Racconti di Elena Dragone
Pagine: 226
Prezzo: 12,00 euro
E-mail: elendra@libero.it
Tel.: 335 6884709
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PROFILO ARTISTICO
ELENA DRAGONE PASIANOT è nata a Verona l'11-2-1943, vive e lavora a
Torino. Architetto e insegnante, ha collaborato alla stesura di numerosi libri
di testo scolastici. Lasciato l'insegnamento, ha lavorato come Grafica,
Pittrice, Stilista e Arredatrice, realizzando pannelli, vetrate e trompe-l'oeil
di grande respiro descrittivo. Nel dicembre 2000, nell'ambito delle celebrazioni
del Giubileo, ha dipinto, su commissione della Comunità di San Paolo, di Torino,
una grande tela raffigurante "La Conversione di San Paolo" e, nel 2003, il
ritratto del Beato «Don Alberione», in grandezza naturale. Vincitrice di premi
di pittura, incisione e grafica in Italia ed all'estero, di poesia in italiano e
in piemontese, finalista nel Premio Jacques Prévert del 2000 con il romanzo «La
storia Locarella» e, nel 2001, con «La damina di biscuit». Vincitrice nel
settore Narrativa del Concorso «Scriviamo un libro insieme», nel 2003, con «Un
Amore vero».
Primo capitolo: LA PROMESSA
Torino, 1982, una vecchia casa in quartiere Crocetta,
ricostruita dopo la guerra sulle fondamenta di un edificio della fine dell’800,
con gli ambienti distribuiti secondo i criteri di quel secolo, anche se con
materiali più moderni (parlando del 1948): un’entrata quadrata, sulla destra un
corridoio stretto che portava alla camera con annesso bagno non riscaldato, per
la servitù. Visto che il resto dell’appartamento padronale era riscaldato,
evidentemente si dava per scontato che alla domestica, infreddolita, in questo
modo fosse più gradito rispondere prontamente alle chiamate e precipitarsi a
servire. Quando andammo ad abitarci non avevamo la domestica. Così quello
diventò il quartierino della Nonna e non la sentimmo mai lamentarsi del freddo.
Il resto dell’appartamento era occupato dalla mia famiglia.
In particolare, la camera di fronte alla cucina che mia madre aveva sempre
sognato di adibire a tinello-soggiorno, (per aprire la sala grande solo nelle
feste comandate), finché mia sorella Marianna e io non ce ne allontanammo per
convolare a nozze, fu la ‘camera delle ragazze’. Rimasta sola con la Nonna, non
c’era più bisogno di un tinello, di spazio ce n’era fin troppo: allora la Bruna,
nostra madre, l’aveva trasformata in sala da musica, con pianoforte, violini e
librerie piene di spartiti per darvi lezione di violino, e per Donatella, la
figlia più piccola, unica erede dei suoi gusti musicali. Era destino però, che,
come aveva dovuto rinunciare al tinello-soggiorno la stessa cosa si ripetesse
con la ‘stanza da musica’, quando si rese necessario trasferirvi la Nonna, dal
suo quartierino.
91 anni, bloccata dalla rottura di entrambi i femori in un letto cui dava la
statura di un trono, di notte voleva essere udita subito da sua figlia Bruna che
tentava di dormire nella camera adiacente e di giorno, prontamente servita anche
dalla cucina, sempre da Bruna, perché aveva una fame atavica, mai
sufficientemente saziata e non tollerava ritardi di nessun genere e in nessuna
occasione.
La nonna ne prese possesso con la degnazione dovuta. Dal suo ponte di comando
dominava figlia, nipoti, generi (ex-Sessantottini compresi) e pronipoti,
facendoci accorrere tutti ai suoi comandi, ansiosi di esaudire i suoi desideri.
I suoi richiami giungevano sonori, in tono di basso profondo, in diretta alla
Bruna e per suo tramite telefonico a noi. A seconda dell’entità di esasperazione
contenuta nella voce di mia madre, variava la nostra velocità d’intervento.
Quando si era al suo cospetto, ci si trovava noi in piedi e lei seduta sul
letto, con gli occhi alla stessa altezza. Questo non solo perché la statura
media di noi donne del gruppo è sempre stata inferiore al metro e sessanta, ma
perché lei, malgrado gli anni e gli acciacchi, si ergeva in modo che così fosse.
Come un serpente a sonagli, erta su quegli arti di cui solo il dolore costante
ne segnalava la presenza. E pronta a colpire, per sentirsi ancora viva. Quasi
cieca, riusciva a imprimere imperiosità allo sguardo sollevando un sopracciglio,
stringendo la bocca rugosa a fessura o scuotendo la spuma candida che le
incorniciava la testa caparbia. Quel giorno, in particolare, mi aveva mandata a
chiamare, come d’abitudine, col pretesto che la mia mano d’infermiera era
l’unica che non le procurasse lividi facendole le iniezioni. Architetto,
insegnante, pittrice, moglie e madre di due bambini tanto belli quanto
impestati, l’unico motivo per cui sembrava volesse vedermi era quello. Aggiunta
abituale all’imperativo, pronunciata come una concessione da regina-madre ai
sudditi: “Mentre che la vien , dighe che la porta i tosi...!”
