CURRICULUM
FRANCESCA SANTUCCI è nata a Napoli, dove ha compiuto studi classici, insegnato e
collaborato al periodico «Campania oggi», ma vive a Bergamo.
Poetessa e scrittrice, ha conseguito diversi premi e riconoscimenti sia per la
narrativa che per la poesia.
Ha pubblicato due raccolte poetiche, La vana attesa (A.L.I. PENNA D'AUTORE,
2000) e L'ultimo viaggio (IL FOGLIO, 2002) e, studiosa di letteratura al
femminile, l'antologia Donna non sol ma torna musa all'arte (IL FOGLIO, 2003) e
Donne protagoniste (IL FOGLIO, 2004).
Ha, inoltre, curato la prefazione del libro dell'antichista Letizia Lanza Il
diavolo nella rete, (Joker, 2003), e dei Ricordi di guerra di Rodomonte Lenti
(A.L.I. PENNA D'AUTORE, 2004).
È presente con poesie e racconti in antologie collettive e raccolte multimediali
(case editrici Book, Seledizioni, CE.AR.C., Centro Incontri, Ursini, Penna
d'Autore, Il Filo, I fiori di campo, Aletti, etc.).
Collabora con la rivista letteraria Il notiziario per i soci italiani della
Brontë Society ed in rete con Poiein, sito letterario e di solidarietà, e con
Vico Acitillo 124 - Poetry wave, nello specifico per la sezione Senecio dedicata
alla classicità greco- romana.
Il suo sito internet è:
www.letteraturaalfemminile.it.
IL RATTO DEL LICEO
Quod in iuventute non discitur, in matura aetate nescitur.
(1)
( Cassiodoro Variae, 1,24)
Persiane scolorite, dal balcone della presidenza un tricolore
sbiadito svettante sul pennone, nel cortile acacie rinsecchite e pioppi dai
colori smorti, corridoi lunghi, tetri e silenziosi, pavimenti di marmo ben
netti, lucidi, a specchio, con losanghe bianche, con losanghe nere, qualche
busto dei grandi del passato, Cicerone, Dante, Alfieri, Manzoni, in un edificio
vecchio, quasi fatiscente, muri che il tempo aveva reso grigi come le pianure
del nord nei giorni di nebbie novembrine, intonaci scrostati, sezioni solo
femminili, alunne serie di buona famiglia, insegnanti severi un poco appannati
dall’età, bidelli scrupolosi dai capelli bianchi con le spalle curve dentro ai
grembiuli neri.
In quel liceo classico tutto era fermo, immobile ed eguale, tutto solo in bianco
e nero come la stampa di una bella veduta d’altri tempi. Anche il preside, da
anni, forse da secoli, era sempre lo stesso e sempre simile a se stesso: la
testa pelata, secondo una certa immagine virile del passato, baffetti corti,
pizzetto ben curato onor del mento, occhiali spessi, camicia immacolata odorosa
di stantio e di sapone di Marsiglia, farfallino a pois ormai desueto, vestito
grigio scuro d’inverno, grigio chiaro d’estate, le scarpe di copale ben lucide.
Anche i professori non cambiavano mai e si assentavano raramente; non senza una
picca d’orgoglio alcune allieve raccontavano in giro di avere gli stessi
insegnanti che erano stati insegnanti dei loro genitori.
Tutto, dunque, sempre uguale, lì non arrivava nemmeno l’eco delle proteste dei
giovani per strada, dei cambiamenti allora in atto nella società, forse per
questo una mano anonima, un giorno, aveva impresso una scritta sulla parete
esterna dell’edificio; diceva:
– Questo liceo è triste e buio! –
Ma qualcuno si era affrettato a rispondere:
– No, non lo è. Lo rischiara la luce del sapere! –
Ed era vero. I grigi professori si rivelavano insegnanti eccellenti, entusiasti
ed entusiasmanti, le materie erano estremamente interessanti, le spiegazioni
esaltanti ed esaltante lo studio: le grotte di Lascaux, l’Egitto misterioso, la
lineare A e la lineare B, la civiltà della Grecia antica, culla del pensiero
occidentale, Socrate che sa di non sapere e muore per la Verità, Diogene di
Sinope che con una lanterna erra alla ricerca dell’uomo, Alessandro il grande
che anche in guerra si fa accompagnare dai filosofi.
E poi i Romani, oh, sì, qualcuno li dirà invasori ed aggressori, ma quale
sincera esultanza dinanzi a Roma caput mundi e fino ai confini del mondo con
Traiano!
Furono quelli davvero anni di studio leopardianamente matto e disperatissimo, ma
non ci fu bisogno, come per l’Alfieri, di farsi legare ad una sedia per
affrontarli, perché si era guidati dalla sete della conoscenza, dal desiderio di
sconfiggere l’ignoranza aprendo la porta verso l’infinito sapere, secondo la
lezione di un altro grande, Galileo. E poco importava se la scuola era malandata
e i professori anziani!
II
Col suo bel nome ottocentesco quell’anno giunse nella nostra
classe Ombretta; chioma fiammeggiante, frangetta sbarazzina, chiari occhi
celesti un po’ furbini in un viso pieno di lenticchie, sorriso aperto e
schietto.
Ripetente, non molto portata per lo studio, non di grande intelligenza, ma non
sciocca, forse solo un poco tarda nel capire.
