione: di dolcezza raccolta, di calore riservato a pochi adepti iniziati a comprenderla e goderla, come un frutto raro, o come un cioccolatino, liscio e levigato che libera in bocca il profumo delle ciliegie e il calore dell’estate. In quel momento capì: lui aveva sempre creato degli oggetti, belli da vedere, in cui risaltava la sua bravura di scultore, ma non aveva mai toccato, con le sue opere, le emozioni della gente. Nella sua smania creativa, non aveva mai pensato che la materia prima che adoperava era già di per sé un capolavoro naturale, capace di provocare sensazioni delicate e squisite, anche senza il suo intervento d’artista.
Ecco: se fosse riuscito a trasmettere quella sensazione di delizia, insieme all’ammirazione per la sua bravura di scultore, forse, finalmente, il premio sarebbe stato suo! Se fosse riuscito a coinvolgere tutti coloro che lo osservavano scolpire, in quella sensazione di calore, che solo il sentirsi a casa propria, riesce a provocare...
La chiesa, la casa, le loro vie, il tiglio centenario che sporgeva i rami nodosi sui tavolini del bistrot di Emile... Angéline e Laurent uscirono dalla chiesa, scusandosi per averlo fatto attendere:
«Non c’era nessuno ad aiutare il curato a spegnere le luci, oggi che il sacrestano è influenzato, così gli abbiamo dato una mano...».
Laurent aveva incominciato a parlare col tono affannato di chi si sente in colpa e un accenno di sorriso che s’ingrazia il perdono, ma, vedendo lo sguardo perso del padre, aveva guardato la madre con aria d’intesa ed era corso a raggiungere gli amici che stavano rincorrendosi tra le aiuole disadorne. Muta, con una smorfia di sopportazione mal dissimulata, Angéline aveva infilato il braccio sotto il gomito del marito e, secondo un cerimoniale collaudato, l’aveva diretto verso casa. Mentre seguiva meccanicamente i passi di lei dentro la chocolaterie da cui si accedeva all’abitazione, i pensieri che si affollavano confusi nella mente di Michel si tradussero in immagini, profumate di cioccolato. Il giorno dopo andò a far visita a «Monsieur le Curé». Non era un fatto insolito: Michel ricordava ancora con gratitudine quelle giornate estive, in cui, da bambino, andava a catechismo, insieme a Jean e, dopo le lezioni, il prete, ancora giovane, insegnava a lui e agli altri ragazzini il modo migliore per tirare un calcio d’angolo, nel prato invaso dalle erbacce, dietro la canonica. Père Tentissier, dal canto suo, conosceva l’onestà di quel poeta che non era mai sceso a patti con la coscienza per realizzare i sogni di gloria che gli avrebbero portato anche possibili guadagni e vita più facile in famiglia. Era abbastanza raro, però, che Michel andasse a fargli visita durante l’orario di apertura della chocolaterie, e non si era ancora nel mese di aprile, che segnava l’inizio dei suoi progetti di scultura...
continua |