Romanzo di Marina Vio
1ª Premio di Narrativa inedita
ottenuto al Gran Premio Letterario
Editoriale Penna d'Autore 2003
Pagine: 71
Prezzo: 8,00 euro
E-mail: mvio@brezza.iuav.it
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PROFILO ARTISTICO
MARINA VIO
Nata a Venezia nel 1948, è ricercatrice universitaria di una disciplina
scientifica. Dopo le solite esperienze di gioventù ha ripreso a scrivere il
giorno di Natale 2001. Dall'ottobre 2002 ha iniziato a inviare racconti a
Concorsi Letterari conseguendo fino ad ora sette primi premi e un'altra decina
tra secondi e terzi posti. Un'altra decina di volte è stata tra i finalisti.
Nell'ottobre 2003, con lo pseudonimo di Anthilia, ha pubblicato per Monti
Zoppelli, collana Smeraldi - «Racconti di Sale», la raccolta di racconti «Eurostar
- sette racconti in treno».
VANILOQUIO È il sei di
maggio. Sono seduto sulla sedia e fisso il mare.
Grandi onde schiumose vengono ad approdare sulla spiaggia e c’è un ritmo preciso
seguendo il quale esse si abbattono sul litorale vuoto di Long Island e
ritornano al largo: secondo il quale esse muoiono e rinascono, manifestando una
legge segreta ma evidente.
Io le osservo e sorrido. Malgrado non lo voglia, mi si inumidiscono gli occhi e
mi sfugge la voce. Flebile, naturalmente: voce di un novantenne. Dico:
«Pure è così. Ed è così per tutto».
Nathan, il grande badante negro che mi siede vicino, pare stupito di queste mie
parole e incuriosito chiede: «Qualche cosa non va? Qualcosa vi disturba, Mister
Hewitt?» Poi, accortosi dei miei occhi pieni di pianto, continua piano: «Andiamo
a casa: può darsi siate stanco!»
Faccio segno di no: muovo la testa. Scuoto pian piano il capo e, forse, altero
il precario equilibrio dei miei liquidi. Sul volto mi scorrono due lagrime...
Nathan le asciuga con dolcezza e mi sussurra:
«Perché dovete soffrire così tanto, Mister Hewitt? Perché? Avete tutto, non vi
manca nulla».
Oh se sapesse!
Giro la testa, perché non voglio che mi guardi negli occhi e mi compianga. Lui
non sa… e tuttavia prosegue:
«Non dovete crucciarvi. Non c’è da avere paura della morte Mister Hewitt: la
morte è un lungo sonno. Tutti torniamo a Dio. Torniamo nelle braccia del Padre,
alla sua casa dove vi è quiete e pace, dove è assente il dolore». E con la bella
voce nera prende a cantare piano: «Nobody knows the trouble I have seen...
Nobody knows, but Jesus…»
Mi sento intenerito: «Cosa ne sai? - gli dico dolcemente - Che ne sai della
morte, amico mio?»
Lui fa confuso: «Nessuno può sapere della morte, Mister Hewitt».
Allora gli confido: «Io la conosco, Nathan: io so cos’è la morte».
Lui non può che tacere.
Insieme, stiamo a guardare il mare.
È un giorno senza sole. L’acqua è grigia, dell’identica tonalità del cielo ma
soltanto più scura. All’orizzonte, limpidissimo, si vede la curvatura della
Terra e da un istante all’altro mi aspetto di vedere il grande pesce d’argento.
Mi aspetto si avvicini silenzioso per annunciarmi la morte che ha negato al mio
corpo e riservata, invece, alla mia anima…
«Io so cos’è la morte, amico mio» dico di nuovo a Nathan e, per la prima volta
nella mia lunga vita, vorrei narrare.
Così sorrido: mi infastidisce la parola vita, pure devo indicare in qualche modo
questa commedia che sono stato costretto a recitare per oltre novant’anni senza
gioire, senza partecipare, senza attendere applausi. E forse, infastidito, muovo
appena la mano: la mia mano sinistra devastata.