– Che bel nome, insolito per i nostri tempi. Come mai? – chiese curiosa la
professoressa di Latino accomodandosi gli occhiali sopra il naso adunco.
– Ol mé pàder… (2) –
– Parla in italiano. –
– Mio padre è tifoso di Antonio Focazzaro, quello che ha scritto “Piccolo mondo
antico” … Dice che la protagonista… –
– Sì, sì, bene, bene, ma non si dice tifoso, si dice estimatore, cultore,
appassionato… e Fogazzaro, non Focazzaro ... Comunque è nel programma
dell’ultimo anno… Non so nemmeno se ci arriverete a trattarlo! – tagliò corto
l’insegnante passando ad altro.
Questo fu il debutto di Ombretta sul palcoscenico del liceo classico dove, in
cinque anni, si alternarono i più svariati, coloriti e variopinti personaggi,
sia nel corpo insegnante sia nella multiforme massa delle scolare. Molte allieve
si persero lungo il cammino (ma è noto che la via che conduce al sapere è
lastricata di ostacoli), di alcune si conserva un bel ricordo, di altre si è
dimenticato anche il cognome, indelebile resta quello di Ombretta, per la
ventata d’involontaria allegria che portò nel compassato e prevedibile liceo di
quegli anni.
III
Chi ama il latino lo ama per sempre, al contrario chi non lo
ama non lo amerà mai. E chi ama il latino lo capisce subito, chi non lo ama non
lo capirà mai. Ombretta non lo amò e non lo capì, mai e da subito. Gli antichi
poeti greci dicevano: Ta patemata matemata!, le sofferenze sono insegnamenti.
Parafrasando oserei dire che l’insegnamento è una sofferenza, o che almeno tale
può diventare per l’insegnante che abbia la sfortuna di imbattersi in un alunno
sordo all’apprendimento o per lo meno non votato allo studio dei classici.
Ritornando ad Ombretta, dopo aver, più o meno con regolarità, tra i dileggi e
gli scherni delle compagne di classe ed i rimproveri dell’insegnante, un po’
incasinato i casi, declinato a vanvera, flesso i verbi alla bell’e meglio,
confuso i parisillabi con gli imparisillabi, i passivi con i deponenti, homo–hominis
e omnis–omne, scambiato semplici plurali per pluralia tantum, chiamato
ripetutamente Luigino lo scrittore Igino, raggiunse il culmine del caos più
completo inciampando malamente nella versione dal latino “Il ratto di Proserpina”,
già preceduta da un’altra non agevole traduzione sullo stesso tema, “Il ratto
delle Sabine”.
Insensibile al destino di Proserpina, rapita dallo zio Plutone mentre
raccoglieva i fiori della primavera (rapta, in latino, da cui raptum, ratto,
appunto, ma non ratto – topo, bensì ratto – rapimento), sorda al dolore di
Cerere che cercò la figlia per nove giorni e nove notti per mare e per terra (Diu
Ceres omnia loca clamoribus et querelis implevit), si ostinava a chiedere:
– Ma il ratto dov’è?– E le compagne la zittivano con occhiatacce eloquenti.
Infine l’inopportuna domanda giunse anche alle orecchie dell’insegnante che si
era fin lì profusa in un’enfatica spiegazione del rapimento, sottolineando gli
aspetti drammatici del contenuto della versione ma anche fornendo spiegazioni
tecniche ed interpretative della struttura del linguaggio, soffermandosi proprio
sul significato del verbo rapio ed insistendo su come l’ingenua fanciulla rapta
erat da quel brutalone di Plutone, re degli Inferi.
Scuotendo i bei capelli rossi insistente ancora Ombretta chiedeva:
– Sì, ma il ratto dov’è? –
L’insegnante trattenne un lungo respiro, con gli occhi sbarrati, le gote
infiammate di rabbia repressa, fu lì lì per esplodere in un aspro rimprovero che
sarebbe rimbombato per tutta l’aula, per tutta la scuola, più acuto delle urla
di dolore di Proserpina, poi, inaspettatamente, sotto l’occhio atterrito della
scolaresca, scoppiò in una potente risata che contagiò l’intera classe, eccetto
Ombretta, che conservava ancora l’interrogativo nello sguardo, e così si
espresse:
– Domàndeghel a to pàder.(3) –
Dopo quella ventata d’ilarità collettiva, che mai più, in futuro, si sarebbe
ripetuta, l’insegnante riprese l’abituale contegno e ordinò:
– Continuate a tradurre! –
In un ultimo disperato tentativo la ragazza testarda, e non sdegnosa come quella
del Mississipi, rivolse nuovamente alle compagne l’ossessiva domanda, ma quelle,
per tutta risposta, le tirarono fuori la lingua.
Allora Ombretta non chiese più e da quel giorno, sul giallo dell’antichità,
scese un assoluto silenzio, non avendo il coraggio, né l’insegnante né le
alunne, di ritornare sull’argomento.
Non ho dubbi che anche oggi, ovunque si trovi, dovunque la vita l’abbia poi
condotta, se talvolta il pensiero le ritorna agli anni della scuola, ancora si
arrovelli il cervello chiedendosi ostinata:
– Ma il ratto dov’è? –
(1) Ciò che non s’impara in gioventù, in
vecchiaia non lo si sa.
(2) Mio padre (in dialetto bergamasco).
(3) Chiedilo a tuo padre.
continuano altri racconti e fiabe |