Bontà sua, non avrei saputo dove lasciarli e comunque era un problema anche
portarli, i miei ‘tosi’: Michele, dodici anni, andava in panico tutte le volte
perché appena arrivava, doveva leggerle il primo capitolo dell’Isola del Tesoro,
sempre quello, sotto la costante minaccia del vecchio bastone da passeggio
appoggiato al bordo del letto, Nicola, di sette, la temeva e basta.
N.d.A.: “Perché sempre il primo capitolo?” Chiedeva, titubante, il bambino.
Risposta, secca come una fucilata:
“Perché lo conosso tuto benisimo e me basta sentire el prensipio per
ricordarlo!”
Fu lì, dopo l’iniezione (di vitamine ,’Chè le fa’ sempre ben’ ) che tirò fuori
quella battuta:
“Un dì o l’altro, Elisa, ti te devi scrivar la storia de la tua vita!”
Il pronto commento di mia madre fu :
“Ma cosa vuoi che scriva, che se c’è una normale è lei!”
“Proppio per quelo, - fece la Nonna, guardandola di sottecchi, in quel modo che,
lo sapeva benissimo, aveva il potere di farle perdere la calma - perché ela la
sa contar e ‘ntanto che la conta la sua, la parlerà anca de mi!”
Nasce così questa STORIA LOCARELLA, corta ma bella, col capeletto in crò, vuto
che te la conta, si o no?
Non c’è traduzione logica, se non la rima finale, e il fatto che siano ricordi
un po’ affastellati, ne giustifica la definizione spagnoleggiante di ‘locarella’
ovvero sciocca... che sia corta non si sa ancora, bella, anche questo è da
vedere, ma se deve ricordare la nonna Fosca, non può avere altro titolo: era
comunque l’unica favola che la Nonna Fosca sapesse.
Mi ci sono voluti più anni di quanto mi piaccia ammettere, per capirne il senso.
Il seguito dipendeva dalla risposta: se dicevi di si, ripeteva da capo: Questa è
la storia locarella, etc… Se dicevi no, finiva lì, senza problema. Con gli anni,
ho capito che la ‘storia locarella’ è la vita: alti e bassi di entusiasmi,
lacrime e risa che si avvicendano e si ripetono, per tutti, secondo un ritmo che
non ha un senso proprio, se non quello che ognuno di noi ci vuole vedere ma,
(tanto per citare di nuovo una frase della nonna Fosca) questa abbiamo, sta a
noi decidere che significato darle e quale valore!
C’erano due cose di cui andava fiera, la Fosca: l’anno di nascita che ricordava
il più famoso fucile italiano dell’800, il ‘91 (come se la scelta della data
fosse merito suo) e l’essere riuscita a farsi sposare, nel 1915, a Torino, dal
Piero che vi era giunto un anno prima, da Cresole, loro Paese d’origine del
Vicentino, probabilmente alla ricerca di un’indipendenza non solo economica.
Anche qui, perché dovesse andarne fiera non è facile capirlo. Quando lo
raccontava a noi nipoti, nostra madre sbottava sempre in questa frase:
“Qul povr’ om! Non potevi lasciarlo vivere tranquillo?”
Al che, la nostra regolare intromissione era:
“Ma, mamma! Così non ci saresti neanche tu!”
“E tzas che perdita!”
Le usciva con voce un po’ strozzata.
“E noi?”
Timidamente una di noi lo tirava fuori, quest’interrogativo.
“Beh! Questo è un altro discorso...”
Sospirava la mamma, a denti stretti e la nonna poteva riprendere il suo racconto
che, per noi aveva il sapore della favola e non era mai ripetitivo, come lo
sono, abitualmente, i racconti dei vecchi. Traendo spunto da qualche episodio
del momento, il racconto sgorgava direttamente dalla memoria, con la vivezza
della battuta o il mormorìo della commozione trattenuta e assumeva l’aspetto di
un quadretto impressionista. Poche spatolate, uno squarcio di luce, dei
personaggi colti nell’atto di compiere un movimento: il quadro era lì, davanti
ai nostri occhi, pronto a tornare, velocemente come era apparso, nella soffitta
dei ricordi.
Solo ora, a distanza di anni, mi sento pronta ad allestire una mostra
cronologica di quei quadretti: forse perché mi sono resa conto che certi colori,
se non vengono rinfrescati ogni tanto, rischiano di appannarsi e voglio che,
invece, i giovani della famiglia possano ancora goderne. In fondo, fanno parte
della storia, quella con la esse maiuscola, anche se non comparirà mai nei libri
di scuola.
fine primo capitolo |