Ho un’ampia ustione che segna irrimediabilmente, dalla spalla alla mano, tutto
il braccio e gran parte della schiena. Però, sebbene l’abbia vista mille volte,
Nathan non sa…
Non sa nessuno quanto profonda sia questa ferita che mi è stata mortale!
Pensandolo, il volto mi si segna di dolore e il negro mi domanda: «Vi fa male?»
Io gli rispondo piano: «Non la ferita».
Probabilmente non capisce ma, vinto l’inevitabile stupore, mi sussurra:
«Se voleste parlare... Se mi voleste raccontare, Mister Hewitt… forse potrei
aiutarvi…»
Fisso le onde. Che cosa straordinaria avviene continuamente sotto gli occhi di
tutti e nessuno la vede, nessuno la comprende... Un arcano palese. Direi così:
un manifesto arcano di cui nessuno sa.
Mentre io guardo, il mio badante attende. Ha l’innocenza dell’uomo abituato ad
aspettare che la verità si riveli, che qualcuno la spieghi, che una voce la
porga in una forma piana, come se fosse una notizia qualsiasi…
Posso fidarmi? Ormai non ho più tempo: devo decidere se tenere per me questo
segreto o rivelarlo a un altro che lo tramanderà.
«Ti senti di ascoltarmi, amico mio?» domando quietamente. E poi gli spiego: «Ti
passo la mia pena, ma anche quel segreto che mi ha tenuto in vita per tanti
lunghi anni... Un segreto magnifico: il frutto di una vita!»
Poiché annuisce, dico:
«Devi avere pazienza. Io parlo lentamente, e denudarsi l’anima è un processo
difficile. Però non puoi capire qual è questo segreto, se prima non ti racconto
la mia morte: è infatti solo la conoscenza della morte che può gettare luce
sulla vita».
Non so se egli capisca: non lo credo. E tuttavia, se ascolterà privo di
preconcetti, la verità si inciderà per forza propria nelle pieghe dell’anima e
da lì sboccierà, quando sarà il momento, fecondata da un colpo di destino.
Riprendo fiato e, nel silenzio, si sente solo il mare.
«Quello che ti racconto - dico a Nathan quando riesco a ritrovare forza -
avvenne molto tempo fa: nel millenovecentotrentasette. Avevo allora poco più di
trent’anni, eppure è come fosse ieri. Anzi, è come se succedesse proprio ora
davanti a me: come se fosse proiettato sullo schermo invisibile sul quale posso
vedere tutto ciò che è passato, ma che è presente nel tessuto dell’anima. In
quel presente entro!»
Devo sembrargli pazzo. Sottovoce, mi chiede:
«Entrate dove, Mister Hewitt?»
«Nella mia vita. Nella mia vera vita!» gli rispondo. Ma lui non può capire e,
stupefatto, attende.
Attendo anch’io. Attendo di trovare le parole capaci di svelargli il segreto che
è vivo, ma che ho sepolto nelle profondità del cuore.
Dopo un tempo infinito, dopo che cento onde sono venute a morire sulla spiaggia,
sono rinate e ritornate al mare, dico:
«Non ho più cognizione del tempo. Colpa della vecchiaia, o degli eventi. Pure è
così: vedo ciò che per gli altri è soltanto passato, ma che è attuale per me.
Come posso spiegare? Tutto è un attimo eterno perpetuamente agente. E ciò che
avviene io lo posso narrare soltanto in questo modo: usando il tempo presente».
Non so se Nathan comprenda cosa si nasconde dietro l’enunciazione di questa
aberrazione grammaticale: la scelta del presente per narrare un evento del
passato. Ciò malgrado racconto:
«Avvenne, come ho detto, tempo fa. È il millenovecentotrentasette, e sto in
Europa... Quando ritorno dagli innumerevoli viaggi che compio alla ricerca della
conoscenza, di cui sono assetato, vivo a Berlino. Ma in primavera devo tornare a
casa: l’aria si va incupendo. In maggio, accade che mio nonno…»
«Il Signor Hewitt il vecchio?» mi chiede Nathan, con tono rispettoso della voce.
«Il Signor Hewitt il vecchio, il costruttore della nostra fortuna. Di
quell’immensa fortuna che nemmeno la mia dissennata attività filantropica è
riuscita a scalfire. Muore quell’anno, più o meno a fine estate... A metà
aprile, mio padre mi richiama. Ci sono delle responsabilità cui non posso
sottrarmi, e devo fare in fretta: il nonno potrebbe mancare da un momento
all’altro e vuole rivedermi. Non c’è che un modo…»
Il negro mi ascolta incuriosito con gli occhi sgranati. Che occhi avrebbe se
potesse vedere cos’è l’Europa di allora? Se potesse capire qual è la vita che si
conduce noi, giovani ricchi, ansiosi di creare, di vedere, di vivere?
Il modo per ritornare a casa rapidamente c’è: si tratta di volare. Giorni dopo,
il tre maggio, c’è un volo per New York a quattrocento dollari.
Ormai ho trasvolato l’oceano almeno quattro volte, avanti e indietro dal
Brasile. Per me non è una novità: amo volare. Mi sono già imbarcato sui grandi
pesci d’argento che sanno galleggiare negli oceani del cielo: le chiamano
aeronavi e tutto, dentro a loro, è congegnato in modo da ricavare, nei loro
esigui spazi, il lusso e le comodità dei grandi transatlantici.
Naturalmente serpeggia un certo brivido davanti alla superbia dell’uomo che osa
sfidare il campo della gravità, ma io non sono un pavido.
Fisso gli occhi sul cielo. Lo stesso cielo che oggi viene violato da
innumerevoli carcasse di metallo, pesanti, rumorosissime, il pesce lo attraversa
in un silenzio magnifico.
Il mio silenzio scuote Nathan: «Poi che avvenne, signore?»
«Avvenne che decido di imbarcarmi. Prenderò un’aeronave, la più moderna e bella.
Grandissima. Per dirla come usa ora, è una balena affusolata lunga
duecentocinquanta metri, capace di sollevare in cielo quindici tonnellate. I
suoi polmoni sono duecentomila metri cubi di infiammabile idrogeno: mortale
fiato di drago».
Nathan mi ascolta affascinato, come un bambino.
«Sai? - gli racconto - È come la vedessi proprio davanti a me, sospesa sopra al
prato. Che dico? Ancorata, legata per il naso ad un pilone che la incatena a
terra, dato l’irrefrenabile istinto di volare che la possiede…»
Non so se egli mi creda, ma ciò che dico è vero. Quante volte li ho visti, quei
mostri di metallo, galleggiare come immense balene?
Socchiudo gli occhi, e me li vedo davanti in quello schermo luminoso nel quale è
inciso ogni atto dell’uomo. E con gli atti, le idee e i sentimenti…
Vedo l’alto pilone d’ancoraggio e il grande pesce d’argento che ha abboccato e
si libra maestoso sulla terra. Dal suo massiccio corpo pendono mille funi.
«Vedi? - domando a Nathan - Pare che sia pescata. Pare un tonno, o uno squalo
che l’uomo vuol strappare dalle acque del cielo... e quando l’uomo agisce,
tirando le sue funi, l’aeronave si arrende e scende docilmente a posarsi sul
prato…»
Devo tacere: mi commuovo.
Come se fossi fuori da me stesso, vedo me stesso.
È il tre di maggio. È sera. Indosso una superba sahariana e ho delle splendide
scarpe fatte a mano. La camicia è di seta, il Panama è uno splendido modello...
Ho tutta la baldanza dei trent’anni, della ricchezza e della sicurezza di
muovere verso un futuro meraviglioso.
Nathan non vede: quasi per contentarmi, guarda davanti a sé l’aria di questo
grigio giorno di Long Island e ascolta silenzioso il racconto di cose che non
riesce nemmeno a immaginare.
A un cenno degli addetti, i passeggeri si avviano all’aeronave che è ancora
dentro all’hangar.
Io procedo eccitato e tutto mi si imprime nella mente in maniera indelebile,
come se fossi consapevole di vivere un momento straordinario...
Infatti, nel tumulto, appare lei. Lei, la mia Donna: l’essere che attendo da
millenni, l’altra parte di me. E la sua immagine si incide eternamente nella
vita dell’anima…
continua |